Il virus esiste ma non come è raccontato dai media e dal governo. Esso è un grande paravento dietro cui nascondere il progetto del “Grande Reset“, il progetto di una governance mondiale del Big Money, dei grandi miliardari, a cominciare dall’Italia. Per cui ciò che sta succedendo non è “per il nostro bene” ( come afferma il povero covidiota mascherato, tamponato e, fra poco, vaccinato). Ciò che sta succedendo è invece per il “loro bene”, i loro affari, il loro potere ingordo. E noi (o ciò che rimane di noi) ne saremo schiacciati, soggiogati alla biopolitica, allo stato terapeutico e alla dittatura digitale.

Chi afferma questo viene bollato, insultato, disprezzato, infamato come “NEGAZIONISTA”. Gli articoli che seguono e il video vogliono dare un contributo importante per capire chi è il “Negazionista” veramente, sperando che lo diventiate anche voi. Arricchite questo importante articolo con gli approfondimenti che trovate a questo link:  http://www.gruppolaico.it/category/rassegna-stampa/emergenza-rassegna-stampa/.

Perchè il “Negazionista” vero è uno che studia, ricerca e riflette. E’ uno che non è migliore in assoluto ma ha conservato un bene prezioso: il SENSO CRITICO, proprio come dice Gandhi. (GLR)

 

 

LA PAROLA COME ARMA: CHE COSA SIGNIFICA IL MARCHIO “NEGAZIONISTA”?

La parola sta all’anima come la medicina al corpo”. Così il filosofo Gorgia (filosofo greco, 485 a.C.- 375 a.C., ndr) spiega l’importanza della parola. Secondo lui infatti, essa ha una grande potenza ed è una “gran dominatrice”: ha il potere di corrompere la mente e di ingannare l’opinione pubblica. Oggi più che mai.

Video “virali” del tizio o della tizia che gliele canta ai «negazionisti»; titoloni sul pericolo «negazionisti»; invettive contro i «negazionisti»; satira sui «negazionisti», grasse risate! I «negazionisti» sono ovunque, ed è colpa loro se le cose vanno male. Ecco allora i nostri eroi, i prodi che li contrastano, gettando loro guanti di sfida: «Vengano in terapia intensiva, i negazionisti!»

«Io dico sì a tutto, per non farmi dare del negazionista.»

Sono sfide a nessuno, invettive contro fantasmi, colpi sparati nella nebbia. Chi sarebbero i «negazionisti»? Sì, esistono frange secondo cui la pandemia sarebbe finta, ma sono ultraminoritarie. In genere, nemmeno chi è aperto a fantasie di complotto su Bill Gates, i vaccini e quant’altro nega che sia in corso una pandemia e che il virus uccida. E allora di chi si sta parlando?

Il termine «negazionista» ha ormai una storia pluridecennale. Coniato negli anni Ottanta per definire personaggi come David Irving, Robert Faurisson o Carlo Mattogno, secondo i quali nei lager nazisti non sarebbero esistite camere a gas né sarebbe avvenuto alcuno sterminio sistematico di ebrei e altri prigionieri, in seguito è stato esteso a sempre più ambiti, diventando un’arma nelle culture wars del XXI secolo.

In Italia, negli ultimi quindici anni, se n’è appropriata la destra per accusare di «negazionismo» chiunque smontasse le sue narrazioni – bufale storiche incentrate su fantasie di complotto antislave – sulle «foibe» e l’«Esodo istriano-dalmata». In quel modo, mentre una narrazione risalente al collaborazionismo filonazista diventava “storia di Stato” con l’istituzione del Giorno del Ricordo, la destra poteva fingere di occupare il “centro” del dibattito sulla memoria storica. In parole povere, poteva denunciare gli “opposti estremismi”: c’è chi nega la Shoah e c’è chi “nega le foibe”, stessa roba.

E dato che – nonostante l’opposizione di gran parte delle storiche e degli storici – anche in Italia si è introdotta una legge «anti-negazionisti» (lo ha fatto il governo Renzi nel giugno 2016), a essere agitato è anche lo spettro dell’azione giudiziaria. È proprio di quest’anno una proposta di Fratelli d’Italia per estendere l’attuale legge ai «negazionisti dei massacri delle foibe».

L’effetto di framing è quello della Reductio ad Hitlerum: su qualunque tema e questione si attiva un implicito – e a volte esplicito – paragone con il negazionismo della Shoah, e tramite una catena di false equivalenze si accelera il ciclo della Legge di Godwin: in men che non si dica ti danno del nazista, perché se sei “negazionista” – poco importa riguardo a cosa – sei come i nazisti.

Da tempo l’uso del termine «negazionismo» segnala un buttarla in vacca, e sarà sempre più così, perché il termine incoraggia l’indolenza, si presta ad accuse pigre. Quel che è più grave, il termine spinge verso la patologizzazione dei discorsi sgraditi e la psichiatrizzazione dell’avversario: se non sei d’accordo con me che la penso “come tutti” allora “neghi la realtà”, e chi nega la realtà è un folle o un demente, e coi folli o i dementi non si può ragionare.

Torniamo all’ossessione odierna per i «negazionisti del Covid»: andando a vedere, si scopre che «negazionista» è un epiteto scagliabile contro chiunque critichi l’irrazionalità e/o iniquità di un provvedimento o anche solo si mostri scettico sulla sua efficacia, chiunque smonti un esempio di mala informazione mainstream sul virus o reagisca sbuffando all’ennesimo titolo strumentale, chiunque ricordi le responsabilità del governo o dei governatori, chiunque rifiuti la narrazione dominante incentrata sull’«è colpa nostra, non ce la possiamo fare, gli italiani capiscono solo il bastone». Persino chi “indossa male” la mascherina si becca l’epiteto di «negazionista». Il «negazionista» è il nuovo «quello che fa jogging».

Uno pseudo-concetto che fa danni

L’uso indiscriminato ha reso l’epiteto non solo di scarsa utilità per capire quali posizioni si stiano di volta in volta scontrando, ma lo ha reso proprio tossico.

Qualcuno ancora cerca di usare il termine in modo che produca senso. Nella migliore delle ipotesi, si brandisce un’arma concettuale spuntata; nella peggiore, si lancia un vero e proprio boomerang, perché l’effetto di framing è fortissimo e il termine genera inevitabilmente dicotomie, antinomie, pensiero binario.

Arma spuntata. Quando si parla di disastro climatico, dove pure un negazionismo – in senso stretto e in senso lato – è stato a lungo operante, godendo anche di finanziamenti da parte dell’industria dei combustibili fossili, l’accusa funziona sempre meno e sta diventando un cliché, un tic lessicale, una manifestazione di pigrizia, come già in altri ambiti. I negazionisti stanno da tempo ricalibrando i loro discorsi, oggi davvero poca gente sostiene che non sia in corso un surriscaldamento globale. Le argomentazioni speciose riguardano l’entità del fenomeno, le sue cause e il come farvi fronte.

Effetti boomerang e pensiero binario. Anche noi, in coda a un post di qualche settimana fa, abbiamo scritto che chi accusa chiunque di «negazionismo» è il più delle volte negazionista, perché nega ogni evidenza sull’irrazionalità dei provvedimenti e sulle responsabilità politiche nella gestione della pandemia. Un paradosso che abbiamo scelto di non sviluppare, perché sviluppandolo avremmo rilegittimato l’uso del termine e rafforzato un frame pericoloso. Ha provato invece a svilupparlo Giancarlo Ghigi in un articolo uscito sul sito di Jacobin Italia e intitolato «I due contagi».

Ghigi divide l’opinione pubblica in due schieramenti o due «tifoserie»: i negazionisti del morbo e i negazionisti del disciplinamento. L’articolo dice molte cose giuste, ma stabilisce dal principio una falsa omologia: almeno nella società italiana – ma crediamo valga per tutta l’Europa e gran parte dell’Occidente – i «negazionisti del morbo» sono un’infima minoranza, costantemente ingigantita al microscopio dai media e tirata in ballo per esecrare il dissenso, mentre il «negazionismo del disciplinamento» è maggioritario, impregna il discorso ufficiale e dà forma alla narrazione dei media filo-governativi.

Quando Ghigi esorta a «riconoscere il morbo come oggettività», di chi parla? Chi davvero non sta «riconoscendo il morbo come oggettività»? Quant’è utile stabilire un’omologia tra chi negherebbe l’esistenza del virus e chi prende sottogamba la gestione autoritaria e capitalistica dell’emergenza, se il primo atteggiamento è in gran parte effetto di una proiezione gigantografica mentre il secondo è ideologia dominante? Alla fine, l’esito è quello di riproporre gli “opposti estremismi”, con l’autore che si pone “nel giusto mezzo”. Come ci ha detto un compagno con cui abbiamo commentato il pezzo di Ghigi, «intuisco le buone intenzioni, ma si è come ubriacato della sua stessa dicotomia».

Detto questo, ci è drammaticamente chiaro a chi pensasse Ghigi denunciando il «negazionismo del disciplinamento». Quest’ultimo gonfia il non-detto di una “sinistra”,  anche e soprattutto “radicale” e “di movimento”, che in nome dell’emergenza – vissuta dal principio in modo subalterno – ha rinunciato a esprimere qualunque critica ai dispositivi in atto.

Lo s-piazzamento della «sinistra»

Con poche e lodevoli eccezioni, l’area politica che per inerzia abbiamo continuato a chiamare «il movimento» – un rado reticolo di centri sociali, collettivi universitari, radio indipendenti, librerie, cooperative e segmenti di sindacati di base – si è legata da sola mani e piedi. Lo ha fatto nel momento in cui ha deciso di sposare la narrazione colpevolizzante e securitaria imposta dalla «dittatura degli inetti», e questo è accaduto subito, prima ancora del 9 marzo.

Con l’autunno, l’area è rimasta spiazzata – anche in senso letterale: esclusa dalla piazza – dalle proteste e rivolte contro i dpcm, e adesso prova a far vedere che c’è anche lei, finendo per emettere proclami confusi, contraddittori, inefficaci. L’idea di fondo è ancora che si debba chiedere un «reddito di lockdown». Più è duro il «lockdown» – e lo si auspica duro, per stangare i furbetti dell’aperitivo e i genitori permissivi – più deve essere universale il reddito. La situazione immaginata corrisponde agli arresti domiciliari di massa con lo stato che ci versa un sussidio sul conto corrente.

A parte che questo è un incubo huxleyano, rivelatore di un’idea miseranda di vita umana, qualcuno dovrebbe spiegarci perché e per come ciò potrebbe o dovrebbe realizzarsi. Perché lo diciamo «noi»?

Chi davvero non ha reddito, da che mondo è mondo, si organizza per protestare, lottare e ottenerlo. L’ultima cosa che fa è accettare o addirittura chiedere d’essere recluso.

Qualche giorno fa abbiamo visto gli operai Fiom di Genova scendere in strada e arrivare anche all’attrito con la polizia per protestare contro i licenziamenti, che in teoria sono bloccati, ma fatta la legge trovato l’inganno. In molti luoghi di lavoro i lavoratori e le lavoratrici si organizzano ogni giorno per rivendicare il diritto di fare assemblee sindacali in presenza, negli spazi adeguati, perché i padroni  – privati e pubblici – hanno iniziato a negarle o a declinare ogni responsabilità in caso di contagio: sei buono per andare a lavorare ma non per fare l’assemblea sindacale.

I riders manifestano ormai con una certa frequenza, con flash mob per strada, cioè precisamente sul loro luogo di lavoro. I cosiddetti intermittenti della cultura e lavoratori dello spettacolo sono scesi in piazza in varie città per ricordare a tutti che stanno alla canna del gas. Per non guardare all’estero, dove abbiamo visto lotte di piazza importantissime in questi mesi pandemici, perfino in un paese devastato come gli Usa, dove il movimento Black Lives Matter ha dato una spallata importante alla presidenza di Trump contribuendo a non farlo rieleggere.

Le lotte le puoi fare se ti prendi lo spazio e l’agibilità per farle, non se ti fai recludere. Se invece il reddito è una rivendicazione puramente ideale, astratta, allora sì, va bene anche chiederlo dal divano.

Una “spia” di quanto sia astratto il discorso è che, nelle varie convocazioni e articolesse, si attacca retoricamente Confindustria mentre si fanno i salti mortali per non criticare l’esecutivo, i tempi, modi e contenuti dei dpcm, l’emergenza come metodo di governo. Lo diciamo chiaro: se attacchi Confindustria e non il governo, non stai davvero attaccando Confindustria.

La narrazione colpevolizzante, il costante scarico delle responsabilità sui cittadini, la demonizzazione dell’aria aperta quando il contagio è sempre stato molto più probabile al chiuso, la chiusura di luoghi della vita pubblica e settori del mondo del lavoro dove il contagio era improbabile mentre se ne tengono aperti altri dove è probabilissimo… Tutto questo deriva a cascata dalla necessità, da parte del governo, di non ledere gli interessi di Confindustria. Bisogna far vedere che si fa qualcosa, che si chiude qualcosa, e si adottano provvedimenti cosmetici, apotropaici, diversivi. È così dal marzo scorso, da quando il governo si rifiutò di dichiarare zona rossa i comuni di Alzano e Nembro, in bassa val Seriana.

E così ci ritroviamo a subire il coprifuoco, misura che non ha alcuna giustificazione epidemiologica credibile ma serve a fare “penitenza”, come detto con ammirabile candore dall’immunologa Antonella Viola dell’Università di Padova:

«Il coprifuoco non ha una ragione scientifica, ma serve a ricordarci che dobbiamo fare delle rinunce, che il superfluo va tagliato, che la nostra vita dovrà limitarsi all’essenziale: lavoro, scuola, relazioni affettive strette.»

Se il focus della narrazione si è fissato sulla necessità di “fare penitenza”, è perché la responsabilità è stata stornata da chi ce l’aveva e dispersa verso il basso.

Ogni presa di posizione che rimanga reticente su questo, ogni ricorso a Confindustria come mero sparring-partner retorico, ogni discorso unicamente incentrato sul «reddito di quarantena» o analoghe formule, ogni tinteggiatura “rivoluzionaria” dell’esortazione a chiuderci in casa è per noi irricevibile. E reazionaria.

«Ne parliamo dopo»… quando?

La cosa che continua a stupirci, nelle tirate moralistiche dei “compagni per la reclusione domestica generalizzata e per la colpevolizzazione dei furbetti”, è quanto la facciano semplice, quanto prendano alla leggera – quasi alla leggiadra – l’idea mostruosa di azzerare la vita sociale a tempo indeterminato, quanto siano arrivati a trovare non solo necessaria ma augurabile e persino, implicitamente, rivoluzionaria l’immagine di milioni di persone blindate tra quattro pareti (ma ci sono i social, c’è Zoom, dài, che vuoi che sia!).

Stupisce il fatto che non si pongano mai il problema di quanta sofferenza, quanta malattia mentale, quante esistenze triturate e rovinate, quanti passaggi di vita fondamentali perduti, quanta morte ci sia in questo scenario. Perché la morte non è solo la cessazione di un paio di funzioni-base dell’organismo.

I controlli fatti dopo la fine di #iorestoacasa (da maggio in poi) hanno riscontrato un aumento generalizzato di suicidi, violenze domestiche, femminicidi, vendite di psicofarmaci, depressione, ansia e disturbi alimentari tra bambini e adolescenti, azzardopatia, dipendenza da Internet e da video e molti altri disturbi. Per non parlare dei disturbi che causa e causerà l’aver perso il lavoro, l’attività, a volte la dignità.

Davvero siamo arrivati a credere che «salute» sia soltanto non prendersi il virus? Davvero siamo arrivati a pensare che «vita» significhi così poco,  e si riduca al non ammalarsi di Covid? Com’è possibile che si sia giunti a dire che ora si deve pensare solo al virus e di tutto il resto della realtà sociale – forse – ne parleremo «dopo»? Ma «dopo» quando? Davvero si pensa che, se stiamo zitti e muti adesso, «dopo» potremo riprendere discorsi “radicali” come niente fosse? Ma dove, come? Con quale faccia?

Ecco allora che «negazionista» diventa chiunque non accetti di posporre la critica a «data da destinarsi», cioè alle calende greche.

L’uso dell’epiteto si accompagna a un altro espediente: chi attacca Confindustria in modo astratto e retorico – come escamotage per non criticare il governo che di Confindustria tutela gli interessi – accusa di «confindustrialismo» (!) chi invece, coerentemente, critica Confindustria e governo insieme.

Questo capovolgimento della realtà è reso possibile da un’accusa preliminare: quella  di «pensare alla libertà individuale invece che alla tutela del prossimo». In base a tale falsa premessa, ogni critica dell’emergenza sarebbe «liberista». A molti si è piantata in testa l’idea che la libertà sia «individuale» e da lì non li smuoverà più nessuno. Nelle scienze cognitive si chiama «pregiudizio di ancoraggio».

La facile apologia di ogni restrizione – anche la più irrazionale e disonesta – sta mettendo in secondo piano, anzi, in terzo, decimo, centesimo piano la devastazione del legame sociale, lo smarrimento di massa, la schizofrenia nei rapporti tra le persone, ma chi lo fa notare… «difende l’individuo».

In realtà è il contrario, il vero individualismo è quello di chi accetta l’escamotage neoliberale per eccellenza, che magari prima della pandemia fingeva di rifiutare: quello di indicare in un comportamento individuale la soluzione a un problema che invece è sociale e sistemico, e va affrontato con l’azione collettiva.

Nel contesto dell’emergenza Covid, accettare questa premessa porta a imperniare il discorso sulla “virtù” individuale, sul fare penitenza dell’individuo, sul sacrificio personale da esibire per far vedere che si è più altruisti degli altri.

In questo gioca anche un certo cattolicesimo – il più retrivo e ipocrita, quello descritto in alcuni racconti di G.A. Cibotto – che infatti è eruttato fuori dalla crepa aperta dall’emergenza e adesso scorre sui social, soprattutto tra chi dei «più deboli» – espressione con cui pure si riempie la bocca – dimostra spesso di infischiarsene. Basti vedere la scarsa o nulla attenzione nei confronti di bambini e adolescenti.

«Maligni amplificatori biologici»

In un post del 25 Aprile scorso, commentando la riapertura delle librerie e la prima visita di un paio di bambini alla libreria per ragazzi Giannino Stoppani di Bologna, scrivevamo:

«Questo momento di libertà è idealmente dedicato a chi per mesi ha dipinto i bambini come untori perfetti, potenziali omicidi dei loro nonni; a chi già prima della pandemia li definiva “maligni amplificatori biologici che si infettano con virus per loro innocui, li replicano potenziandoli logaritmicamente e infine li trasmettono con atroci conseguenze per l’organismo di un adulto” (Roberto Burioni, 31/03/2019); a chi ha scatenato il panico sociale contro di loro, spingendo i genitori a murarli vivi dentro casa, in certi casi rimandando perfino importanti visite mediche o terapie per loro essenziali. La pericolosità dei bambini è stata presa per oro colato, anche se i dati sul comportamento del Covid19 sono ancora contraddittori. Il 21 aprile scorso, il virologo dell’università di Padova Andrea Crisanti, che ha condotto lo studio sul focolaio di Vo’ Euganeo, ha fatto sapere che in quella comunità “i bambini sotto i 10 anni, seppure conviventi con infettati in grado di infettare, non si infettano. E se sono negativi non infettano”. […] Insomma, molti aspetti delle modalità di trasmissione di questo virus non sono ancora chiari, e sarebbe davvero paradossale se un domani dovesse emergere che abbiamo segregato i bambini più piccoli per niente, con un provvedimento dettato dal panico.»

Crisanti ha ribadito il concetto in un’intervista a Radio Capital di qualche giorno fa. Anche un recente articolo apparso sulla rivista Nature conferma che i bambini entro i dieci anni non sarebbero infettivi e che in generale le scuole primarie non sono “punti caldi” per le infezioni da coronavirus.

Dunque abbiamo bruciato metà anno scolastico a una generazione per niente, tanto per chiudere qualcosa che non impattasse sull’economia. Perché dal punto di vista del capitale i giovanissimi sono come gli anziani: improduttivi (Toti dixit). Quindi sacrificabili.

Per i bambini campani è ancora così: niente scuola, mentre si chiama l’esercito a presidiare le strade, come durante un golpe, anziché a costruire ospedali da campo.

In Puglia, dopo la riapertura delle scuole, ordinata dal Tar il 6 novembre, l’assessore alla Salute Lopalco ha parlato di «un errore clamoroso». Repubblica e altri giornali locali hanno subito dato grande risalto ai dati dell’Asl, evidenziando che nella settimana della riapertura, dal 6 all’11 novembre, «il numero di positivi riscontrati in ambito scolastico nell’area metropolitana di Bari è passato da 132 a 243 casi».

Ma un simile effetto immediato è tutto da dimostrare. Le scuole infatti, dove sono aperte, stanno funzionando come presidi sanitari, dove i positivi vengono individuati, tracciati, tamponati. Se, riaperte le scuole, aumentano i positivi, può trattarsi di contagi avvenuti proprio nella settimana di chiusura, quando i ragazzini non erano in aula, ma forse in luoghi meno sicuri.

Intanto teniamo gli adolescenti in Dad, dopo avere varato protocolli nazionali sulla gestione degli spazi scolastici e fatto investire denaro pubblico a governatori regionali e dirigenti per adeguarsi alle nuove normative. Soldi nostri buttati nel cesso. Se fai notare tutto questo, però, sei «negazionista», e ti becchi l’attacco concentrico, i titoloni, i video virali, la memetica d’accatto, le invettive sui social, gli (ex-)amici che ti infamano.

Nel frattempo, è acclarato che:

■ l’Italia non aveva un piano pandemico aggiornato e il rapporto commissionato dall’OMS che denunciava il fatto è stato insabbiato;
■ durante l’estate il governo ha fatto poco o niente per arginare la tanto paventata seconda ondata (ma il ministro Speranza ha trovato il tempo di scrivere un libro intitolato Perché guariremo, la cui uscita in libreria è stata posticipata sine die);
■ in certe regioni le terapie intensive reggono bene, mentre in altre i malati di covid muoiono in corsia;
■ i tanto decantati metodi di “tracciamento” ipertecnologici sono andati in crisi nel giro di due settimane, tanto che nessuno ne parla nemmeno più; ecc.

Ma questo è l’Assurdistan, mica è lecito aspettarsi altro, no? Possiamo soltanto autoflagellarci, e insultare chi pretenderebbe meno inettitudine anziché essere trattato come una pezza da piedi.

Ecco cosa nasconde la «caccia al negazionista.

Wu Ming   in https://comune-info.net/ 17/11/2020

 

 

Sono negazionista

Sono negazionista. Nego, in primo luogo, l’emergenza Covid e non – ovviamente – la pandemia in sé, innegabile ed evidente. Il termine, usato in senso sarcastico–dispregiativo dai tanti seguaci del pensiero unico, richiama, in modo subdolo e subliminale, la negazione della Shoah o magari altre consimili, ascrivibili a ignoranza o malafede (per esempio, la negazione della rotondità dell’orbe terracqueo dei “terrapiattisti”). Prescindiamo pure dal fatto che molti dei dileggiatori di professione hanno negato per tanto tempo la storia delle foibe istriane e negano tuttora o fingono di ignorare gli attualissimi laogai cinesi; ma il punto è un altro:

1) L’emergenza italiana è l’unica al mondo.

2) La letteratura scientifica più accreditata nega la persistente letalità del virus.

3) Non è un mistero che l’unico Paese al mondo ad aver dichiarato l’equivalente di uno “stato di guerra” (inesistente), in proroga fino a ottobre, conferendo poteri speciali anticostituzionali al presidente del Consiglio, è l’Italia. Non è un mistero, ma è una verità ben nascosta. E la favola del “negazionismo” costituisce un’arma di distrazione di massa, diretta per l’appunto a nasconderla.

4) Si sono levate autorevolissime voci di grandi uomini di scienza (se ne citano solo alcuni: Luc Montagnier, Giulio Tarro, Giuseppe Remuzzi, Alberto Zangrillo, Matteo Bassetti, Maria Rita Gismondo) che confermano, in varia guisa, due verità di fondo: 1 – che il virus (tutti i virus, anche il Coronavirus) depotenzia la sua carica virale nel tempo, per il fatto stesso di propagarsi; 2 – che gli anticorpi umani costituiscono la più importante difesa contro il virus e, grazie a Dio, questa difesa non è affidata al governo Conte, ma alla natura, che provvede all’immunità di gregge. Il profano, come me, ci capisce poco – non meno tuttavia dei “virologi” delle mitiche 15 task forces governative – ma osserva che queste due leggi scientifiche trovano mille conferme. Basta chiedersi come mai non si è verificato lo sterminio di massa in Svezia, il cui governo di sinistra (non un governo Matteo Salvini, Giorgia Meloni o Silvio Berlusconi, che avrebbe certamente ammassato i cadaveri nelle fosse comuni delle spiagge italiane) ha rifiutato – ossia negato – qualsivoglia misura emergenziale, lockdown o quarantena di massa che sia. E’ possibile che questo governo “negazionista” abbia scelto la strada giusta o comunque più sensata di quella degli arresti domiciliari generalizzati o della mascherina notturna?

Sono negazionista. Nego gran parte delle “emergenze” italiane.

In Italia è tutta un’emergenza. E la particolarità dell’emergenza italiana è la sua eternità. Il rimedio emergenziale al pericolo emergente sopravvive all’emergenza stessa.

Lo schema tipico è il seguente: la cosiddetta “opinione pubblica”, bombardata dai tanti messaggi mediatici che amplificano il pericolo connesso a un fatto o più fatti di cronaca, invoca o forse no – ma qualcuno la sente invocare – l’intervento pubblico; il governo di turno, sorretto come sempre dalla stampa compiacente, annuncia i suoi drastici rimedi all’emergenza, i quali per essere appunto drastici e risolutivi devono cambiare lo status quo ante. E il cambiamento non può consistere in atti amministrativi, regolati dalle leggi in vigore; sarebbe poca cosa. Per essere drastico e decisivo, deve consistere almeno in una nuova legge, meglio se due o tre; e ovviamente deve trattarsi di legge “speciale”. Sicché le nuove leggi, sempre “speciali”, si affastellano in un unico calderone nel quale sopravvivono le vecchie. Con questo criterio abbiamo creato un monstrum di 200mila leggi. Primato mondiale!

Il criterio non è cambiato per il Coronavirus, con la variante – e al contempo aggravante – che la nuova “legge” ha forma di Dpcm. Ha forma amministrativa, ma sostanza di legge. E dunque il ragionamento rimane valido, nella misura in cui il Dpcm contiene norme generali che regolano la vita di tutti gli italiani.

Ebbene le “emergenze” italiane, assunte a fondamento giustificativo di leggi speciali, producono eccezioni e strappi durevoli e definitivi alle regole generali. Per esempio, la presunta emergenza corruzione (in verità diffusa in tutto il mondo) ha ispirato norme penali liberticide, con sanzioni afflittive pesantissime irrogate prima dell’accertamento di reità; nonché un codice degli appalti, che erige a sistema il sospetto generalizzato e paralizza le opere pubbliche.

Con l’attuale “emergenza” Covid gli italiani rischiano di dovere sopportare, chissà per quanti anni ancora e ben oltre la persistenza del pericolo reale: il “distanziamento sociale”; la scuola pubblica chiusa a ogni piccolo colpo di tosse di un alunno; gli uffici pubblici non aperti al pubblico; restrizioni ai viaggi; controlli di polizia sulla propria persona; divieti di riunioni; chiusura dei locali.

Sono negazionista. Nego l’assoluto della prevenzione.

Questa seducente parola è molto insidiosa. Dietro la smania di prevenire tutti i pericoli della vita si cela in verità il pensiero utopistico. Il principio di realtà impone di accettare la limitatezza e l’imperfezione della condizione umana. Ciò comporta la necessaria “convivenza” con il pericolo. Il rischio zero non esiste.

Per la verità, nessuno ammette di credere nella totale immunità dal rischio, tuttavia gli utopisti, mentre non lo ammettono esplicitamente, coltivano implicitamente l’erratissima idea e la scellerata ambizione di eliminare il pericolo. Accanto agli utopisti siedono alcuni interessati pragmatisti, che “campano” sulla prevenzione.

Vi dice niente il fatto che le case farmaceutiche di tutto il mondo hanno investito immense risorse nella ricerca del vaccino? Non credo che il loro interesse alla salute pubblica coincida perfettamente con quello di ognuno di noi alla propria salute psico-fisica.

Ciò posto, è chiaro che la nostra vita di relazione non deve essere sacrificata all’innaturale commistione dell’utopismo col pragmatismo interessato, perseguendo l’insano scopo di eliminare ogni rischio. Si tratta invece di scegliere la strada migliore per “convivere” con quei pericoli che sono ineliminabili.

E il pericolo virus è uno di questi, come lo è il pericolo “corruzione” (per tornare all’esempio di poc’anzi). L’assolutismo della prevenzione è un errore logico, in quanto sono irrealizzabili i suoi fini; consiste anche in un “peccato” di presunzione, perché “divinizza” i rimedi umani ai mali di questa terra. Il pericolo della seconda ondata (del Covid) non deve paralizzare la nostra vita, ma dobbiamo convivere con la possibile seconda, terza e quarta ondata, di questo virus o qualsiasi altro consimile.

Sono negazionista. Nego l’opportunità politica dell’assistenza sociale generalizzata.

Il sociologo Luca Ricolfi ha evidenziato che ci avviamo a grandi passi verso la società parassitaria di massa, per effetto – non solo, ma in gran parte – delle misure “emergenziali” (anticovid) di questo governo.

Il lavoro viene impedito o comunque ostacolato in mille modi; in compenso aumenta la platea degli assistiti. Al reddito di cittadinanza si affiancano ora varie tipologie di sussidi e fantasiosi bonus. Ovviamente, l’assistenza “emergenziale” è destinata, come dicevamo, a durare ben oltre l’emergenza; sia per le ragioni anzidette, sia per la ragione ulteriore che il beneficiario dell’assistenza non desidera perdere la sua quota parte, piccola o grande che sia. Non è necessario alcun commento; ci limitiamo a una piccola chiosa: ogni risorsa utilizzata nella sfera assistenziale è sottratta alla sfera della produttività.

Sono negazionista. Nego la nuova religione scientista.

La scienza nulla può dire in relazione alla tavola e alla gerarchia dei fini. La scelta dei valori attiene all’ambito etico e a quello politico. La scienza è un bene strumentale a disposizione dell’uomo per raggiungere i suoi fini, ma non determina i fini da scegliere.

Ciò significa che il governo Conte, celandosi dietro la scienza delle varie task forces, è venuto meno al suo stesso compito. Ma c’è di più. Nel caso concreto, la “scienza” a supporto del governo si è dimostrata una patacca di infima qualità. Era prevedibile, dal momento che sono stati insigniti di chiara fama in “virologia” persone che in vita loro non hanno visto, nemmeno per un istante, una provetta di laboratorio o una corsia d’ospedale.

Sicché la loro infallibile scienza è entrata in contraddizione con quella dei veri studiosi, italiani e stranieri. Ma seppure il comitato tecnico–scientifico del governo Conte fosse il migliore possibile, comunque non sarebbe accettabile l’estromissione della politica.

La norma giuridica che regola la convivenza sociale deve compensare e rendere compatibili i vari interessi umani in conflitto; al contrario, lo scienziato ha un punto di osservazione con oggetto monistico; il suo sapere è limitato a un solo oggetto di interesse; egli non può che assolutizzare quell’interesse. Il risultato della delega di Conte ai grandi scienziati della task force è sotto gli occhi di tutti: non sappiamo se le misure anticovid abbiano impedito che qualcuno si ammalasse di broncopolmonite; in compenso, sappiamo per certo che molte persone sono morte, perché non hanno ricevuto assistenza ospedaliera (per tutte le altre patologie); alcune si sono suicidate per i rovesci economici; sono aumentate a dismisura i casi di sindromi depressive; l’economia italiana ha subito un tracollo irrimediabile; le relazioni sociali sono state frantumate.

Vogliamo poi aggiungere che, su scala mondiale, le grandi profezie “scientifiche” dell’era moderna si sono rivelate non dissimili da quelle dei Maya? Tutte smentite dai fatti: dal buco dell’ozono alla desertificazione del pianeta; dall’innalzamento dei mari, con allagamento delle città costiere, all’aumento della temperatura su basi antropiche. Il consesso dei grandi scienziati pare ispirarsi all’inclita dottrina della fanciulla Greta. Una ragione in più, per diffidare, non già della vera scienza, bensì dello “scientismo”.

Sono negazionista. Nego la subordinazione gerarchica della libertà individuale al bene comune.

I nostri tutori si preoccupano tanto della nostra felicità globale, da sacrificare – per necessità s’intende – la nostra libertà individuale al bene superiore della salute pubblica. Non nego che possano tollerarsi ridimensionamenti, limitati nel tempo e nella consistenza, della libertà individuale; nego tuttavia un rapporto meccanico di subordinazione gerarchica tra il bene individuale e collettivo.

Il benessere sociale è la somma delle mille condizioni individuali di benessere; come il bisogno sociale è la risultante dei mille bisogni individuali. Per tale ragione, la libertà individuale costituisce un valore primario, di pari rango rispetto ai beni della collettività.

Nella vicenda del Coronavirus si è ampiamente superato il limite di tollerabilità del sacrificio individuale. La libertà di movimento, il diritto di culto religioso, di associazione sono stati sacrificati arbitrariamente. E si continua a “legiferare”, invadendo la sfera privatissima della persona. Basti pensare che si impone la mascherina anche al camminatore solitario, che non può contagiare o essere contagiato da chicchessia.

Sono negazionista. Nego che la paura debba prevalere sulla gioia di vivere.

La convivenza umana impone, come s’è detto, una serie di regole che tendono a comporre interessi in conflitto. Conseguentemente i giusti principi che presiedono alla convivenza sociale non devono essere declinati in termini assoluti e rigidi. Il principio di precauzione non può essere portato fino alle estreme conseguenze, tanto da far prevalere sempre e comunque la paura sulla voglia di vivere.

La danza, Matisse (1910)

La paura del contagio impone il distanziamento da chicchessia, giacché ognuno di noi è un potenziale “untore”. E l’untore numero uno è – come dice il “grande” Roberto Burioni – il bambino, che è immune, ma contagia. Impedire al bambino di socializzare, toccare le persone e le cose, equivale a bloccare la sua crescita. Ci si vuole spingere fino a questo punto, in nome della sicurezza? Come la paura, che deforma il giusto principio di precauzione, non deve prevalere sulla necessità fisiologica del bambino di crescere e imparare, così non deve impedire agli adulti di manifestare la gioia di vivere. Anche vivaddio nelle occasioni conviviali e negli “assembramenti”, che non sono necessariamente “adunate sediziose”.

Sono negazionista. Nego la virtù della moderazione in materia di libertà individuale.

In linea di massima la moderazione è una virtù, in quanto espressione di tolleranza e inclinazione all’ascolto. Esistono tuttavia valori non negoziabili, rispetto ai quali la “mediazione” non ha alcun senso. Per un liberale, la libertà individuale non è “merce di scambio”, è un valore primario non negoziabile, il cui sacrifico può essere accettato solo in quanto sia necessario e proporzionato.

Né la necessità, né la proporzione hanno caratterizzato e tuttora caratterizzano le misure anticovid, destinate purtroppo a permanere oltre il covid.

A me pare che l’opposizione al governo, in questo frangente, sia stata e sia tuttora colpevolmente “moderata”. Nessuna voce, per esempio, si è levata contro l’immondo obbligo dell’autocertificazione o la chiusura dei luoghi di culto.

Oggi in tutta Europa le piazze sono colme di oppositori a misure anticovid, molto meno restrittive che in Italia. Nel nostro amato Paese, al massimo della negazione della libertà, corrisponde il minimo livello di protesta politica e sociale. È venuto il momento di negare la moderazione.

Michele Gelardi   L’Opinione   4/9/2020

 

 

STANNO PROVANDO A COMPIERE IL SOMMO CRIMINE! L’ORRORE DEL BARBARO USO DELLA PAROLA “NEGAZIONISMO”

Diego Fusaro, filosofo

Vedi e ascolta: https://www.youtube.com/watch?v=cW0bBpRa43I&feature=youtu.be

30/7/2020

 

 

ANNO I DEL REGIME SANITARIO

 

 

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In particolare v’invitiamo a leggere:

Il Grande Reset. La Grande Risistemazione (12). Un cavallo di Troia per "resettare" l'uomo e il lavoro.

Tre "difetti di fabbricazione" contro il regime sanitario.

Terrore sanitario (34). Dalli al negazionista! (3) Gente che pensa a Roma e Berlino.

"La dittatura Covid"

Com'è potuto avvenire che un intero paese...

 

 


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