Dacci la nostra precarietà quotidiana. Le origini del vangelo neocapitalista
Tradotto in Italia il saggio del 1999 di Boltanski e Chiapello. La contestazione del ’68 come apripista della società neoliberale

Mancava ancora, nel nostro Paese (dove, peraltro, si traduce di tutto), un volume pubblicato in Francia nel 1999 con un certo successo di vendite. Un piccolo best-seller decisamente particolare, perché rappresenta una monumentale genealogia culturale dei mutamenti di quell’araba fenice che risponde al nome di capitalismo. Stiamo parlando de Il nuovo spirito del capitalismo dei sociologi Luc Boltanski ed Eve Chiapello, arrivato soltanto adesso nelle librerie italiane (per i tipi di Mimesis, pp. 728, euro 38). Albert Hirschman, Karl Polanyi ed Emile Durkheim quali numi tutelari, una tutt’altro che sottaciuta vis polemica nei confronti di Pierre Bourdieu (di cui Boltanski, direttore di ricerca onorario della parigina École des Hautes Études en Sciences Sociales, fu allievo), questa ponderosa decostruzione intellettuale del neoliberismo proponeva un esame lungimirante dell’evoluzione tardo-novecentesca dei paradigmi della cultura del business (presa molto sul serio, come andrebbe appunto fatto, e come ai francesi, quando ci si mettono di esprit de géometrie, riesce alla perfezione…).

Dunque, altro connotato originale del libro, sguardo radicale sì, ma niente aura radical, nel nome di una terza via tra Marx (del quale si intende perpetuare la critica a quella che gli studiosi considerano l’ideologia capitalistica) e Weber (all’insegna dell’avalutatività dell’indagine come requisito essenziale per uno scienziato sociale)Punto di partenza di questo recente classico della teoria sociologica è l’osservazione di come il capitalismo, regime dell’accumulazione illimitata, porti sempre con sé una serie di quadri valoriali e cornici normative: in termini weberiani, il suo «spirito» (o, come potremmo dire ora, il suo immaginario).

Valeva, alle origini, nel clima religioso instaurato dal protestantesimo ascetico di calvinisti, anabattisti e puritani, che agevolò la sua nascita, come nei tempi attuali pullulanti di analisti simbolici e informatici al servizio di Apple o Facebook. Dopo il primo spirito del capitalismo familiare ottocentesco, è stata la volta del secondo (quello del fordismo e della grande impresa), fino alla formazione, nel trentennio 1970-1990, del terzo, capace per la prima volta di introiettare buona parte delle contestazioni che gli erano state mosse nel passato, convertendole in punti di forza.

Il ’68 mosca cocchiera
Proprio nel volume di Boltanski e Chiapello si ritrova infatti l’intuizione originaria – largamente argomentata sotto il profilo teorico e puntellata per via empirica (dall’analisi comparata dei manuali di neomanagement degli Anni Novanta allo studio di varie fattispecie di degrado della condizione lavorativa dei ceti operai e delle classi medie) – di come il Sessantotto abbia generato la logica che innerverà il neocapitalismo (e, quindi, anche l’economia digitale e delle multinazionali dell’high tech). Il rigetto dell’autorità e della gerarchia sviluppato dai movimenti di quell’epoca – autentico punto di svolta per le società occidentali, e motore «spirituale» della fuoriuscita dal sistema produttivo fordistico – costituisce la premessa di quelle innovazioni organizzative che hanno cambiato il mercato del lavoro e radicato il modello dell’impresa flessibile e a rete. Novità diventate il pilastro di un capitalismo cognitivo fondato sulla Rete per antonomasia, e certificate da una letteratura di organizzazione aziendale che, avvertivano già parecchi anni fa Boltanski e Chiapello, andava considerata, per molti versi, alla stregua di una trattatistica e precettistica morale.

Contro la gerarchia
Dove si predica e raccomanda il coinvolgimento dei dipendenti (trasformati in collaboratori) all’interno di dinamiche «orizzontalizzate» e friendly, come pure la loro autonomia e intraprendenza, perché dalla creatività dipende sempre maggiormente il profitto, a partire dalla new economy tecnologica; come avviene nelle imprese della Silicon Valley che mettono a disposizione dei propri lavoratori una nutrita lista di utilità (dalle palestre alle sale di relax e meditazione, fino ai Google bus), mediante le quali stimolare la talentocrazia e le idee da mettere «in produzione».

Non per niente il neocapitalismo ha saputo incorporare le rivendicazioni libertarie e le istanze anticonformistiche e di autenticità brandite dalla critica artistica esplosa negli Anni Sessanta e Settanta, a cui ha risposto tanto sul piano delle metodologie organizzative del lavoro che mediante la moltiplicazione dell’offerta di merci e la produzione di beni sempre più identitari e «personalizzati».

Nel mondo fluido
Precisamente il mondo fluido in cui viviamo, dove il neoliberismo si è fatto così avvolgente da generare la crisi della stessa critica politica. Mentre aumentano le forme di sfruttamento del lavoro e si precarizzano fortemente le esistenze, come sottolineano i due sociologi, auspicando una rinascita della critica sociale in chiave appunto artistica e creativa, e il passaggio a uno stadio nel quale le persone non vengano più messe incessantemente alla prova, né costrette a «vite a progetto».

Massimiliano Panarari     La Stampa 6.3.15

 

Il libro:   L. Boltanski, E. Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo,  ed. Mimesis 2014,  € 32

 

vedi: Il vero nemico? La rassegnazione

La partita truccata del capitalismo

L'esperimento su Atene: svuotare la democrazia

Tentazioni, consumo, mercato e religione

Debito e colpa

L’Europa ha bisogno di un cuore

Dello spirito libero

Tra politica ed economia

Licenzia per profitto e tradisci la Carta

Psicopolitica e neoliberismo


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