Il principio della rana bollita

Il filosofo americano Noam Chomsky (1928) per descrivere la Società e i Popoli che accettano passivamente il degrado, le vessazioni del potere, la scomparsa dei valori e dell’etica e accettano di fatto la deriva autoritaria che cresce piano piano ogni giorno utilizzò una “parabola” che si può chiamare il “principio della rana bollita”. I “centimetri di libertà persi ogni giorno” sono l’acqua che si riscalda sempre più, bollendoci e uccidendoci.

” Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita.

Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.

 

Quel centimetro di libertà perso ogni giorno

Verrebbe da dire: quali tempi sono questi quando citare il Vangelo – e il concetto fondativo del messaggio cristiano: ama il prossimo tuo come te stesso – può determinare la reazione furiosa di un gruppo di ultra del ministro dell’Interno. E, tuttavia, si devono mantenere i nervi saldi dal momento che in Italia la libertà di culto non è in pericolo (per la confessione di maggioranza, mentre per quelle minoritarie alcuni rischi si manifestano); e la libertà di pensiero e di espressione è mediamente garantita.

Detto questo, si deve pur notare che sono sempre più numerose le insidie portate alla piena agibilità politica e alla regolarità della discussione pubblica.

Ma, prima ancora, va considerata la catastrofe culturale in corso, della quale già oggi si colgono i primi segnali. Fino a che limite si è gonfiato il sentimento di rivalsa sociale, oscillante tra il registro della stizza quotidiana e quello dell’odio politico, se si arriva a interpretare il messaggio più ‘innocente “come un ‘aggressione” alla propria identità di partito?

Una prima risposta è che quelle parole sono, in realtà, tutt’altro che innocue, proprio perché ribaltano un senso comune che si alimenta di forme di relazione basate sulla nemicità: ovvero una pulsione ostile indirizzata verso il vicino di casa, così come verso l’avversano politico.

Della frase evangelica la parola più sovversiva e scandalosa è forse quel “prossimo”. Ciò perché, in questa fase della storia nazionale, una spietata battaglia culturale e politica viene combattuta esattamente sulle categorie di vicino e lontano. In estrema sintesi, il sovranismo riassume l’identità del qui ed ora, del locale, del simile. È l’autogoverno del proprio territorio e della propria gente, tutto ripiegato e concentrato sul presente: non a caso questa ideologia diffida dell’ambientalismo, in quanto proiettato sul futuro (del pianeta e delle generazioni).

Il nemico è il lontano: una volta era “Roma ladrona ” oggi lo sono l’Europa, gli organismi sovranazionali e le convenzioni e le organizzazioni internazionali. Nemiche sono tutte le teorie, le dottrine, le religioni che intendono avvicinare l’altro e il distante, fino a farli diventare “prossimo tuo “da amare come te stesso. Sotto questo profilo, per quanto sembri incredibile, i commissari europei possono essere detestati e disprezzati quanto i richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan e i migranti in fuga dalla Libia.

Ecco perché quel richiamo al Vangelo può essere interpretato da alcuni (molti?) come un ‘accusa politica, e per certi versi lo è sul serio: tant’è vero che, dal palco del comizio, Matteo Salvini ha dileggiato come comunista il giovane cattolico. Non dico che questo sia stato il ragionamento lucido di quanti a Cremona e in molte altre città hanno aggredito i contestatori di Salvini e gli espositori di striscioni ma in tutti probabilmente è scattata l’associazione mentale tra dissenziente (pacifico e isolato) e nemico.

È così che si può perdere, giorno dopo giorno, “un lembo di libertà “ (come ha scritto questo giornate presentando venerdì scorso la Festa di “Repubblica”). Per difenderli e riconquistarli, quei centimetri di libertà, si può ricorrere al titolo di un libro, pubblicato qualche anno fa da Marino Sinibaldi: “Un millimetro più in là”.

È un ‘indicazione di metodo e di lavoro: procedere con passi pazienti sul tempo lungo, in particolare nei luoghi della formazione e della cultura di massa, per una l’esistenza (con la ”r”  rigorosamente minuscola, mi raccomando) adeguata a questa fase certamente fosca, ma non disperata.

L’episodio di Cremona, infatti, può essere letto in modo rovesciato: un giovane ritiene necessario manifestare in qualche modo un suo dissenso. Come già fece quella signora che, in un vagone della circumvesuviana, apostrofò un teppista che vessava uno straniero: “tu non sei razzista, sei stronzo “; e come l’adolescente di Casal Bruciato, Simone, che tenne testa al militante di CasaPound. E come migliaia di altre persone che fanno altrettanto, senza che le loro azioni diventino pubbliche.

Insomma, l’Italia non è un Paese razzista e la sua democrazia è solida: c’è, ed è potente, un ‘offensiva degli intolleranti e degli illiberali. Ma c’è anche un ‘Italia smarrita e inquieta e, tuttavia, vitale, attiva e accogliente. Credo che sia, nonostante tutto, maggioranza. Il problema, il grande problema, è come tradurre tutto ciò in politica.

Luigi Manconi       La Repubblica  11 giugno 2019


Le botte agli operai e la polizia ai tempi dei decreti Sicurezza

Da Italpizza alla Finimar: due episodi che raccontano le forze dell’ordine “salviniane”

C’è il caso delle proteste di Italpizza, industria di Modena in cui quasi tutti i dipendenti sono assunti da due cooperative che lavorano in appalto e dove nel 2015 i sindacati confederali accettarono un accordo molto penalizzante per i lavoratori. Questi ultimi oggi vorrebbero almeno recuperare il salario del contratto dell’industria alimentare (oggi gli viene applicato quello delle pulizie) e l’azienda ovviamente non vuole: da mesi, più volte a settimana, un reparto della celere consente ai proprietari di Italpizza l’ordinata gestione dell’industria caricando, quando serve, gli operai che protestano all’esterno; ieri, come si vede in un video diffuso online, un poliziotto per motivi oscuri ha preso per il collo un delegato del SI Cobas trascinandolo dietro una camionetta per esporgli, immaginiamo, il suo punto di vista sulla vertenza in atto.

Nel cremonese, invece, ci sono le proteste contro la Finiper, che controlla i supermercati Iper, innescate dal fatto che l’azienda si è rimangiata un accordo firmato in Prefettura mandando in mezzo a una strada 170 facchini, in sciopero da quasi un mese. Venerdì la polizia ha duramente caricato i lavoratori che manifestavano con le loro famiglie e un agente ha pensato bene di mostrare al signor Mansur Cankaya – facchino 56enne di origini turche, iscritto al sindacato Usb – una sua mossa di arti marziali: secondo la denuncia, gli ha stretto una gamba a forbice tra le sue e poi ci si è seduto sopra rompendogli il ginocchio; la foto dell’articolazione postata sui social da un delegato del sindacato fa accapponare la pelle.

Sono due episodi, altri se ne potrebbero citare, che raccontano un mondo: la responsabilità penale è sicuramente personale, e speriamo venga indagata dalla magistratura, quella politica è personale e di gruppo e chiama in causa il governo e, in primo luogo, il “ministro di polizia” Matteo Salvini, l’uomo che ha indicato la via alle forze dell’ordine.

Nei due decreti Sicurezza, infatti, oltre ai provvedimenti sull’immigrazione, ci sono modifiche al codice penale che hanno come centro ideologico, per così dire, la criminalizzazione del conflitto sociale e quello sindacale in primo luogo: dalla reclusione da 2 a 12 anni – assai più di una violenza sessuale o una rapina – per i blocchi stradali e ferroviari (addio picchetti nella logistica) ai 4 anni di carcere per chi fa scoppiare petardi durante una manifestazione o le pene assurde per qualunque reato (persino l’innocua resistenza a pubblico ufficiale) commesso durante una protesta.

La classe, recita il nome di questa rubrica, non è acqua e il classismo del governo gialloverde nemmeno: pare che la polizia, nonostante le interviste “anti-salviniane” del capo Franco Gabrielli, l’abbia capito.

Marco Palombi        Il Fatto  19 giugno  2019


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