I razzisti sono sempre esistiti. Ma adesso diventano tanti a causa delle parole d’ordine che ci somministra la politica.

Siamo in guerra, anche se il capo dello Stato non l’ha mai dichiarata, come vorrebbe la Costituzione. Navi da guerra presidiano i nostri mari, per respingere l’assalto dei migranti. Con il rinforzo d’aerei militari, motovedette, radar, in virtù dell’intesa stipulata dai ministri Trenta e Salvini. Sorgerà un muro fra l’Italia e la Slovenia, stando all’idea di Massimiliano Fedriga, governatore del Friuli.

E sul fronte interno, impronte digitali ai dipendenti pubblici, come s’usa con i detenuti, e come adesso impone la legge Concretezza (che buffo nome), il cui regolamento è atteso entro fine luglio. Maniere forti con i tifosi di calcio, per effetto del decreto Sicurezza bis, in vigore da giugno. Nuove ordinanze dei sindaci contro barboni e mendicanti (pare che la povertà sia contraria alla pubblica decenza). E più in generale una stretta sui diritti, sulle libertà civili.

Insomma, soffia un vento autoritario. Che si rafforza attraverso la lista dei nuovi divieti, e però non solo. Vi s’aggiunge infatti un atteggiamento d’incuria, d’abbandono verso le istanze dei più deboli.

Esempio: la legge sull’eutanasia. Il Parlamento avrebbe dovuto battezzarla entro settembre, così ha stabilito la Consulta. Invece non caverà un ragno dal buco, dato che il suo esame non figura più nemmeno nel calendario dei lavori. Come del resto qualsiasi altra proposta normativa sui temi etici, ormai diventati eretici.

In compenso fioccano diktat, piovono castighi. A leggere l’ultimo decreto Sicurezza, si contano 5 nuovi divieti; 6 reati; 7 inasprimenti delle pene; 3 misure di sicurezza disposte dai questori. E il buon esempio fa proseliti, si propaga dal Nord al Sud della penisola attraverso le ordinanze sindacali, specie nei piccoli Comuni.

Ne è prova un campionario ristretto agli episodi più recenti. A Cigliano (nel Vercellese) il primo cittadino ha proibito ogni forma d’accattonaggio. Idem a Treviglio (provincia di Bergamo), con una multa di 300 euro, da pagare ovviamente in monetine. O a Terni, dove chi chiede l’elemosina rischia 3 mesi di galera. Mentre a Cinisello Balsamo il sindaco ha vietato la sosta per caravan e furgoni, le case ambulanti in cui vivono i nomadi. L’alternativa è dormire sotto i ponti, ma il 4 luglio a Genova i vigili hanno inflitto 200 euro di multa a un senzatetto, applicando il regolamento di polizia urbana.

Questo accanimento contro gli ultimi determina un’offesa alla Costituzione. Se c’è un tratto, se c’è un segno distintivo nella Carta del 1947, esso consiste infatti nella protezione dei più deboli, di chi versa in condizioni di minorità sociale. I malati (articolo 32). I disoccupati (articolo 4). Gli studenti bisognosi (articolo 34). I detenuti (articolo 27). Gli stranieri (articolo 10). I poveri (articolo 38). E naturalmente vecchi, donne, bambini, cui si rivolge una decina di disposizioni.

Ma i diritti costituzionali hanno bisogno d’un popolo che li sostenga, che se ne faccia interprete. Viceversa l’autoritarismo della società politica contagia la società civile, rendendola più intollerante, più cattiva.

Sicché i femminicidi aumentano (39 casi nell’ultimo semestre). Cresce la violenza sui minori, come ha denunziato un paio di settimane fa l’associazione dei pediatri, durante un’audizione in Parlamento. E in Italia un anziano su 3 subisce a propria volta atti di violenza, secondo dati Oms. E il frutto avvelenato del clima che segna i nostri tempi: l’avvento della «personalità autoritaria», come la definì un celebre studio di Theodor Adorno e dei suoi allievi, condotto all’università di Berkeley negli anni Quaranta.

Ovvero un tipo umano forte con i deboli, debole con i forti. Dunque razzista per vocazione, più che per convinzione.

Tipi così sono sempre esistiti, nelle sacche maleolenti d’ogni società. Ma se adesso diventano un esercito è a causa delle parole d’ordine che ci somministra la politica, della militarizzazione dei conflitti, della criminalizzazione del diverso.

Sennonché in questa guerra non contano il nemico né il pericolo, fantasmi procreati ad arte, come in un teatro d’ombre cinesi. Conta la guerra in sé, l’agire combattente. Il rischio, per l’Italia, è di fare harakiri.

Michele Ainis, costituzionalista       La Repubblica  10 luglio 2019


 

I confini davvero a rischio sono quelli dei valori

La prima impressione è quella di un Paese a un passo dalla guerra, sottoposto a minacce esterne gravissime. Il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto dal ministro Salvini ha sfornato l’idea di schierare la Marina militare e la Guardia di Finanza per «blindare i porti» italiani, ma in realtà per contrastare gli sbarchi spontanei dalle coste africane, di rafforzare la sorveglianza dei mari ricorrendo a radar e aerei militari, di rilanciare per l’ennesima volta gli accordi con la Tunisia per il controllo delle partenze e per i rimpatri: ossia di finanziare un governo nordafricano affinché s’impegni maggiormente nell’ingrato compito di guardia di frontiera esterna.

Surreale suona poi la decisione di regalare altre dieci motovedette alla Libia in guerra, quando anche si è dovuto riconoscere che i porti di quel Paese non sono sicuri: a che cosa serviranno, se non a riportare indietro verso le sue coste persone in cerca di asilo?

Ammesso che sia mai esistita un’’emergenza sbarchi’, parte essenziale della retorica nazional-populista dell’’invasione‘, consideriamo i dati per comprendere se qualche ragione obiettiva possa giustificare l’attuale chiamata alle armi in difesa dei confini marittimi del nostro Paese. Tra gennaio e giugno 2019 sono arrivati via mare in Europa circa 36 mila migranti contro circa 48 mila nello stesso periodo del 2018…). Dunque nel complesso il fenomeno è in calo. I governi della Ue, grazie ai controversi accordi con Turchia, Niger e Libia, sono riusciti a ridurre drasticamente le partenze e a sfuggire ai loro obblighi umanitari. Per di più l’Italia ne è coinvolta ormai solo marginalmente. In testa alla classifica è tornata la Grecia, con oltre 18.000 arrivi nel primo semestre di quest’anno, seguita dalla Spagna con circa 13.000. L’Italia ne ha registrati 2.769, contro un migliaio della piccola Malta così spesso presa a bersaglio.

Tre riflessioni s’impongono. La nuova enfasi sui confini non ha basi obiettive: è simbolica ed emotiva, oltre che selettiva. Non riguarda né i migranti dall’Est europeo, né i diportisti di ogni nazionalità che accedono ai porti come turisti. Trasforma piccoli numeri di persone in stato di necessità in minacce esiziali per la sicurezza nazionale e l’ordine sociale.

Assomiglia a quanto avviene negli Stati Uniti di Trump: il presidente vuole ricorrere a una misura di emergenza e quindi ai fondi del Pentagono per completare il muro, mentre due immigrati irregolari su tre arrivano negli Stati Uniti per altre strade.

In secondo luogo, l’insistenza sull’industria delle migrazioni, ossia sui vari attori legali e illegali che lucrano su chi dal Sud del mondo chiede di attraversare delle frontiere in teoria inaccessibili, tende a far dimenticare i robusti interessi che si muovono alle spalle del fronte opposto, quello dell’industria del controllo delle migrazioni: produzione di tecnologie sempre più sofisticate di identificazione delle persone, investimenti in radar, droni, aerei e altri strumenti per il controllo dei punti di transito, riconversione di tecnologie e apparati militari a scopi di sorveglianza delle frontiere, dispiegamento di forze militari per compiti impropri di polizia. Produzione e vendita di motovedette, viene da aggiungere.

In terzo luogo si profila una battaglia culturale decisiva per l’identità, i valori- guida, il futuro stesso della nostra civiltà. Un passo dopo l’altro le persone in cerca di scampo vengono sempre più identificate come pericolosi invasori, come nemici della nazione.

Chi li soccorre viene criminalizzato, perseguito dalla giustizia, esecrato sui social media (e non solo) per aver collaborato alla violazione dei sacri confini della patria. Accoglienza, solidarietà, diritti umani sono diventati disvalori per il pensiero politico prevalente.

Si vorrebbe mettere a tacere persino il Papa, che ha ricordato ancora una volta, e secondo un insegnamento costante del magistero cattolico, che «per Dio nessuno è straniero». Con ogni evidenza, non si tratta soltanto di accogliere dei profughi, ma di definire i valori su cui intendiamo fondare la nostra convivenza e il nostro futuro.

Maurizo Ambrosini      Avvenire   13/ 7 /2019


 

Il M5S non crede più a niente. Perciò è disposto a credere a tutto.

Luigi Di Maio è diventato negli ultimi anni la brutta copia, ma non meno estremista, del suo alleato di governo Matteo Salvini. Quando parla di immigrazione non ha più dubbi, mosso da certezze che non rispondono a un piano organico per gestire i flussi migratori, ma solo all’indice di gradimento del suo partito. Analizzare l’ideologia del M5S in materia di immigrazione è sempre più difficile, così come lo è ricostruire la sua evoluzione nel corso degli anni, viste le differenze tra i suoi vari esponenti di rilievo e le frequenti contraddizioni che si sono susseguite nel corso degli anni.

Nel 2002 il fondatore del M5S Beppe Grillo, che adesso vuole “sospendere i trattati di Schengen e rimpatriare tutti gli irregolari”, invitava a non alzare muri e a “ringraziare il cielo” per i migranti che “vengono in Europa per cercare lavoro e pagano le nostre pensioni al posto dei figli che non facciamo”. Ancora nel 2008, prima di dare vita al Movimento, sosteneva che “la gente va via per non morire, perché c’è una guerra, un maremoto, come fai a fermarli? Bisogna creare delle strutture intelligenti e inserirli piano piano, perché è gente straordinaria”.

Qualcosa è cambiato quando nel 2012 il Parlamento ha affrontato il dibattito sullo Ius Soli: sul suo blog Grillo (e anche Gianroberto Casaleggio, da sempre più rigido sul tema dell’accoglienza) ha scritto che “la cittadinanza a chi nasce in Italia è senza senso. O meglio, un senso lo ha. Distrarre gli italiani dai problemi reali per trasformarli in tifosi”. L’allora consigliere di Bologna Massimo Bugani osò ribellarsi ai diktat del comico sostenendo che “Non sono d’accordo con Beppe Grillo. Glielo dirò, lo chiamerò e poi affronterò le conseguenze. Al massimo torno a fare il fotografo”. Non sappiamo se veramente parlò con Grillo, ma di sicuro non è tornato a fare il fotografo, dato che è diventato uno degli uomini chiave del Movimento, socio di Rousseau (insieme a Davide Casaleggio) e vice capo della segreteria particolare di Luigi Di Maio.

Nel 2014, quando due parlamentari M5S hanno proposto l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, Grillo e Casaleggio, preoccupati di perdere il controllo sui loro parlamentari, hanno condannato l’idea sul blog mettendola ai voti con un referendum tra gli iscritti in cui ha trionfato il sì. Dopo l’autogol, Grillo non ha abbandonato la linea dura contro i migranti, ribadendola con un post intitolato Il ritorno delle malattie infettive #tbcnograzie. Dopo la denuncia del pericolo di malattie che sarebbero portate dagli immigrati, l’autore del post anonimo ha scritto che “i triti e ritriti confronti degli italiani come popolo di migranti che deve comprendere, capire, giustificare chiunque entri in Italia, sono delle amenità tirate in ballo dai radical chic e dalla sinistra che non pagano mai il conto e da chi non vuole affrontare il problema”.

L’attacco più duro del blog risale però al 2016, quando il terrorista responsabile dell’attentato ai mercatini di Natale a Berlino è fuggito in Italia dove è stato ucciso durante un controllo di polizia. In quell’occasione Grillo e il suo staff arrivano a sostenere che “l’Italia sta diventando un vivaio di terroristi” e che “adesso è il momento di agire e proteggerci”, con due misure proposte in precedenza solo dalla Lega. Prima: in caso di attentati in Europa, andava rivisto e sospeso in via temporanea il trattato di libera circolazione di Schengen. Seconda: “tutti gli irregolari devono essere rimpatriati subito a partire da oggi”. Per il nuovo Grillo i migranti non vanno più ringraziati, ma fermati con “una certa rudezza e assunzione di responsabilità”, perché è “giusto impedire lo spaccio di false speranze”, con buona pace dei sogni e delle aspirazioni di una vita migliore di quelli che poco più di dieci anni fa erano “uomini straordinari”.

Negli anni a venire le posizioni dei vari grillini sul tema migrazione sono state spesso il risultato di un mix di umori popolari e superficialità, come quelle del sottosegretario agli esteri Manlio Di Stefano, sostenitore di falsità come il fatto che noi italiani “non abbiamo una tradizione coloniale, non abbiamo sganciato bombe su nessuno” o che la nave Sea Watch 3 avrebbe dovuto riaccompagnare i migranti in Libia, che parte del governo si ostina a ritenere un porto sicuro.

Merita un discorso a parte Alessandro Di Battista che inaugurò la sua carriera parlamentare nel 2013 sfidando apertamente Grillo sullo Ius Soli sostenendo che “Lui non è un parlamentare. Io sono favorevole allo Ius soli”. Negli anni Di Battista ha rivisto la sua posizione in linea con quella dominante nel M5S accusando la stampa di aver stravolto ancora una volta le sue affermazioni. Nel primo anno di governo gialloverde Di Battista è stato identificato come uno degli esponenti di punta dell’ala moderata del M5S, anche se alla domanda su come spiegherà a suo figlio la vicenda della Sea Watch ha spiegato che “gli spiegherò che papà ha combattuto prendendo anche posizioni scomode”. Qual è la posizione scomoda? “Garantire il più possibile il diritto a casa propria”.

Di Battista ha sposato la propaganda contro le Ong cavalcata da Salvini e riproposto gli attacchi di chi le accusa di sfruttare mediaticamente le persone che salvano dal mare: “Anche per sfruttare quei disperati, la nave se ne sta 14 giorni al largo di Lampedusa quando poteva prendere quei disperati e magari portarli a Marsiglia. Ma in quel caso l’Europa avrebbe scoperto che Macron si sarebbe comportato nello stesso identico modo di Salvini”. Senza nessuna prova, nome o dato a supporto della sua tesi, Di Battista è arrivato anche a sostenere che l’immigrazione clandestina sia diventata una fonte di finanziamento pubblico per alcuni partiti, dato che “Ci sono personaggi politici che non riuscivano più a campare con i finanziamenti pubblici e si sono interfacciati con altre forme di business. Una di queste, appunto, è lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina”.

Su nessuna prova si basano anche le parole di Luigi Di Maio sui migranti. Nel 2017 il leader del M5S è stato il primo a coniare il termine di “taxi del mare”, basandosi sulle ipotesi infondate del pm di Catania Carmelo Zuccaro di contatti tra Ong e scafisti. Nell’aprile di quell’anno il futuro vicepremier ha scritto su Facebook: “Chi paga questi taxi del Mediterraneo? E perché lo fa?”, promettendo ai suoi sostenitori che “Presenteremo un’interrogazione in Parlamento, andremo fino in fondo a questa storia”.

Quando Roberto Saviano criticò le sue parole, rispose con sicurezza che “A Saviano consiglio di ascoltare sempre le procure e la magistratura non solo quando parla (meritoriamente) di camorra nei suoi saggi e nei suoi film. Il M5S vuole la verità sulle Ong e andrà fino in fondo sia nelle sedi italiane che in quelle europee”. A distanza di due anni dalle indagini di Zuccaro e dalle premature sentenze politiche di Di Maio e del suo alleato di governo Salvini non è rimasto altro che la percezione distorta che molti italiani hanno del lavoro delle Ong.

Nell’epoca dei complottismi la verità giudiziaria non conta e Luigi Di Maio continua a portare avanti la sua crociata contro le Ong. Le sue parole finiscono spesso in secondo piano rispetto a quelle di Salvini, ma non sono meno preoccupanti: “Le Ong hanno trovato il nuovo palcoscenico”, ha sostenuto riferendosi alla nave Sea Watch. “Vanno nelle acque libiche, prendono persone che potrebbero essere salvate dalla marina libica, se le mettono in barca, vengono in Italia e iniziano lo show sulla pelle di questi poveri disperati”.

In occasione del recente caso Mediterranea, il vicepremier non ha perso neanche l’occasione per accusare “i parlamentari Pd che stanno già mettendo il costume per tornare su quest’altra nave”, con un lessico che sembra un copia e incolla da una diretta Facebook del suo omologo Salvini. Quando il presidente della Camera Roberto Fico prova a ricordargli le differenze tra M5S e Lega sulla gestione dell’immigrazione e la tutela delle minoranze nel nostro Paese, Di Maio risponde sempre che “Io e Roberto su queste questioni siamo molto diversi”, e che sui porti chiusi “Quelle di Fico sono dichiarazioni che rispettiamo, ma non è la linea del governo”.

Proprio nell’azione di governo si trova la spiegazione del non pensiero del M5S in tema di immigrazione. In mancanza di una minima idea e visione sociale, economica, politica, storica, la condizione necessaria per la sua esistenza è la continua ricerca del consenso, anche quello più effimero ed estemporaneo.

La linea dura del governo sulla gestione dei flussi migratori è il mezzo ideale per ottenerlo: un  sondaggio realizzato da Ipsos per Il Corriere della Sera tra il 2 e il 4 luglio ha evidenziato che il 59% degli italiani condivide molto o abbastanza la scelta di Salvini di chiudere i porti alle Ong. Ma il dato davvero interessante per Di Maio e il suo partito è che tra gli elettori del Movimento  l’approvazione nei confronti della scelta di Salvini sale addirittura al 77% (maggiore di quella tra gli elettori di Forza Italia). Solo il 15% di chi ha votato Di Maio non è per nulla d’accordo con la linea leghista, ma questi valgono poco per un partito che si è sempre definito fiero nell’essere privo di ideologie e, nella gestione dei migranti, anche privo di un’idea.

Proprio per questo è un partito disposto a credere a tutto, e per questo sempre più pericoloso per la democrazia del nostro Paese.

Francesco Oggiano        in The Vision 10 Luglio 2019

 

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