Il leggero, ma regolare, incremento della elevata secolarizzazione della nostra società fa apparire la realtà italiana del tutto analoga a quella dei Paesi dell’Europa occidentale. Vari studi sociologici recenti, mettendo in discussione il «classico» paradigma della secolarizzazione come esito inarrestabile dei processi di modernizzazione, vedono nella realtà europea un’eccezione rispetto al trend che sembra invece caratterizzare, con una varietà di fenomeni, le Americhe, l’Africa e l’Asia, dove sembra invece affermarsi una tendenza alla «desecolarizzazione». Al di fuori dell’Europa, le religioni sono in ripresa sui piani del believing, behaving e belonging, cioè della fede abbracciata e personalmente affermata, del comportamento convinto e del senso di appartenenza.  In queste brevi riflessioni ispirate al VII Rapporto sulla secolarizzazione pubblicato da Critica liberale, voglio però soffermarmi su un altro aspetto.

Se si può sostenere che l’Europa è un’eccezione nel quadro globale, certamente l’Italia è un’eccezione anche rispetto all’Europa. In nessuno degli altri Paesi dell’Europa occidentale — pur avendo essi livelli di secolarizzazione del tutto affini ai nostri — si manifesta una così rilevante sudditanza della politica a esigenze confessionali, come invece avviene nel nostro Paese — e in misura crescente, vista la scelta delle gerarchie cattoliche di reagire alla perdita di consenso da parte dei propri fedeli nominali non con quella che si definisce «evangelizzazione interna», ma con una strategia tutta tesa ad ottenere riconoscimenti, privilegi, finanziamenti, tutele e perfino provvedimenti legislativi che riflettano direttamente posizioni confessionali. È del tutto singolare che, in un Paese secolarizzato come l’Italia, non si riescano ad ottenere diritti che altrove sono ovvi, come ad esempio il riconoscimento delle unioni di fatto e di quelle tra  persone dello stesso sesso; la possibilità di decidere liberamente sul fine vita; tempi ragionevolmente abbreviati per il divorzio; corsi di educazione sessuale nelle scuole pubbliche; libertà di informazione sulle pratiche contraccettive e via discorrendo.

 Quel consenso che la Chiesa di Roma non ha a livello di massa, è ricercato a livello politico e lì ottenuto, con uguale ossequio (non basato, nella maggioranza dei casi, sulla «fede») sia da destra sia da sinistra. L’anomalia italiana consiste nel fatto che la «secolarizzazione» della politica è mille miglia più indietro della società. E non credo ci sia bisogno di ricordare che la secolarizzazione della politica, cioè la sua statutaria autonomia da ogni «a priori» ideologico o confessionale, è un caposaldo della democrazia come sistema che deve garantire a tutti i cittadini gli stessi diritti e le stesse libertà.  Controprova: l’esplicita, esuberante, non secolarizzazione dei cittadini degli Stati Uniti d’America si manifesta a fronte della sostanziale tenuta — nonostante la presenza di potentissime lobbies religiose — di un sistema sostanzialmente separatista, almeno dai tempi della dichiarazione della
Virginia sulla libertà religiosa.

Analoghe, amare riflessioni, suscita il dossier su come appaiono le confessioni religiose nelle varie televisioni. Non vi traspare il pluralismo che caratterizza la situazione reale del nostro Paese; né quello delle diverse confessioni né quello interno alla religione maggioritaria. Si assiste invece ad una sovraesposizione mediatica delle posizioni e degli interessi spesso direttamente politici — come nel caso dei temi cosiddetti «eticamente sensibili» — delle gerarchie cattoliche, a volte con i toni di chi supinamente subisce o addirittura amplifica atteggiamenti e posizioni clericali. Il risultato è che si avalla l’idea che esse rappresentano il nucleo condiviso dell’identità culturale degli italiani. Ancor meno ha spazio l’informazione su situazioni diverse da quella italiana, avallando così l’idea che la sintesi cattolico-romana sia in grado di esprimere esaustivamente non solo «il religioso», ma anche l’umano e il razionale tout court. Altrove, sarebbe a tutti immediatamente chiaro che questa pretesa è «confessionale». Legittima come ogni altra visione del mondo, ma del tutto affine alle altre e in nessuno modo sovraordinata.

Una democrazia pluralistica necessita di una informazione che illustri tutte le posizioni religiose — e non, sia ben chiaro — che contribuiscono al dibattito sulla pubblica piazza. Tanto più dovrebbe essere sensibile a questa esigenza il servizio pubblico di informazione. Che ciò non avvenga, è uno dei segnali più vistosi della asfittica laicità della politica e talora anche della cultura nel nostro Paese. E non si tratta semplicemente di tutela delle minoranze religiose (in assenza per altro di «maggioranze» religiose, se non nella pretesa di chi vuole attribuire anime e radici particolari alla nazione), ma della qualità della nostra democrazia e della sua cultura.

 

Daniele Garrone      in “confronti” – mensile di fede politica e vita quotidiana         febbraio 2012

 

vedi: LA LAICITA' VISTA DAI LAICI

IL RITORNO DELLE CROCI

 

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