Pubblichiamo una anticipazione del nuovo libro di MAURIZIO VIROLI in uscita in questi giorni “Etica del servizio ed etica del comando”, pubblicato dall’Editoriale Scientifica nella collana “Il Grifone ”, 2018.

 

Soltanto la persona moralmente libera, vale a dire la persona che ha senso del dovere, può servire bene la Repubblica. Chi non ha senso del dovere è una persona banale o una persona d’animo servile. Le persone banali possono obbedire con zelo e svolgere le loro mansioni con molta efficienza. Poiché non hanno convinzioni profonde sono però disponibili a servire qualsiasi regime: il terzo reich o la libera repubblica fa poca differenza.

Le persone d’animo servile sanno servire bene un uomo o alcuni uomini, non un ideale, e tanto meno la Repubblica. Tanto le persone banali quanto le persone d’animo servile hanno l’animo meschino, spesso miserabile. Possono essere astuti, mai saggi.

Sanno pensare soltanto in piccolo; non hanno la finezza intellettuale che nasce dall’impegno a capire qualche cosa che è più importante della vita privata e familiare. Possono essere dunque burocrati di uno stato autoritario o ottimi cortigiani, mai veri servitori della Repubblica.

Per un’altra ragione ancora soltanto le persone moralmente libere sono in grado di servire la Repubblica. Esse sole hanno la forza interiore necessaria per assolvere compiti che comportano fatiche, delusioni e pericoli. Chi invece serve la Repubblica per interesse, cerca di evitare fatiche e pericoli e quindi verrà meno ai suoi doveri.

Nei casi peggiori, ma tutt’altro che rari, chi serve per interesse si lascia corrompere dalla promessa di un premio. Se una Repubblica può contare esclusivamente su magistrati, forze di polizia, forze armate e pubblici funzionari che agiscono per interesse, ha fondamenta assai fragili. È destinata presto o tardi a trasformarsi in una tirannide, o in un’oligarchia, o in una democrazia corrotta.

Se l’interesse personale non serve allo scopo, quali sono le giuste motivazioni a servire bene la Repubblica? Una risposta potrebbe essere “il puro senso del dovere che la coscienza addita”. È una risposta ineccepibile ma esposta ad un’obiezione seria. Come sappiamo per esperienza, e come insegna la storia, la maggior parte degli esseri umani non rispetta i principi che pur ritiene giusti. La voce della coscienza che insegna la giustizia nei più è sovrastata dalla voce delle passioni, prime fra tutte la paura o il desiderio sfrenato di superiorità e privilegi. Sono dunque necessarie altre passioni, ma quali?

La prima passione che indico è il sentimento dell’onore. La nostra Costituzione, all’art. 54, addita esplicitamente l’onore, accanto alla disciplina, quali principi fondamentali che devono ispirare l’agire di tutti i cittadini ai quali sono affidate funzioni pubbliche. Nel significato proprio, il termine onore indica una dignità e a un valore. “Ti onoro” vuol dire riconosco il tuo valore: ammiro il tuo valore per quello che hai fatto e fai. Il vero sentimento dell’onore non consiste tanto nel valore che abbiamo per gli altri, ma nel valore che abbiamo ai nostri occhi se assolviamo i nostri doveri. Quanto è grande il valore che una persona ha ai propri occhi quando vive secondo il senso del dovere e agisce rispettando il dettame della propria coscienza? È un valore infinito. Nessuno può corromperla perché non c’è prezzo che valga il sacrificio di non esser più se stessi.

Accanto al sentimento dell’onore colloco, fra le passioni che aiutano a essere dei veri servitori della Repubblica, lo sdegno, il senso di repulsione che proviamo di fronte all’ingiustizia. È la passione degli animi grandi. La persona meschina è incapace di sdegno: resta indifferente di fronte alle ingiustizie, ai soprusi, alle umiliazioni inflitte ad altri. Diverso dalla compassione che proviamo nei confronti della sofferenza immeritata di altri, lo sdegno si rivolge non alle vittime ma contro gli aguzzini. Diverso dall’invidia, cioè la sofferenza per un bene che altri hanno e noi non abbiamo, lo sdegno disprezza la forza o l’astuzia degli oppressori. In senso stretto, lo sdegno è l’ira dei buoni, l’ira per giusti motivi, l’ira nei confronti delle persone contro le quali è giusto provare ira.

Guidato sempre dalla ragione, lo sdegno vive anche nelle persone più miti. Impone di operare anche quando le speranze di vincere sono esigue o nulle, quando bisogna agire nell’indifferenza dei più e quando i pericoli sono gravi. Spinge a difendere la libertà nei tempi bui, mentre i più piegano la schiena e si rassegnano all’oppressione. Norberto Bobbio l’ha definito “l’arma senza la quale non vi è lotta che duri ostinata, senza la quale, vittoriosi, ci si infiacchisce, e, vinti, si cede”. È la virtù dei precursori, degli anticipatori, di quelli che dimostrano che si può lottare e incoraggiano gli altri a seguire il loro esempio anche quando la prudenza consiglia di stare fermi, di tacere, di adeguarsi.

Un’altra passione che deve vivere nell’animo di chi serve la Repubblica è la carità, il valore fondamentale della religione cristiana che ha tuttavia radici nella cultura classica. Per carità intendo la sofferenza che proviamo nei confronti di chi subisce ingiustizia. Nei secoli, e nei più diversi contesti storici, la carità, ha sempre motivato, il servizio e l’impegno. È stata ed è il fondamento dell’amore della patria nel suo significato più nobile.

L’amor di patria, ricordiamolo in questi tempi in cui esseri a mio giudizio ripugnanti vaneggiano di amor di patria fascista, è la passione che dà al cittadino la forza di elevare il bene comune al di sopra del bene privato. Servire la Repubblica altro non è che servire il bene comune.

Soltanto chi sa servire può, in una Repubblica degna del nome, comandare. Oltre a volere e sapere servire, chiunque ha l’onere e l’onore del comando deve combattere la vanità che porta a cercare la fama. Chi non sa vincere la vanità non è capace né di vera dedizione alla causa, né di distacco critico.

Il comandante vanitoso diventa una sorta d’istrione che prende alla leggera la propria responsabilità. Più che delle conseguenze delle sue decisioni, si preoccupa dell’impressione che riesce a suscitare. Scambia l’apparenza del potere per il potere reale e gode del potere semplicemente per amore della potenza, “senza uno scopo concreto”, come scrive Max Weber. Esercita una forte influenza ma opera di fatto nel vuoto e nell’assurdo; non sa ottenere obbedienza fondata su vera e sincera lealtà; non costruisce una cultura. Non è il leader di cui ha bisogno una repubblica.

C’è posto per l’ambizione, fra le qualità di un leader? Deve esserci. L’ambizione è una passione forte che nasce dal desiderio di emergere, di distinguerci, di essere ammirati. È una passione naturale e lecita, se bene intesa, ovvero se intesa come desiderio di primeggiare per dedizione, per saggezza, per finezza di consiglio, per esempio di vita, non come brama di essere primi con qualsiasi mezzo per avere potere, ricchezza, celebrità.

Nel suo significato più nobile, l’ambizione è passione degli animi grandi; nel suo significato corrotto è la passione dei miserabili che pretendono di servire la repubblica e vogliono comandare soltanto per vanità meschina.

Se avessimo dei leader politici e dei comandanti consapevoli della dignità del servire il bene comune, e motivati da giusta ambizione, la nostra Repubblica vivrebbe giorni molto migliori.

Maurizio Viroli           Il Fatto  4 luglio 2018

 

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