L’eguaglianza è il principio su cui si fonda l’Occidente. Ma se questo concetto è messo in discussione che cosa resta della nostra identità? Una riflessione a partire dal nuovo saggio di Aldo Schiavone

Di quanta eguaglianza ha bisogno una democrazia per mantenere le sue promesse? Una misura non c’è, salvo quella inventata dal buonsenso pratico degli antichi, secondo cui la dimensione ideale della città democratica doveva consentire ad ogni cittadino da muoversi da casa non prima dell’alba, per partecipare all’assemblea, e di poter ritornare dalla sua famiglia non dopo il tramonto.

Un raggio democratico, che si preoccupava di includere, garantendo uguali condizioni di accesso alla partecipazione politica. Poi l’uomo inventò il concetto di rappresentanza, fu capace di spogliarsi del potere diretto di decisione per trasmettere la sua sovranità a soggetti delegati, chiamati a fare le leggi e a esercitare un controllo sul potere.

Quindi l’allargamento del diritto di voto realizzò l’eguaglianza nel momento supremo della scelta elettorale e la quantità diventò qualità della democrazia, che trovava così le sue basi universali: il viaggio sembrava compiuto.

E invece ci troviamo all’improvviso nell’età della disuguaglianza, anzi un passo oltre, perché sotto la spinta della crisi che distrugge ricchezza e posti di lavoro, le differenze si sono trasformate in esclusioni. E mentre la democrazia tollera la disuguaglianza (anche se non le fa piacere e chiede alla politica di correggerla) non può tollerare l’esclusione, perché la corrompe contraddicendola alla radice.

Quella radice viene naturalmente dalla Grecia, 430 anni prima di Cristo, come testimonia un frammento di Antifonte, allievo di Anassagora: «Per natura siamo tutti assolutamente uguali, sia Greci sia barbari. Tutti infatti respiriamo l’aria con la bocca e le narici. E ridiamo quando siamo felici e piangiamo quando siamo afflitti ».

L’idea di eguaglianza, che compare qui per la prima volta come un dato naturale, fisiologico, meccanico, corporale, supera già subito i confini politici e geografici della città, estendendosi ai barbari, come se ci fosse una coscienza dell’umano capace di andare oltre i vincoli di terra, di sangue, d’interesse.

Erodoto battezza il governo del popolo con “isonomia“, l’eguaglianza della legge, «il nome tra tutti più bello», Aristotele vede nella polis «una comunità di uguali », Pericle infine lega insieme democrazia e uguaglianza: il sistema ateniese è una democrazia «perché si regge non su pochi, ma sulla maggioranza » e perché il cittadino viene scelto per le cariche pubbliche non «in base alla sua ricchezza più che per la sua virtù», né la povertà e «l’oscurità della condizione» diventano un impedimento «se qualcuno può fare qualcosa di buono per la città».

Era sempre un’eguaglianza ristretta, monca e limitata, perché valeva per i maschi e i padroni, non per le donne e gli schiavi. Una distinzione discriminante che Aristotele fa risalire alla natura: «Il maschio rispetto alla femmina è tale che per natura l’uno è migliore, l’altra peggiore, e l’uno comanda, l’altra è comandata», mentre «chi, essendo uomo, non appartiene per natura a se stesso, ma a un altro, è per natura schiavo».

Quando irrompe il diritto romano, creerà un meccanismo giuridico dell’eguaglianza capace di attraversare i secoli, garantendo nelle controversie tra i cittadini un trattamento imparziale ed equidistante, con regole di civile convivenza ribadite dai sacerdoti come un oracolo sacro, e modelli astratti in cui venivano incasellati i casi da giudicare, riducendoli a calco meccanico, per evitare squilibri nel giudizio e interferenze del potere.

«Custodite gelosamente il diritto civile – ammoniva Cicerone – perché se lo si mette da parte manca ogni misura d’eguaglianza che possa valere per tutti». Tutti, naturalmente, meno gli schiavi e le donne. Gaio inserisce gli schiavi tra le persone, poi li enumera tra le cose: «un fondo, un vestito, uno schiavo», Ulpiano distingue, spiegando che «per il diritto civile gli schiavi sono nulla, mentre per il diritto naturale tutti gli uomini sono uguali».

Manca l’anello finale, che proietti questa uguaglianza di natura in parità giuridica, ma arriva prima il Vangelo, con la sua fraternità dirompente che nasce dall’amore di Dio, anche se quest’eguaglianza non diventa un progetto politico o sociale, perché è rinviata e spostata al regno dei cieli. Mentre s’indebolisce l’egemonia dello ius romano, Tertulliano pronuncia la parola che lega insieme il soggetto titolare di diritti (Agostino lo chiamerà per la prima volta individuum ) e l’oggetto della creazione divina: persona.

Da questa fondazione del concetto nell’antichità Aldo Schiavone parte per il suo viaggio intorno allo sviluppo di un’idea costitutiva dell’identità dell’Occidente, in un saggio ( Eguaglianza , Einaudi) che è un percorso storico, ma anche una pagina di filosofia del diritto e infine e soprattutto un’analisi preoccupata della democrazia contemporanea.

Un’idea che sboccia compiutamente nell’età della modernità, gli ultimi due secoli, grazie al lavoro che scolpisce le classi sociali, che entra in rapporto da un lato con la tecnica e dall’altro con lo Stato, recupera la dignità dell’uomo, trova la forza storica per dominare socialmente e culturalmente un’epoca. Prima, mentre si costruisce il nuovo Stato, si scopre l’individuale, indispensabile per ogni formulazione dell’eguaglianza, ignoto all’antichità.

Attorno al motore dell’industria nascente si combinano così due elementi, l’individuo che lavora, produce, desidera e consuma e lo Stato che disciplina, sorveglia, punisce e regola, mentre emerge – il “particulare” di Guicciardini la coscienza delle differenze, la ricchezza della diversità, che compone l’universo dell’eguaglianza attraverso la crescita dell’individuale, che comincia a riempire lo spazio storico.

È un’epoca di grande pensiero, Hobbes, Locke, Kant, Hegel, Ricardo, Rousseau, cercando il nesso tra individuo, lavoro, e quell’eguaglianza che sta uscendo dai confini della filosofia e della religione per caricarsi di forza e di passione politica, grazie all’Illuminismo.

Ed è un’epoca di rivoluzioni. Quella americana trascina l’eguaglianza all’interno del processo costituzionale del Paese, la porta dentro l’atto fondativo della nazione, con un passaggio decisivo, che cambia l’epoca e apre la modernità democratica in Occidente. È il nuovo Dio dell’Eguale – nonostante il principio non valesse per gli schiavi, i neri, i nativi americani e per molti stranieri –, celebrato nell’incipit della dichiarazione d’indipendenza dei 13 Stati: «Noi riteniamo evidente che gli uomini siano stati creati uguali, che sono dotati dal loro creatore di diritti inalienabili, tra cui i diritti alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità». Tocqueville appena sbarcato nel Rhode Island scriverà di essere colpito dall’«eguaglianza delle condizioni, che è il fatto generatore dell’intera società, non una formula astratta ma una struttura culturale profonda, una mentalità».

La rivoluzione francese accomuna anch’essa gli uomini fin dalla nascita, tace sul Creatore, riconosce i diritti di libertà, proprietà, sicurezza, resistenza all’oppressore, legittima le distinzioni sociali se sono fondate sull’utilità comune. Quasi a disegnare uno spazio per l’eguaglianza nel diritto e nella politica, e uno spazio per le differenze nell’economia. Si delineano due diversi profili dell’eguaglianza, uno formale, che definisce i diritti e garantisce i soggetti titolari, e l’altra sostanziale che riguarda le condizioni economiche e sociali della vita quotidiana dell’individuo. Dal primo profilo discenderà la cultura democratica liberale, dal secondo deriveranno le teorie socialiste.

Ma nemmeno il “grande Iddio democratico” invocato da Melville nel Moby Dick mette la nuova coppia democrazia-eguaglianza al riparo dalle disillusioni. «Le istituzioni democratiche – ammonisce Tocqueville – risvegliano e lusingano il desiderio di eguaglianza senza poterlo mai soddisfare appieno». E aggiunge: «Questa completa eguaglianza ogni giorno scappa di mano al popolo, proprio nel momento in cui esso crede di averla afferrata, e fugge con una fuga eterna». Eppure, il secolo «è eminentemente democratico», garantisce Tocqueville.

E infatti in Europa l’idea di eguaglianza, che già si era fatta politica, diventa una grande questione sociale, nel cuore della cooperazione conflittuale tra capitale e lavoro. Proprio il lavoro crea una nuova relazione sociale, esce dalla fabbrica diventando un’idea-forza, icona viva dell’emancipazione possibile.

Con Marx il concetto di eguaglianza diventa un progetto, si lega alla lotta di classe per lo scambio disuguale tra lavoro e salario, e potrà realizzarsi solo con un modello economico alternativo: che prenderà la forma della rivoluzione russa del ’17, capace di intercettare il tema chiave della modernità (cioè l’inclusione delle masse popolari emarginate) ma condannata a scambiare lo Stato con la società, cristallizzando il suo carattere giacobino in dispotismo, quasi che il dispotismo – paradosso supremo e impronunciabile – diventasse la condizione dell’eguaglianza.

Mentre cambia il clima sociale, l’analisi di Schiavone scopre un percorso inquietante anche per l’oggi: masse di individui, per nazionalismo o per classismo si consegnano «a un contratto sociale fondato non sulla cittadinanza ma sull’ideologia, mentre la democrazia appare inefficace e invecchiata di fronte a società ansiose di affidarsi a nuovi regimi di salvezza, investendo un leader di consenso totale in cambio di una promessa di riconoscimento e di riscatto.

Una promessa sentita tanto più autentica quanto più offerta fuori da ogni garanzia». Così proprio i primi decenni del Novecento calpestano la democrazia in Europa mettendo a rischio il suo futuro, e l’eguaglianza deve fare i conti con un modello di società organizzata nella cultura antiegualitaria del nazismo e del fascismo. Ma se guardiamo tutta la curva del secolo, vediamo che l’eguaglianza diventa il tema insieme centrale e universale.

La forma e la sostanza rimangono ancora distinte, ma nascono col welfare nuovi diritti sociali – dall’istruzione alla salute – che riducono la distanza. È questo che Schiavone chiama il “revisionismo” dell’eguaglianza, anche se forse il concetto più appropriato è “riformismo”, attorno alla figura del cittadino-lavoratore, proponendo quell’alleanza tra capitalismo, lavoro, democrazia, welfare che Ulrich Beck vede come il nucleo stesso della civiltà occidentale.

Ma ecco che l’ultima rivoluzione tecnologica seppellisce l’età del lavoro classica, che con la produzione di merci materiali creava una socialità forte e delineava una civiltà. Capace di metamorfosi, il capitale assume la forma tecno-finanziaria in un mondo delocalizzato che produce merci immateriali ad alta intensità tecnologica.

Si dematerializza la nostra vita, che sale nel cloud, saltano i legami sociali, il lavoro perde potere contrattuale e immagine pubblica, si svalutano le attività che non sono fondate sulle nuove tecnologie e i nuovi saperi, e con loro si svaluta l’esistenza stessa di fasce di popolazione, mentre scompaiono le classi – retroterra della cultura democratica – sostituite «da sformati serbatoi di rancore e di paura».

Il populismo, dice Schiavone, non è altro che il grido disperato e impotente contro la nuova aristocrazia capitalistica globale.

A questo punto resta la domanda sul perché non sia nato un pensiero forte alternativo, un’ipotesi concorrente, un’obiezione culturale, visto che il bisogno di uguale non è mai stato così forte, e l’Occidente risponde a questa richiesta (che sta trasformando l’eguaglianza nella nuova misura mondiale) smarrendo il sentimento della condivisione, il senso profondo della sua tradizione e della sua civiltà, aprendo abissi di disuguaglianza al suo interno.

Se la prossima società nascesse sulla disuguaglianza, aggiungendo alle antiche discriminazioni nuovi squilibri, accessi riservati, innovazioni escludenti, l’Occidente si inabisserebbe, «inghiottito dalla sua negazione, perché l’eguaglianza è la trama della sua identità».

Schiavone pensa che per evitarlo si debba ripartire da un nuovo modo di essere uguali, con un uso condiviso dei beni comuni. Io credo che si debba ricominciare dal lavoro, riappropriandocene e restituendogli un senso politico e un ruolo nella costruzione del sociale, come elemento della democrazia.

Intanto, arrivati fin qui, diventa inevitabile rovesciare la domanda iniziale, cercando una responsabilità generale: di quanta democrazia ha bisogno l’eguaglianza, per sopravvivere anche in tempi come questi?

Ezio Mauro      Repubblica  28/11/2019

 

Vedi:  Chi è di destra, chi è di sinistra

Macchè democrazia, siamo una Repubblica

Non c’è economia senza diritti

Superare le disuguaglianze

Pensiero Urgente n°163)

Pensiero Urgente n.223)

 


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