La sentenza 25.201 della Cassazione del 7 dicembre 2016 (cfr. articolo di Luisiana Gaita del 30 dicembre 2016 su ilfattoquotidiano.it), circa la liceità del licenziamento per opportunità di profitto, merita di essere letta nelle sue parti conclusive: “Anche la Carta sociale europea (ratificata con I. n. 30 del 1999), all’art. 24, si limita a stabilire l’impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo e tra essi pone quello ‘basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa’. […]— In definitiva la ragione inerente all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa.

Senza carattere di esaustività, ma solo in via esemplificativa sulla scorta di casi già esaminati dalla Corte ed innanzi richiamati, la modifica della struttura organizzativa può essere colta nella soppressione della funzione cui il licenziato era addetto, nella cd. esternalizzazione della sua attività a terzi, nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze, nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto.

“Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della I. n. 604 del 1966, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa’”.

A ulteriore rinforzo si richiama: “che la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro ‘non è sindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità’, in ossequio proprio all’art. 41 Cost.”. La sentenza allarga dunque considerevolmente la casistica invocabile per il “giustificato motivo oggettivo” sin qui richiesto per i licenziamenti.

Non sono un giurista, ma un lettore, e come lettore debbo tuttavia constatare che l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sancisce che: “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. Ora, per l’Italia, la prassi nazionale è vincolata dal Codice Civile e dalla Costituzione.

Il Codice civile italiano, intanto, conferisce ai contratti un’efficacia cogente: “Efficacia del contratto – Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalle legge” (art. 1.372). Il profitto incrementabile di uno solo dei contraenti ha forza di legge?

Infine: l’invocato (ai fini della legittimità del licenziamento) art. 41 della Costituzione italiana, va letto per intero. Esso ammette sì, al primo comma, che “L’iniziativa economica privata è libera”, ma orienta chiaramente e condiziona strettamente tale principio nel successivo comma: “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Ed è appena il caso di ricordare che l’art. 41 altro non fa che conformarsi all’art. 1 della Costituzione, cardine di tutto il nostro ordinamento democratico: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

L’iniziativa economica privata non può dunque svolgersi contro, o a prescindere dalla, “sicurezza, libertà, dignità umana” del lavoratore: il profitto di uno dei contraenti non essendo motivo sufficiente a sciogliere il contratto stesso.

Giorgio La Pira, nelle tormentate e splendide sedute della Costituente che presiedettero alla formulazione dell’art. 1, arrivò più precisamente a proporre: “Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione, adeguata negli organismi economici, sociali e politici, è condizione del nuovo carattere democratico” (seduta del 16 ottobre 1946). Togliere lavoro, per i padri costituenti, significa sgretolare tutta la struttura sociale e privare una società della dignità democratica.

Sono nato in quell’anno e di quella Costituzione – tuttora vigente, se non ricordo male – resto figlio; queste sentenze testimoniano soltanto del cumulo di rovine che è cresciuto sulla nostra dignità di cittadini.

Carlo Ossola       Il Fatto  3 gennaio 2017

 

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