Istituzioni a confronto

La disobbedienza civile non vale solo nei regimi dispotici. È, anzi, il sale della democrazia. A provocarla è, come ha scritto Hannah Arendt nel 1970, «l’incapacità del governo di funzionare adeguatamente». I cittadini sono assaliti dal dubbio sulla legittimità di una legge. Non sanno, però, come esprimerlo, perché l’opposizione è affievolita o tace del tutto. Il timore è di restare inascoltati, mentre il governo insiste in quelle iniziative «la cui legalità e costituzionalità suscitano molti interrogativi».

Parlare di «ribellismo» è pretestuoso. Sarebbe comodo «ridurre le minoranze dissidenti a un’accozzaglia di ribelli e traditori». Ma chi disobbedisce si muove nel quadro dell’autorità costituita. Non viola la legge — la sfida. E la sfida in nome di una legge più alta, di una Costituzione tradita, di una giustizia mancata. Articola il disaccordo pubblicamente e opera per il bene comune, assumendosi la propria responsabilità. Certo che la legge non può giustificare la violazione della legge! Perciò i disobbedienti si muovono ai margini, dove il diritto è chiamato in causa dalla giustizia.

Hannah Arendt (1906- 1975)

Chi avrebbe mai detto che la disobbedienza civile sarebbe salita alla ribalta della cronaca italiana? È avvenuto per iniziativa dei primi cittadini, Orlando a Palermo, de Magistris a Napoli, e altri sindaci che si propongono di sospendere il decreto Salvini. Il che è comprensibile già solo al buon senso: smantellando la rete di accoglienza degli Sprar, e gettando sulla strada migliaia di immigrati, il decreto promette sicurezza, ma produce insicurezza. Un paradossale rovesciamento!

Si sono quindi aggiunte alcune Regioni che del decreto chiedono la costituzionalità. È questo passaggio, però, che lascia l’amaro in bocca a chi crede nella politica. Possibile che tutto debba essere ridotto ad un interrogativo giuridico? Dov’è in questo paese un’opposizione capace finalmente di reggere lo scontro?

Perché qui la questione è eminentemente politica. La disobbedienza può dare voce a quei tanti cittadini preoccupati per l’introduzione di norme che pregiudicano la convivenza. Si tratta di norme apertamente razziste che discriminano chi non è italiano, che istituzionalizzano il sospetto verso i rifugiati (i «falsi profughi»), legalizzano la fobia per gli stranieri, ufficializzano l’odio per i migranti. A chi è nato altrove viene negata la residenza, e con ciò anche tutti quei diritti che dovrebbero essere intangibili, dalle cure sanitarie all’istruzione.

Come se fosse normale lasciare fuori dalla scuola i bambini che avrebbero l’unico torto di essere figli di immigrati; come se fosse normale non prestare cure sanitarie a chi ne ha urgente bisogno, per via della pelle di un altro colore.

Ci sono limiti. I cittadini non sono sudditi e non possono accettare supinamente una legge che, prima dei limiti di costituzionalità, ha superato quelli di umanità

Assurdo sarebbe, semmai, obbedire, avallando quella selezione tra cittadini e immigrati che assurge ormai a criterio di governo. Inquietanti sono le parole del vicepremier Di Maio che assicura il reddito di cittadinanza solo per gli italiani — non per gli stranieri, anche qualora rispondessero a tutti i criteri (ad eccezione di qualche «meritevole»). Ma con questi gesti discriminatori si mette a repentaglio la democrazia che vuol dire uguaglianza.

Dove la difesa dei diritti umani è considerata eversione, la democrazia rischia il tracollo. Di questo dovremmo preoccuparci, piuttosto che incolpare altri, dalla piccola Malta (437.00 abitanti), all’Europa, capro espiatorio di questo governo. Quale immagine dell’Italia viene fuori dal dominante racconto vittimistico? E ci riconosciamo in quell’immagine? Un paese di grandi navigatori, gente del mare, che per due settimane lascia in balia delle onde 49 naufraghi? Non è mai accaduto.

Ben venga allora la disobbedienza per denunciare la bancarotta etica di questa Italia. E chissà quanto profondi saranno i danni, e quanto duraturi!

Arendt puntava l’indice contro la meschinità spensierata, la grettezza senza pensieri, diffuse anche nella democrazia, che vorrebbero imporre a ognuno l’incapacità di «pensare mettendosi al posto degli altri». Proprio in questa facoltà Kant riconosceva la base della convivenza civile. Vista così la disobbedienza è una risposta responsabile.

Donatella Di Cesare, filosofa             Corriere 9.1.19

 

 

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