La recente scoperta che nella mappa del genoma umano non esiste il gene della razza ha destato scarsa meraviglia: da tempo sappiamo che le differenze fisiche su cui si reggono i discorsi di tipo razzistico non hanno fondamento. Non esiste il «sangue blu» della nobiltà. Non esiste la puzza dell’ebreo. È esistita una classe di persone che si faceva vanto di non dover esercitare nessuna attività manuale per vivere: e l’assenza di lavoro manuale si rivelava in una epidermide delicata che lasciava trasparire una rete venosa azzurrina, invisibile sotto la pelle callosa di contadini, marinai, commercianti. Ed è esistita la costrizione del ghetto che, chiudendo in spazi ristretti e senza acqua corrente la popolazione ebraica, giustificava après coup gli odori acri di corpi e di ambienti attribuendoli alla “natura” degli ebrei.

È esistita la pratica di battere con nerbate gli schiavi africani: dal che, rovesciando la cultura in natura, si ricavò la tesi che la pelle dei neri fosse diversa da quella dei bianchi, destinata a ricevere bastonate perché diversamente spessa e robusta rispetto a quella dei bianchi. Era la natura dei corpi dei neri africani a denotare la destinazione razziale al lavoro schiavile e non viceversa. Non molto diversa è oggi la condizione delle minoranze di immigrati o di marginali nei paesi ricchi, che vengono sottoposte allo stesso meccanismo di disumanizzazione attraverso il mezzo semplicissimo della limitazione dei diritti. «Come la parità nei diritti – ha scritto Luigi Ferrajoli – genera il senso dell’uguaglianza basata sul rispetto dell’altro come uguale, così la diseguaglianza nei diritti genera l’immagine dell’altro come diseguale, ossia inferiore antropologicamente proprio perché inferiore giuridicamente».

In tutti questi casi siamo sempre davanti a quella forma di esclusione sociale dettata dal potere che consiste nell’invenzione di una barriera della diversità: da una parte il vero essere umano, dall’altra il non-uomo. Come ha osservato George Mosse, al posto della persona in carne ed ossa il punto di vista razzista mette uno stereotipo umano. Il che consente il sistematico rovesciamento ideologico dei dati reali e la costruzione di piramidi di sopraffazioni su finte basi naturali.

Dunque, ogni volta dietro la supposta differenza di natura è emersa una differenza di potere. Ma, se queste antiche legittimazioni della violenza e dello sfruttamento sono diventate nel nostro presente del tutto prive di credibilità, non per questo è venuta meno la produzione di “diversi”, di frazioni di umanità a regime speciale, prive di diritti, offerte al disprezzo e all’odio delle maggioranze di “normali”. L’esperienza del passato si rispecchia in quella del presente. Se sul piano teorico le pretese di verità delle teorie razzistiche sono state smascherate senza possibilità di difesa, sul piano dei rapporti sociali si riaffacciano di nuovo ogni qualvolta i rapporti di potere riaprono una fessura in questa direzione. La guerra contro l’altro è eterna, si legge nel titolo di una fortunata e vivacissima rassegna delle forme di discriminazione, da quelle delle grandi tragedie del passato alle “piccole storie ignobili” dei nostri giorni (piccole per chi non ne è la vittima, naturalmente).

Dobbiamo dunque rassegnarci a riconoscere che qualcosa di naturale esiste nei dati morali dell’umanità, che il costume dell’avversione verso l’”altro” è iscritto – esso sì – nei nostri geni e che la pianta umana è un albero storto, come ammetteva anche Kant, che mal si piega alla regola dei diritti? Prima di chiudere conquesta sconsolata ammissione, è forse il caso di rovesciare i termini della questione e di concentrare l’attenzione non su ipotetici fattori naturali della differenza e dell’ostilità fra esseri umani, ma sui dati storici e sui meccanismi sociali che hanno dato vita alle forme dell’esclusione.

Non senza aver ricavato un’ultima osservazione dai risultati della mappatura del genoma umano: a quanto si è scoperto, solo un numero assai ridotto di geni identifica la specie umana, differenziandola da altre specie animali che consideriamo inferiori. Nel corso dell’evoluzione delle specie, quegli altri animali sono stati battuti e assoggettati dagli uomini. Allo storico viene in mente l’immagine della ghianda e della quercia usata da Marc Bloch per riassumere il senso del mutamento storico: lo sviluppo nel tempo delle civiltà è come quello che dalla ghianda porta alla quercia, dipende dal terreno. La risposta agli stimoli e alle occasioni offerte dall’ambiente è la causa dello sviluppo. E Bloch aggiungeva: gli uomini sono figli dei loro tempi più che dei loro padri. Riconoscerlo è accettare una grande lezione, simile a quella che venne data secoli fa dalla scoperta di Niccolò Copernico.

Non siamo il centro dell’universo; non siamo stati dotati – dalla natura, da Dio – di qualità speciali. La specie umana si è evoluta: siamo arrivati a mandare astronavi fuori dell’atmosfera e a contare i geni del Dna. Ma ogni nuova scoperta scaturita dai viaggi negli spazi esterni e in quelli a noi interni ci rimanda a delle verità amare: soli e sperduti in un angolo dell’universo, dividiamo il nostro ambiente naturale con altre specie che abbiamo imparato a dominare e a sfruttare, ma senza che questo discenda da un decreto originario e immutabile e senza che si possano dire risolti i problemi di sopravvivenza della nostra specie. Da ciò, il bisogno di ripercorrere la strada fatta con gli strumenti della conoscenza storica per riconoscere gli errori di percorso, per tenerne conto nel correggere – se possibile – la rotta.

Adriano Prosperi     la Repubblica  6 settembre 2011

 

 

Questa Europa nazista e razzista

La Slovacchia, prospero paese della «civile» Europa ha varcato il Rubicone che separa la soglia minima della democrazia dalla mentalità che caratterizza il nazismo. Il governo ultraconservatore e razzista di quel Paese ha ipocritamente travestito la proposta di legge che favorisce ed incentiva la sterilizzazione volontaria delle donne povere, ovvero rom, con il crisma di uno scopo di utilità sociale. I nazisti e i razzisti di una volta erano schietti, criminalmente onesti. Questi omuncoli di oggi sono vigliacchi, indossano la maschera del perbenismo, rifiutano l’appellativo di razzista che gli è proprio, pretendono di operare a fin di bene. Ma la Slovacchia è solo la punta dell’iceberg.

Per tutta l’Europa serpeggia la vocazione razzista e xenofoba delle forze di quella destra nazionalista o regionalista come la nostra Lega Nord ma non è infrequente ascoltare anche esponenti delle forze riformiste riconoscere le ragioni del buonsenso all’intolleranza nei confronti di rom e sinti. Questa connivenza a mezza voce è a mio parere la cosa più infame.

Ma che accadrebbe se questa logica da fogna venisse proposta nei confronti degli ebrei. Apriti cielo! L’intera Europa rovescerebbe sulla piccola Slovacchia un bombardamento mediatico con l’artiglieria pesante della retorica della Shoa e il suo governo farebbe una frettolosa retromarcia. Ma la vera domanda è: a che serve l’Europa unita se non è in grado di imporre pesantissime sanzioni ai governi razzisti, fino a decretarne l’espulsione? Perché è mai nata l’Europa? Per tenere attaccata con lo sputo la moneta unica? O per prosternarsi davanti ai «mercati» e leccarne i piedi?

Moni Ovadia        l’Unità   27 agosto 2011

 

vedi:  L’esclusione e l’ossessione per l’unità occidentale

Nazionalismo di cartapesta


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