GLR – CONSIDERAZIONI   (64)

ANNO V DEL REGIME SANITARIO-ECOLOGICO-DIGITALE

Le altre “GRL-CONSIDERAZIONI ” le trovate  QUI

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Seconda parte delle nostre proposte di riflessione su cosa sia veramente l’Europa e sul significato di votare o non votare l’ 8/9 giugno 2024.

La prima parte, a cui vi rimandiamo assolutamente, la trovate QUI.

 

 

 

 

 

 

Guerra, democrazia e tramonto dell’Europa

Uno dei problemi del vivere in stati non democratici è la possibilità che la popolazione sia gettata in un conflitto bellico suo malgrado. Dal tintinnio di sciabole che si ode oggi in Europa, possiamo nutrire seri dubbi che i nostri siano stati democratici.

Se così fosse, non sarebbe normale che un capo di stato parli della guerra come di un orizzonte probabile quando la sicurezza della propria popolazione è lungi dall’essere messa in pericolo.


Ma la realtà è che noi non viviamo in sistemi democratici.


Forse viviamo in delle liberal-democrazie, ma queste sono lungi dallo spartire qualcosa con il concetto di democrazia.

Il termine nasce nel sistema delle polis greche e indica un tipo di governo in cui il popolo esercita direttamente il potere. E il popolo poteva decidere di qualsiasi questione, compresa la guerra. Oggi sarebbe impensabile un potere del genere nelle mani dei cittadini. Nessuna guerra moderna è stata decisa dal popolo.


Tutta la retorica liberale, dal XIX secolo in poi, si è concentrata sulla possibilità di conciliare la prassi democratica con il suo rovesciamento di senso. Ossia su come conciliare il termine democrazia con la privazione del potere decisionale in capo al popolo. Persino un tema grave e vitale come la guerra esula dal potere decisionale del popolo.


C. B. Macpherson, nel 1977 con il suo  La vita e i tempi della democrazia liberale, distingue tre modelli teorici della democrazia liberale.

Il primo è quello che ha al centro l’utilitarismo di Bentham e James Mill, per i quali la democrazia deve far ottenere la maggior felicità per il maggior numero di persone possibili. La felicità in quel modello consiste nel possesso di beni materiali, quindi è misurabile con la quantità di  beni posseduta.

Il secondo prende vita da John Stuart Mill, per il quale la felicità non corrisponde al possesso materiale di beni ma alla possibilità che gli individui hanno di coltivare le proprie qualità morali e intellettuali.  Rispetto agli utilitaristi, Mill si pone il problema  delle disfunzioni provocate dal sistema capitalista con il portato di ingiustizia e disuguaglianza. Lungi dal rifiutare tale sistema, non riconoscendo che le disfunzioni sono il portato dei meccanismi insiti al capitalismo, pensa di riformarlo attraverso l’estensione del suffragio a tutti i cittadini, donne comprese, e attraverso la promozione di un sistema di cooperative di produttori. Ma per evitare un dominio di classe, teorizza il voto plurimo che favorisce le persone con una certa istruzione e con un determinato censo. La teoria di Mill incontrerà rinnovato vigore nella prima metà del Novecento, quando si rende manifesto che il voto delle classi popolari non porta a un dominio di classe.

Il terzo modello è quello che parte dalle osservazioni di Schumpeter e viene ripreso dalla scienza politica novecentesca. La democrazia è completamente avulsa da qualsiasi fine e consiste meramente in un metodo che deve avere determinate regole. La classe politica perde il ruolo di rappresentanza, perché non si può rappresentare chi non è in grado di assumere delle decisioni razionali e consapevoli. E la stragrande maggioranza della popolazione è in tale stato di minorità. Gli individui, più si allontanano dalla propria sfera lavorativa e familiare, più sono incapaci di comprendere i fenomeni che sono chiamati ad analizzare.

L’unica decisione che possono prendere i cittadini è la scelta tra attori politici che svolgono il ruolo di imprenditori elettorali e che agiscono come i produttori sul mercato economico, mettendo in campo delle vere e proprie campagne di marketing politico. Le persone non scelgono in base a programmi, che tra l’altro non sono realmente alternativi, ma in virtù delle corde emotive che gli imprenditori riescono a far vibrare.


Se la scienza politica novecentesca, attraverso la sua descrizione, ha avuto il merito di alzare il velo di ipocrisia delle liberal-democrazie, ha giustificato lo stesso sistema affermandone l’ineluttabilità, dati i caratteri dell’individuo, le sue propensioni e i suoi interessi.

La democrazia corrisponde a un metodo che deve avere determinati requisiti, quali pluralità dell’offerta politica e delle opinioni, libertà di stampa, di associazione, di riunione. In realtà, la pluralità dell’offerta politica è solo di facciata.

La pluralità di opinione viene sempre più contrastata, come abbiamo visto prima durante la pandemia poi con i conflitti ucraino e medio-orientale.

La libertà di espressione e di manifestazione si deve misurare con un apparato repressivo sempre più feroce. In sostanza, anche la forma tanto cara alla scienza politica novecentesca viene meno.


Macpherson pensava a un quarto modello che chiamava democrazia partecipativa e la cui realizzazione era favorita dalla consapevolezza da parte della popolazione delle disfunzioni del capitalismo in termini di costi ambientali e umani.

Ma l’autore scriveva alla fine degli anni Settanta, ossia nel momento più caldo delle proteste anticapitaliste e probabilmente nella fase più matura delle democrazie liberali occidentali. Con la reazione neoliberale degli anni Ottanta e il successivo crollo dell’URSS, tale prospettiva è stata spazzata via.


La realtà è stata resa più aderente alla teoria schumpeteriana e più adatta a un turbocapitalismo che, in nome dell’ideologia del mercato concorrenziale, ha fatto strame del pluralismo ideologico. Non di fine dell’era delle ideologie bisogna infatti parlare ma della fine del pluralismo ideologico.


I centri del potere globale sono sempre più autoreferenziali. La guerra ucraina è stata preparata oltreoceano per poi essere scatenata dalla Russia. Una reale volontà di pace non è mai stata contemplata nei centri della decisione globale, e questo nonostante le popolazioni non abbiano propensione bellica.

Oggi, la prospettiva della guerra, per l’insensatezza e il potenziale distruttivo che la caratterizzano, richiama alla mente l’inutile strage degli inizi del XX secolo.


Probabilmente, alla base, c’è l’idea che la guerra, col suo corollario di distruzione, morte e ricostruzione, è l’unico modo per far ripartire un’economia stagnante.


O ridare vitalità a un capitalismo di cui la crisi ambientale mette in luce contraddizioni insanabili. Ma occorre comprendere che un eventuale conflitto non avvantaggerebbe l’Europa, fulcro dello scenario bellico. Quel tramonto dell’Occidente, che Oswald Spengler intravedeva alla vigila del Prima guerra mondiale, sarà portato a compimento dalla Terza.

D’altra parte, siamo in linea con quanto prevede uno studio di Goldman Sachs sulle maggiori economie mondiali nel 2075. Nessun paese europeo figura tra le prime dieci potenze.

Ora, le elezioni europee costituiscono l’occasione per contrastare i folli disegni della classe dirigente del vecchio continente. Se è vero che i cittadini sono tali solo nella cabina elettorale, per poi tornare sudditi appena ne escono, vi sono altresì circostanze in cui tale momento sovrano è gravido di conseguenze.

Fare una scelta sulla base di una propensione per la pace o la guerra delle liste in competizione, costituisce l’unico strumento che le popolazioni, che non condividono il fatto che quello bellico sia uno scenario probabile, posseggono per riaffermare la propria sovranità.


Porre la pace al centro della scelta elettorale rappresenta l’unico comportamento sensato e un’iniezione corroborante di una democrazia fortemente claudicante.


Fabrizio Venafro, https://www.lafionda.org/ 7/6/2024

Fabrizio Venafro, laureato in scienze politiche, lavora presso il Ministero dell’Interno e scrive su diverse riviste online, quali Volere la luna e Sbilanciamoci.

 

 

 

 

 

 

Le inutili elezioni europee, i vincoli di guerra e altro ancora

La narrativa dominante propone il mito iconico di un’Unione Europea (UE) che sfiora il campo della religiosità, un mito destinato a sfarinarsi se solo si trovasse il coraggio di scendere sotto la superficie.

Pochi lo fanno, i più preferiscono tenersi a giusta distanza, contenti di digerire le quotidiane menzogne per pigrizia, disinteresse o timore di scoprire che quell’imbroglio premeditato merita il cassonetto dell’indifferenziata!

È sufficiente lo sguardo di un adulto normale (nel senso etimologico, vale a dire che rispetta la norma e la logica) affinché la menzogna si sfaldi, facendo emergere la funesta realtà di una gigantesca mistificazione.


La macchina tecnocratica europea, con gli ingombranti deficit di democrazia, viene somministrata a una popolazione priva di consapevolezza (oltre che di strumenti di accesso) da parte di individui deprecabili, i quali – poco importa se consapevoli o meno – si piegano da decenni a un disegno devastatore in cambio di onori, carriere e prebende.


La pervasività di tale intelaiatura devastatrice possiede una portata che in alcuni paesi (l’Italia, ad esempio, mentre Francia e Germania si sono ben guardate di giungere a tanto!) sopravanza persino la dimensione giuridica e valoriale di una Costituzione straordinaria come la nostra, nata, è bene ricordarlo, dalla vittoria su fascismo e nazismo, che mirava alla costruzione di un mondo di pace e avanzamento sociale.


Ma veniamo al punto. Per una decente decifratura degli accadimenti, vincendo la pratica di luoghi comuni ben più nocivi di un totale analfabetismo, occorre superare la barriera distorsiva che impedisce di incamminarsi sul percorso della comprensione.

Un esempio manifesto di raggiro terminologico è costituito dal termine Unione (in corsivo il sostantivo). È verosimile ritenere che la maggioranza dei cittadini europei ne faccia uso senza riflettere, nell’inconsapevole convincimento che esso, seppure in modo indistinto o ideale, sia espressione di un processo caratterizzato da valori positivi quali democrazia ed eguaglianza sociale, o comunque di una progettualità di rilevanza strategica.

Il quotidiano ricorso a una terminologia, verosimilmente costruita da menti perverse, punta a catturare la buonafede di cittadini politicamente analfabetizzati, mentre è chiaro come il sole che in Europa vi sono mari e monti, ricchi e poveri, fiumi, laghi e via discorrendo, ma non v’è certo alcuna Unione né di diritto né di fatto, e mai ci sarà.

Non potendo avere la realtà, dunque, si ha il nome. E tale assenza, va precisato, deve considerarsi una fortuna, come vedremo più avanti.


Il progetto messo a punto è stato un inganno antidemocratico sin dal suo esordio, avendo escluso deliberatamente ogni possibile coinvolgimento dei cittadini: nessun popolo europeo vi ha mai partecipato in nessuno dei passaggi cruciali.

 

Quando alcuni popoli sono stati consultati (olandesi e francesi, nel 2005, sulla cosiddetta costituzione europea), questi l’hanno sonoramente bocciata. Ma i padri fondatori se ne sono infischiati, cambiando solo il nome, non più Costituzione Europea, ma Trattato di Lisbona, e tutto è proseguito come programmato: una dittatura tecnocratica costituisce oggi la negazione di quei principi di democrazia che vigono nelle costituzioni nazionali.

Un certo numero di cittadini europei presume (in modo confuso, specie gli italiani) che il termine Unione rifletta l’esistenza di uno Stato Confederale (un inganno palese, dal momento che in tal caso i paesi membri non avrebbero perduto la sovranità istituzionale e monetaria).

Un secondo gruppo ritiene che l’Ue, sebbene non sia ancora uno Stato Federale, lo sarà però ben presto, dopo queste elezioni o le prossime. E a tal fine avrebbe già forgiato gli organi corrispondenti: un governo, un Parlamento, una Banca Centrale, un giorno persino un esercito comune e via farneticando.

Se ancora non hanno completato la parabola, tali organi saranno comunque perfezionati in un prossimo futuro, dando così vita a un modello di democrazia persino superiore rispetto a quello esistente all’interno dei paesi membri.

La maggioranza, poi, pur consapevole che nell’odierna Unione Europea non esistano lineamenti di stampo federale o confederale, reputa tuttavia che a Bruxelles o altrove in Europa (a Berlino e Parigi, nella mente dei più furbi) qualcuno stia lodevolmente lavorando al faticoso progetto di costruire gli Stati Uniti d’Europa, o qualcosa di simile.


Nessuna di tali fantasie, ahimè, risponde al vero. L’ipotesi di edificare uno Stato Europeo Federale simile agli Stati Uniti d’America non è contemplata in nessuno dei Trattati istitutivi o dei testi giuridici che hanno segnato il percorso costruttivo di tale imbroglio.

Quell’ipotesi non è mai stata evocata in alcuna dichiarazione politica dal 1955 (conferenza di Messina) ad oggi.

Il Direttorio Europeo che guida la locomotiva (vale a dire Germania e Francia) l’ha sempre apertamente respinta, evidenza questa singolarmente ignorata dalla narrazione diffusa in Italia (e in altri paesi gregari), dove la classe politica, destra, centro e sinistra (questo termine, invero, andrebbe diversamente qualificato), diffonde l’umiliante ideologia che il perseguimento della sovranità nazionale (costituzionale, per di più) condannerebbe l’Italia alla deriva. Un altro dei tanti misteri dolorosi della nostra storia.


La sinistra, in particolare, che con la caduta del muro di Berlino era rimasta orfana della religione sovietica, ha abbracciato il fascino infantile della chimerica prospettiva europeista, piegandosi al nichilismo del Grande Capitale Transnazionale, nell’incapacità di disegnare un percorso autonomo, politico e sociale, attraverso la formulazione di una diversa sintesi ideologica centrata sui perenni bisogni dell’uomo e gli interessi nazionali.


Al termine della guerra fredda, in assenza di una coraggiosa rielaborazione del crollo del comunismo novecentesco (non v’è spazio per elaborare oltre), l’inettitudine intellettuale di quella dirigenza ha decretato la sostanziale scomparsa della prospettiva socialista anticapitalistica.

Da allora, la sinistra parla di diritti e non di bisogni, di cittadini e non di lavoratori, di elettori e non di popolo.

Servizi sociali, salariati e classe media pagano tuttora un prezzo altissimo sull’altare del falso mito europeista, che con la retorica del vincolo esterno va distruggendo le fondamenta dello Stato, vilmente accusato di corruzione endemica e turpe dissipazione di risorse.

Oggi gli elettori e le élite di sinistra vivono nei quartieri-bene, mentre salariati e disoccupati sono relegati nelle lontane periferie, dove non a caso fanno scelte reazionarie.


In quegli anni cruciali, 1989-1992, si assiste dunque a un’accelerazione del processo di ristrutturazione economico-istituzionale dell’Europa.

 

La democrazia viene gradualmente sottratta al livello statuale e affidata a una classe di funzionari non-eletti, con enormi privilegi e al servizio dell’oligarchia finanziaria euro-transnazionale.


La ragione primaria della mistificazione del disegno federale europeo ha d’altra parte natura strutturale, in assenza del necessario sottostante, vale a dire di un popolo europeo, indispensabile affinché possa affermarsi il principio di solidarietà.

In Italia la ricchezza viene prodotta nel Centro-Nord ma distribuita a che nel Sud, poiché tutti si riconoscono nella medesima nazione, nel medesimo popolo. Si può immaginare il successo di un eventuale partito che nel Nord Europa proponesse di trasferire parte della ricchezza colà prodotta verso i paesi del Sud Europa in difficoltà, paesi notoriamente corrotti e poco propensi a lavorare.


L’Unione è oggi una mescolanza ossimorica non-democratica di illogico rigore e profonda confusione, amministrata da funzionari non eletti, la cui carriera e stipendi stellari trovano base giuridica su norme indecifrabili per un cittadino europeo mediamente colto.


Ben pochi in Europa hanno tempo e coraggio per leggere le norme costituzionali europee, vale a dire il Trattato sull’Unione Europea (TUE, il Trattato di Maastricht), il Trattato che modifica il trattato sull’Unione Europea (TFUE, Trattato di Lisbona) sul funzionamento dell’Unione europea o il TCEE (il Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea).

La rinuncia a tale lettura è del resto comprensibile, trattandosi di testi illegibili, che rinviano da una norma all’altra, ricchi di addendum e note a margine, volutamente involuti e concettualmente arcigni, un labirinto incomprensibile, fabbricato per nascondere, non per spiegare, che considera i cittadini dei sudditi chiamati a obbedire senza capire.


I principali organismi dell’UE meritano un cenno sintetico. Essi sono, come noto, la Banca Centrale Europea, veicolo di trasferimento di ricchezza pubblica a banche private e di cui media e governi asserviti continuano irresponsabilmente a difendere l’indipendenza (che è in realtà asservimento ai mercati o al più alla Bundesbank!), la non-eletta Commissione Europea, composta da solerti maggiordomi dell’oligarchia che l’ha nominata; un finto Parlamento privo di quel potere che ovunque ne caratterizza l’essenza, quello di fare le leggi: votare o non votare, il dilemma che attanaglia molti cittadini nel nostro Paese, non inciderà per nulla sull’inutilità di tale Assemblea!

Sul tema dell’invereconda subordinazione dell’Italia nei riguardi dell’UE, basti riflettere sulla circostanza che l’atto di maggior rilievo che il Parlamento italiano è ogni anno chiamato ad approvare, la legge finanziaria, deve essere preventivamente sottoposto al via libera della Commissione per poter essere discusso, ed eventualmente approvato in sede nazionale.

Sulla carta, le leggi europee, che hanno prevalenza giuridica su quelle interne, vengono preparate dai Commissari, sebbene nella realtà sono i funzionari della Commissione a farlo sotto la quotidiana pressione delle lobby industriali, i cui uffici fanno da corona ai suntuosi palazzi di Bruxelles.

Quelle leggi, fatte proprie dalla Commissione, e dopo un passaggio formale all’Euro-Parlamento, sono definitivamente approvate dal Consiglio, sempre e solo – beninteso – se Germania e Francia sono d’accordo.

In buona sostanza, un cumulo di oltraggi.


L’illegittimità di tale autoritarismo preter-costituzionale, che potremmo chiamare neo-costituzionalismo tecnocratico, ha consentito alle élite neocapitalistiche di imporre ai popoli europei (in specie ad alcuni, come quello italiano) politiche antisociali che sarebbe stato altrimenti assai difficile far passare all’interno dei singoli paesi, dove le resistenze sarebbero state feroci.


Insieme alla sottrazione di sovranità politica, il deficit democratico europeo ha oppresso il mondo del lavoro, degradato i servizi sociali, portato al massacro le economie dei paesi del Sud e criminalizzato il ruolo dello Stato in economia, a beneficio delle oligarchie globaliste, in complicità con quelle dei paesi saccheggiati, poiché gli interessi congiunti tra le classi dominanti prevalgono sempre su quelli dei popoli di appartenenza.


In Italia, la destrutturazione della statualità democratica accelera vistosamente con il Trattato di Maastricht, adottato nel 1992 senza alcun coinvolgimento popolare.

Uno strumento cruciale di tale impostura è stata la moneta comune, troppo debole per la Germania e troppo forte per i paesi del Sud.

Senza un governo redistributore, tale strumento monetario continua tuttora ad arricchire il Nord, depredando l’Italia e altri pigs.

Con la moneta unica F. Mitterrand intendeva imbrigliare nel solco europeo l’inevitabile risorgere dell’economia e del nazionalismo tedesco. La storia insegna però che talora le azioni intenzionali generano conseguenze non intenzionali. Diversamente dagli ingenui intenti del presidente francese, quindi, l’euro non ha reso più europea la Germania, ma solo più tedesca l’Europa.

A partire da Maastricht i paesi europei perdono il potere di coniare la loro moneta, di imporre limiti alla circolazione dei capitali, di legiferare su temi economici e finanziari senza la luce verde di Bruxelles-Berlino, di stipulare trattati commerciali con paesi terzi, di proteggere le frontiere secondo leggi democraticamente approvate, all’insegna del cosmopolitismo delle élite (da non confondere con l’internazionalismo, che costituisce l’alleanza tra ceti subalterni di nazioni diverse).


Nella complicità di media e intellettuali improvvisati, s’impone l’egemonia della subalternità al mondialismo.

Il populismo (un termine usato con intento dispregiativo che accumuna poveri, disoccupati, sottoccupati, inoccupati e una classe media falcidiata) e il sovranismo diventano i nuovi nemici etimologici.

Per limitaci a quest’ultimo, esso presenta una duplice accezione, la prima con caratteristiche capitalistiche e reazionarie, la seconda di stampo democratico-sociale e partigiana del risveglio dello Stato, baluardo cruciale contro la mano invisibile dei mercati, perennemente affamati di profitto.


Sin dall’inizio, il capitale multinazionale aveva assegnato all’Unione Europea il compito di demolire l’indipendenza dello stato, il solo dispositivo istituzionale che a determinate condizioni consente ai ceti subalterni di opporsi al dominio della bulimia neoliberista e corporativa.


È appena il caso di rilevare che la stigmatizzazione dalla tecnocrazia liberista-euro-mondialista non comporta la negazione dei legami storici, culturali ed economici tra le nazioni europee.

In un ipotetico, virtuoso percorso alternativo, la recuperata sovranità costituzionale (essenza connaturata a qualsivoglia entità statuale, che nulla ha a che vedere, è appena il caso di rilevare, con il nazionalismo novecentesco) consentirebbe di aprire una nuova stagione di cooperazione, dove anche i paesi minori potrebbero meglio tutelare i loro legittimi interessi.

Nei tempi cupi presenti, il deficit di indignazione popolare si può in parte giustificare con la forza dell’oscuramento mediatico e della macchina della propaganda. Sconcerta invece quanto mai la cecità e l’inerzia delle rappresentanze politiche e sociali delle classi oppresse.


Sotto un diverso profilo, infine, non si può tralasciare un altro aspetto inquietante, che alimenta il convincimento di una inedita, pericolosa militarizzazione della macchina distorsiva europea.

La norma che merita rilievo è quella che obbliga i paesi membri alla difesa collettiva, la cui adozione come al solito non ha mai democraticamente coinvolto i cittadini.

L’art. 42 punto 7 del Trattato di Lisbona, sebbene l’UE non sia un’alleanza di natura militare, ma solo politico-economica-monetaria, afferma che:

“Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri”.

Mentre dunque l’art. 5 del Trattato dell’Alleanza Atlantica è di semplice accezione e sancisce il principio di difesa collettiva tra paesi appartenenti alla Nato (aggredire uno stato significa aggredirli tutti), il menzionato articolo equivalente per l’Unione Europea è più involuto, ma afferma il medesimo concetto: se un paese viene aggredito gli altri sono tenuti a intervenire.

Se dunque l’Ucraina dovesse entrare nell’UE, ma non nella Nato, il risultato non cambierebbe, tanto più che in tale ultima circostanza è assai improbabile che gli Stati Uniti non trovino modo di coinvolgere la Nato, da essi guidata.

Un pasticcio resta un pasticcio, e di solito serve alle oligarchie al potere per perseguire i loro intenti, raramente in linea con i bisogni dei popoli.

Quando si utilizza il termine Unione Europa, non è dunque superfluo riflettere sulla differenza di senso che gli esseri umani riservano alle parole che utilizzano: una rettificazione dei nomi, come già Confucio proponeva in Cina nel V secolo a.C, risulterebbe di grande utilità anche nell’Europa del XXI secolo.

Alberto Bradanini, https://www.lafionda.org/     6/6/2024

Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i diversi numerosi incarichi ricoperti, è stato Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

 

 

 

 

 

 

Quirinale e Banca d’Italia, le “alici” nell’UE delle meraviglie

Il discorso di Mattarella Domenica 2 Giugno, festa della Repubblica, dove ha parlato di sovranità europea. “Con le elezioni consacriamo la sovranità europea”.

Esiste la sovranità europea? Le parole del governatore di Banca d’Italia Fabio Panetta: «L’Italia non è condannata al declino, affrontare la zavorra debito» “Serve un flusso maggiore di migranti”, ma è fuga di giovani e lo riconosce IlSole24Ore stesso che ha intervistato il governatore.

La nostra intervista a GILBERTO TROMBETTA giornalista economico e all’economista GABRIELE GUZZI.

 

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