La lezione di Socrate
Per lo più si pensa alla resistenza nei confronti del potere come all’azione di un soggetto collettivo il cui comportamento va orientato o addirittura organizzato. Sempre meno ci si interroga su quella dinamica per così dire “an-archica” che nasce dal disagio etico del singolo, si esprime in un rifiuto delle regole del gioco e in certi casi, rendendosi visibile, contagia e si espande sino ad esprimersi in un vero e proprio dissenso politico.

Esiste una tradizione di pensiero minoritaria che fa di Socrate l’irregolare maestro non tanto di una dottrina filosofica quanto di uno specifico modo di vivere che forza i confini tra etica e politica, tra privato e pubblico, tra interiore ed esteriore. È un’eredità paradossale, questa, poiché recupera l’esempio socratico contro gli effetti di quella tradizione che nasce con Platone, i cui dialoghi hanno appunto Socrate come protagonista.

Per di più, gli eredi novecenteschi del socratismo che ho in mente – oltre ad Hannah Arendt, Michel Foucault e Jan Patocka, per nominare i più esemplificativi – non si richiamano alla saggezza socratica in generale, né al suo impegno politico in tempi normali, ma alla forza esemplare di una vita capace di fare scudo contro gli eccessi di potere: dal potere dei luoghi comuni, morali e sociali, al potere delle istituzioni, quando queste eccedono il limite. Il daimon non dice a Socrate che cosa fare, ma gli intima di non attenersi mai al già-giudicato.

La coscienza socratica, ovvero l’effetto-collaterale del pensiero critico, non fa altro che destabilizzare il soggetto nei confronti delle norme stabilite, dei dogmi, delle regole; lo svia dai comportamenti ritenuti ovvi, come se ogni volta dovesse ricominciare da capo a discriminare tra cosa è giusto e sbagliato, a distinguere ciò che è bene e male.

Radicalizzare l’aspetto eretico ed “an-archico” di Socrate è sicuramente un’eredità non semplice da legittimare e da gestire. È una scelta filosofica inattuale che mira a riappropriarsi di figure e di parole della tradizione per restituirci un significato meno astratto e più vicino alle nostre esistenze. Io credo che il dialogo del “due-in-uno” di Arendt, la parresia di Foucault, la “cura dell’anima” di Patocka non si appellino a Socrate per riattivare la nobiltà perduta del pensiero, per farne rivivere quell’essenza che, separata dal corpo, può aspirare alla verità eterna.

Il daimon è il nome per ciò che nel soggetto oppone una resistenza, ciò che fa attrito con la forza ovvia delle circostanze: dalle ingiunzioni autoritarie della politica al ricatto della violenza, dalla pressione unilaterale delle cose all’imperiosa volontà di vita. In una parola è il nome della possibilità, del potere di ciascuno di resistere a un altro potere.

Simona Forti, filosofa (1958),     Repubblica 13.9.15

 

Vedi:  La rana bollita

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