Il modo autoritario con cui viene trattato il problema del virus e il taglio dei parlamentari non sono due problemi diversi ma le due facce della stessa medaglia: l’eversione della democrazia. (GLR)

 

LUI VOTEREBBE SI: la fascistissima legge elettorale che ridusse i deputati a 400.

Canale Sovranista mette il luce una particolarità molto interessante: il referendum costituzionale voluta dal Movimento 5 stelle ed appoggiato ufficialmente dal PD (in cambio del MES….) viene a ridurre il numero dei Deputati quanti ne volle la fascistissima legge elettorale del 17 maggio 1928 (anno VI dell’E.F.)

Come leggete, nel 1928  il numero di deputati veniva calato a 400, quando la già fascista Legge Acerbo (del 18/11/1923, ndr) aveva definito il numero a 535. All’epoca bastava una legge ordinaria per cambiare il numero dei deputati, molto più pratico, soprattutto quando decideva solo UNO.

Bisogna anche dire che l’Italia all’epoca aveva molti meno abitanti rispetto ad ora, circa 40 milioni, ed inoltre la legge in questione ridefiniva il diritto di voto su base censuale, una bella marcia indietro rispetto al Suffragio Universale voluto nell’ anteguerra dai Socialisti (quelli veri, mica i Piddini).

Tante cose pongono in parallelo l’attuale maggioranza con i desiderata della legge elettorale dei tempi in cui si dava del Voi e si salutava senza darsi la mano , esattamente come ora….

Se leggete la legge fascistissima del 1928 prevedeva che ci fosse un bel listone unico: se questo aveva la maggioranza passava tutto intero ed il parlamento era bello che fatto: stabilità (ci volle il 25 luglio del 1943 per far cadere il governo) efficienza, riduzione del debito (fino al 1930)…. surplus primari… opposizioni mazzolate dai giornali, ma all’epoca anche nella realtà. Certo, i treni viaggiavano in orario e sicuramente c’era un concetto della morale un po’ diverso da oggi, ma forse i media parlavano del Papa meno che ora. Poi, piano piano ci siamo alleati con la Germania… mica come adesso….

Ora il PD e M5 s stanno già pensando alla nuova legge elettorale. Con le preferenze? Assolutamente NO, tutti dei bei listini bloccati. Proprio come nel 1928… Mhhh non è che votare si a questo referendum rende lo Stato un po’ meno democratico ed un po’ più fascista?

Nel frattempo vi saluto……

Guido da Landriano   in https://scenarieconomici.it/ 16/ 9/ 2020

 

 

La riforma a casaccio. Il referendum è il punto di arrivo di una vecchia e balorda campagna anti casta arrivata agli sgoccioli.

Il taglio grillino dei parlamentari, approvato prima dalla Lega con il voto entusiasta di Meloni e poi dal Partito democratico per compiacere Giuseppe Conte, è pericoloso. Non solo dal punto di vista pratico, ma anche per la democrazia

La storia della riforma costituzionale – chiamiamola così, per pigrizia e per brevità – su cui saremo chiamati a pronunciarci il 20 settembre con referendum confermativo è quanto di più incredibile la politica italiana abbia prodotto negli ultimi anni.

Un taglio a casaccio del numero dei parlamentari portato avanti dal Movimento 5 stelle per ragioni di propaganda, votato inizialmente anche dalla Lega per accontentare l’allora alleato di governo, poi pure dal Pd per la stessa ragione, e da tutti gli altri per non farsi scavalcare sul terreno dell’antiparlamentarismo (non per niente Fratelli d’Italia, che su questo terreno può vantare solide radici storiche, ha rivendicato di averlo votato tutte e quattro le volte, pur stando sempre all’opposizione).

Si dice che tutti i tentativi di riforma precedenti abbiano sempre contemplato un taglio dei parlamentari, ed è un classico caso in cui una mezza verità equivale a una bugia e mezza. Il nostro problema, com’è stranoto, non è che abbiamo troppi parlamentari, ma che abbiamo troppi parlamentari che fanno le stesse cose, o peggio, che fanno, disfano e rifanno le stesse leggi, nell’interminabile viavai tra la Camera e il Senato.

Ed è proprio questo, infatti, il problema su cui tutti i precedenti tentativi di riforma costituzionale si erano concentrati: il bicameralismo perfetto, paritario o ripetitivo che dir si voglia. Perché è questo che rallenta, complica, rende più opaco e permeabile il processo legislativo.

Un problema che, con ogni evidenza, non è neppure sfiorato dal puro e semplice taglio lineare di un certo numero di parlamentari. Anzi, è ragionevole pensare che tra gli altri effetti negativi – indebolimento di tutti i meccanismi posti a difesa della divisione dei poteri, squilibrio della rappresentanza territoriale, disfunzionalità operativa di entrambe le Camere – il taglio avrà anche quello di consolidare, aggravandolo, quell’antichissimo problema.

Mi fermo qui, perché mi sono già annoiato io a scriverlo, e immagino il lettore. Perché le concrete conseguenze della riforma non hanno niente a che vedere con il motivo per cui è stata promossa da chi l’ha promossa né con le ragioni per cui è apprezzata dai molti che la apprezzano.

A perderci troppo tempo, paradossalmente, si rischia pure di passare per quello che guarda il dito invece della luna. E la luna è semplicemente il desiderio di dare uno schiaffo alla politica e al Parlamento. O davvero credete che se il taglio riguardasse 300 deputati anziché 230, e 200 senatori anziché 115, qualcuno dei suoi sostenitori direbbe che no, così non funziona più, allora non va bene? È evidente che 200, 220 o 340 fa lo stesso.

Per i sostenitori del Sì il numero dei parlamentari è come quello degli sbarchi per i sostenitori di Matteo Salvini: è troppo alto per definizione, a prescindere, qualunque esso sia. E l’unica ragione per cui i sostenitori del taglio possono eventualmente annoiarsi a leggere quanti sono attualmente i parlamentari in Italia, in quale proporzione rispetto alla popolazione e come stiano le cose altrove, è solo ed esclusivamente per avere un argomento a difesa della propria tesi.

Argomento che per inciso non troverebbero, essendo l’Italia, per parlamentari in rapporto alla popolazione, al ventiduesimo posto su ventisette paesi Ue, ventitreesimo su ventotto contando ancora la Gran Bretagna, come mostra la tabella gentilmente fornita dal Dipartimento riforme istituzionali di Palazzo Chigi giusto nella pagina in cui illustra le ragioni della riforma (consultabile all’indirizzo www.riformeistituzionali.gov.it).

Ma non è questo il punto, ovviamente. O almeno non dovrebbe esserlo, se non avessimo perso del tutto il senso delle priorità (oltre che del decoro). Il punto è che dopo una vittoria del Sì – come ha candidamente riconosciuto lo stesso Goffredo Bettini in un’intervista a Repubblica del 1° agosto – l’intero equilibrio di pesi e contrappesi garantito dalla Costituzione, secondo cui sono necessarie maggioranze qualificate per eleggere il Presidente della Repubblica, i membri della Consulta, del Csm e delle Authority, nonché per modificare la stessa Costituzione, sarebbe a rischio.

Di fatto, dipenderebbe dalla legge elettorale. E basterebbe davvero poco perché la disproporzionalità prodotta dal sistema di voto, da un eventuale premio di maggioranza, dalla torsione maggioritaria implicita nella riduzione dei seggi – da una qualunque combinazione di questi fattori, appositamente ricercata dalla maggioranza di turno o anche frutto del caso – consegnasse al vincitore delle elezioni quei famosi «pieni poteri» da cui l’attuale governo avrebbe dovuto metterci al riparo.

Ecco quale dovrebbe essere l’oggetto del dibattito, se stessimo al merito della questione. Ma non ci stiamo, lo so. Perché il referendum di oggi è il punto di arrivo di una lunghissima campagna, che ha avuto il suo ultimo e più forte punto di condensazione nel 2007 attorno al libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, «La casta», che poi era a sua volta la raccolta di una serie di articoli usciti sul Corriere della Sera.

La campagna è divenuta presto martellante. Sui giornali, in tv, in libreria, non si è più scritto e parlato d’altro. Ne sono nati veri e propri generi e sottogeneri letterari, format televisivi, un partito politico tutto intero. E adesso persino una riforma della Costituzione. Se passasse, Stella e Rizzo meriterebbero di essere citati tra i padri costituenti, perlomeno a pari titolo di Luigi Di Maio.

Non hanno soltanto regalato la parola d’ordine della lotta contro «la casta» ai Cinquestelle e a tutti i populisti del pianeta (anche in Francia, per dire, Marine Le Pen se ne è subito appropriata). Molto di più. È grazie a loro che l’espressione «costi della politica», fino a quel momento raramente utilizzata, è diventata il tema dominante del dibattito pubblico.

Un’affermazione che è già una vittoria, evidentemente. Una volta stabilito che la politica, il Parlamento, la democrazia sono un «costo», per non dire uno spreco, è chiaro quale sia il passo successivo.

E così abbiamo passato gli ultimi anni a leggere sui giornali del prezzo del pesce al ristorante del Senato o del taglio di capelli dal barbiere della Camera, e abbiamo discusso seriamente di come e quanto fosse giusto tagliare o chiudere l’uno e l’altro (sono stati chiusi entrambi, per la cronaca).

Il problema è che dall’auto blu, il barbiere e la spigola, com’era prevedibile, siamo passati a tagliare direttamente i seggi. Ma con lo stesso criterio e per la stessa ragione: lo sfregio. Come se non fosse già sfregio sufficiente averli riempiti di statisti del calibro di Danilo Toninelli e Laura Castelli. E allora lasciamo perdere il merito tecnico della questione, di cui si è già detto l’essenziale, e cioè che è una riforma dannosa dal punto di vista pratico e pericolosa dal punto di vista democratico.

Tralasciamo pure, per pietà e perché non abbiamo tempo da perdere, la questione dei «correttivi» che il Partito democratico aveva giustamente invocato come condizione per votare la riforma, e che non ha ottenuto, pur avendola votata (saranno finiti nello stesso cassetto delle modifiche ai decreti sicurezza, chi lo sa). Restiamo sul terreno su cui ci hanno voluto portare i sostenitori della riforma: i costi della politica.

Mettiamoli pure tutti in fila, questi fondamentali risparmi. Facciamo anche finta di non vedere il trucco, quando mettono nel conto dei risparmi il totale degli stipendi dei parlamentari, dimenticando di sottrarre la non piccola quota che ritorna allo Stato in tasse (è da questi particolari che si giudica un imbroglione, e loro non sono dei fuoriclasse nemmeno in questo).

Ma mettiamo anche, nell’altra colonna, i costi dell’antipolitica. E questi ce li abbiamo proprio sotto gli occhi, ogni giorno. Non parlo del costo delle migliaia di navigator assunti per trovare lavoro a se stessi, degli esperti del Mississippi che viaggiano solo in prima classe, dei consulenti e degli staff ministeriali raddoppiati o triplicati rispetto agli esecrati predecessori, delle famigerate auto blu che seguono i ministri in carovane degne di un sultano.

Parlo semplicemente di ciò che è diventata la politica italiana, dal merito delle scelte compiute al linguaggio, al modo di esprimersi, alla cultura media dei suoi protagonisti. Parlo soprattutto del trasformismo – tradizione antica in cui ci siamo sempre distinti – che ha ormai polverizzato ogni record precedente.

Al punto che lo stesso presidente del Consiglio, con tutto il suo partito, può allearsi con il principale partito dell’opposizione e formare con esso un nuovo governo, in nome della necessità di impedire l’ascesa al potere di quelli con cui governava fino a un minuto prima. Se ve lo avessero raccontato qualche anno o anche qualche decennio fa – in quei tempi disgraziati in cui i parlamentari si potevano ancora tagliare i capelli gratis e pagare due soldi una spigola, e i loro leader si chiamavano Enrico Berlinguer, Aldo Moro, Ugo La Malfa – ci avreste creduto?

Francesco Cundari Linkiesta 16/ 9/ 2020

 

 

La collettivizzazione del Parlamento. Un Sì contro la libertà politica

I nuovi (e inaspettati) sostenitori del Sì al referendum costituzionale per il taglio dei parlamentari cercano, in qualche modo, di far passare l’approvazione della legge costituzionale come uno step neutrale e meccanico sulla strada di “ben altre” riforme, come (forse si potrebbe dire) un’amara medicina che bisogna mandare giù per comportarsi da adulti e cogliere nelle miserie del presente le occasioni del futuro.

Il Partito democratico, per giustificare il rovesciamento delle posizioni sostenute fino a 12 mesi fa, sembra stia cercando di addolcire (e quasi di nascondere, per la verità) la propria campagna per il Sì al referendum, facendo passare questa scelta di campo come un adempimento burocratico. Un asettico disbrigo, quasi obbligato.

Tuttavia, una concezione “burocratica” di questa riforma è errata e fuorviante. Difatti, il taglio dei parlamentari, come realizzato, dal punto di vista “burocratico-efficientistico” è una non-riforma, sostanzialmente insensata. Perché 400 deputati e 200 senatori? Perché piacciono i numeri tondi e multipli? Il numero non è stato definito con alcun criterio razionale.

La nuova composizione non potrebbe, inoltre, risolvere alcuno dei problemi che si pone di superare riguardo l’efficienza delle camere, almeno non senza i mirabolanti correttivi o le ulteriori riforme che ne dovrebbero scaturire. Una nuova teoria, che potremmo definire della “generazione spontanea delle riforme” (dopo quella dei microorganismi), è stata infatti pubblicizzata da gran parte degli esponenti del PD e della stampa a favore del Sì: senza l’apporto di alcun influsso “vitale”, senza alcuna volontà senziente, da tale riforma verrebbero spontaneamente generate una serie di altre riforme perfette, di leggi elettorali e di nuovi regolamenti delle Camere, senza una apparente e logica spiegazione.

Dunque, se l’apporto “burocratico-efficientistico” del taglio è irrilevante, come appare, e se esso probabilmente non creerà per mitosi una serie di migliori riforme costituzionali, come è razionale prevedere, è palese che tale riforma abbia soprattutto un contenuto e una narrazione “politica” o meglio “anti-politica”, come ha peraltro sempre sostenuto il Movimento 5 Stelle.

Essa vuole, da una parte, eccitare e sobillare i diffusissimi umori “anticasta”, ma soprattutto convalidare e ratificare la teoria antiparlamentare della Casaleggio & Associati, secondo cui il Parlamento sarebbe inutile ed il futuro sarebbe la democrazia diretta.

Il PD e il Parlamento (quasi tutti i votanti nell’ultima lettura alla Camera, con solo 14 contrari) hanno voluto porgere la testa al boia, implorando la propria esecuzione. I parlamentari, in uno spettacolo a reti unificate di masochistica sottomissione hanno confermato di essere inutili, di essere troppi, di essere inadeguati a rappresentare la volontà generale.

L’obiettivo politico-ideologico (meglio antipolitico) della riforma è la soppressione del Parlamento come intermediario inutile da parte della volontà generale. Potremmo dire che questo è quasi un sacrificio, il cui sacerdote officiante è il Movimento 5 Stelle, che dovrebbe mondare anni di politica corrotta, che dovrebbe mondare la “naturale” immoralità del parlamentarismo e restituire il potere al popolo frodato.

Alcuni parlamentari che hanno votato in quarta votazione a favore della riforma per ottemperare al patto di governo passato o futuro, dichiarano oggi di voler votare No nel referendum. Ciò, oltre ad essere un controsenso logico, è anche una ferita del Parlamento e una conferma dei presupposti (dei parlamentari non ci si può fidare) e degli obiettivi (i parlamentari devono essere meri “portavoce”, ma non della propria, di voce) del programma antiparlamentare del M5S.

Il dire e il contraddirsi e il ricontraddirsi furioso di centinaia di parlamentari – di cui ovviamente non metto in dubbio la sincerità e le ambasce legate al ruolo in questo frangente – finisce per diventare una sorta di preambolo a una nuova costituzione antiparlamentare della politica italiana e all’introduzione del vincolo di mandato.

Se i parlamentari in Parlamento non si sentono liberi di votare per come la pensano, ma riacquistano questa libertà appena fuori dal Parlamento, confermano che la libertà non è compatibile con il loro “ufficio pubblico”, visto che essi stessi hanno ritenuto di esercitare il proprio voto secondo una supposta volontà generale, che esclude qualunque pluralismo.

E che il principale intento della riforma – il cui contenuto verrebbe ratificato dalla volontà popolare tramite referendum – sia proprio quello di introdurre una politica antipolitica e contraria al pluralismo, emerge con chiarezza anche dalla narrazione mediatica. Infatti, nonostante i rappresentanti del Sì siano in genere molto riluttanti a partecipare alle tribune televisive sul referendum e ad alimentare il relativo dibattito, quando effettivamente partecipano, l’impostazione “antipolitica” della riforma emerge con chiarezza.

Esponenti del Movimento 5 Stelle sono arrivati a sostenere che la riforma sia vantaggiosa, in quanto riducendo i parlamentari è più semplice “controllarli”.

Tale concezione è esattamente quella che vuole un’unica verità politica – la corretta volontà collettiva del popolo – e tutte le altre posizioni come maligne, e corrotte.

Concezione che combatte il pluralismo, il dibattito, la diversità di opinioni come frivole quisquilie e perdite di tempo. La negazione delle necessità del pluralismo è la postulazione di una collettivizzazione del Parlamento, o della morte della politica come esercizio di libertà in primo luogo personale.

Il fatto che questa riforma non sia un mero e asettico adempimento burocratico, ma parte di un progetto politico-ideologico populista che ha come obiettivo la struttura “liberale” delle istituzioni politiche, è dimostrato anche dagli espliciti richiami che esponenti del M5S (come il Presidente della Commissione Affari costituzionali Brescia in una delle ultime tribune elettorali) hanno fatto al secondo modulo della riforma istituzionale grillina ovvero al referendum propositivo.

Le due riforme – la seconda pur essendo molto lontana dall’approvazione rimane, come visto, nel cuore e nella mente dei grillini – e la loro narrazione implicherebbero una totale deresponsabilizzazione dei parlamentari e dei politici, in quanto essi, spogliandosi dalle proprie opinioni, diventerebbero dei meri esecutori della volontà popolare (come forse piacerebbe dire a Grillo, dei “megafoni”) privi di qualsiasi responsabilità autonoma e quindi di qualsiasi “accountability”.

Come, del resto, è accaduto nel caso dei parlamentari che, pur essendo dichiaratamente contrari, hanno votato a favore della riforma in Parlamento: in pratica hanno sostenuto di non esprimere una propria volontà politica, ma una diffusa opinione dell’elettorato. Una vera accettazione morale e intellettuale della dittatura della maggioranza.

Ariela Briscuso  in https://www.stradeonline.it/ 15/ 9/ 2020

 

ANNO I DEL REGIME SANITARIO

 

 

Per favorire la riflessione politica e giuridica per poter scegliere di VOTARE NO al referendum sul taglio dei parlamentari del 20/21 settembre 2020 Giovannini ha scritto un pamphlet dettagliato in PDF (pubblicato sul sito de L’Opinione) che trovate qui sotto e che potete scaricare e far circolare.

Il testo è lungo ( con evidenziati i passaggi fondamentali), da leggere con calma durante questa settimana per favorire una maggiore comprensione dei gravi rischi connessi al taglio dei parlamentari e per maturare una scelta più consapevole. Un dovere civile e morale!

E se, purtroppo, il referendum dovesse far prevalere i SI al taglio dei parlamentari questo PDF rimane un prezioso testo di studio per continuare la lotta politica e resistenziale verso i populismi. (GLR)

 

 

alessandro-giovannini-il-taglio-dei-parlamentari

L’idea distorta della democrazia ridotta

 

 

 

 

 

Articoli che vi raccomandiamo di leggere per approfondire:

Referendum: votare NO per dire basta!

Referendum: votare NO ai nemici dei Padri Costituenti.

Referendum: votare NO al populismo fascistoide del M5S.

Referendum: votare NO al brodo ideologico populista

Perchè votare NO alla riduzione del numero dei parlamentari

Appello di 183 costituzionalisti per il NO al referendum ( da leggere assolutamente)

“Serenamente” verso il referendum...

Calamandrei e il Parlamento

 

 

 

Stampa e diffondi il volantino per votare NO al referendum del 20/21 settembre 2020

volantino-per-il-referendum



 

 

 

 


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