L’ 11 luglio 1979 muore a Milano ucciso con quattro colpi di pistola da parte di un sicario di Cosa Nostra americana GIORGIO AMBROSOLI (46 anni) avvocato e commissario liquidatore.

Ambrosoli la sera dell’11 luglio aveva invitato nella sua casa alcuni amici per vedere in televisione un incontro di pugilato, finito il quale li aveva accompagnati alle loro abitazioni. Ritornato a casa (in via Morozzo della Rocca 1, Milano) e sceso dall’auto si sentì chiamare: «Avvocato Ambrosoli?». Ebbe il tempo di rispondere «sì». Poi il sicario mafioso italo americano William J. Aricò ( noto negli ambienti criminali di New York come Bill lo sterminatore) disse solo: «Scusi avvocato». E gli esplose contro quattro colpi di 357 magnum. Il sicario era stato ingaggiato da Michele Sindona per cercare di fermare l’azione risanatrice di Ambrosoli verso le sue banche.

Giorgio Ambrosoli nacque a Milano in una famiglia borghese conservatrice. Cresciuto ricevendo un’educazione fortemente cattolica, Giorgio frequentò il liceo classico “Manzoni” della sua città; poco dopo si avvicinò a un gruppo di studenti monarchici che lo indussero a militare nell’Unione monarchica italiana.

Nel 1952, concluso il liceo, decise di seguire le orme del padre e di iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza e si laureò nel 1958. All’inizio degli anni Sessanta si sposò con Anna Lori ( da lei avrà tre figli) e a partire dal 1964 si specializzò in ambito fallimentare e in particolare nelle liquidazioni coatte amministrative; per questo venne scelto per cooperare con i commissari liquidatori che si occuparono della Società Finanziaria Italiana.

Ambrosoli nel settembre del 1974 venne nominato da Guido Carli – governatore della Banca d’Italia – commissario liquidatore della Banca Privata Italiana che il banchiere siciliano e faccendiere legato a Cosa Nostra Michele Sindona aveva portato a rischiare il crack finanziario: compito di Ambrosoli fu quello di analizzare la situazione economica derivante dagli intrecci tra finanza, politica, criminalità organizzata siciliana e massoneria.

Telefonando alla moglie Anna per comunicarle la notizia disse: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Non era raro a quei tempi ma neppure comune. E soprattutto era anomalo considerando le forze in gioco. Per i cinque anni successivi Ambrosoli, che all’epoca aveva 41 anni e un’unica esperienza nel settore fallimentare, fronteggiò Michele Sindona, personaggio potente e spericolato con alle spalle Giulio Andreotti e mezza Dc, con relazioni che spaziavano dalla finanza internazionale alla P2 di Licio Gelli fino al gotha della mafia siciliana.

“Per quattro anni e mezzo mio padre lavorò duro alla liquidazione della Banca Privata ( di Sindona). I primi tempi rimaneva in ufficio tutto il giorno. Lo vedevamo a casa solo i primi tempi” ricorda il figlio Umberto Ambrosoli  (avvocato a sua volta, ex consigliere regionale di centrosinistra in Lombardia ed ora presidente della Banca Aletti SpA di Milano).

Ambrosoli ricevette l’incarico di dirigere la banca di Sindona ed ebbe l’opportunità di scoprire e analizzare da vicino le intricate operazioni intessute da Sindona a partire dalla Fasco, la società controllante che rappresentava l’interfaccia tra le attività nascoste e quelle conosciute del gruppo. L’avvocato lombardo si accorse delle numerose e gravi irregolarità commesse da Sindona e soprattutto delle molte falsità che comparivano nelle scritturazioni contabili; si rese conto inoltre delle connivenze e dei tradimenti compiuti da vari pubblici ufficiali.

Nel frattempo Ambrosoli iniziò a subire tentativi di corruzione e pressioni che miravano a indurlo ad avallare documenti che testimoniavano la buona fede di Sindona in modo da evitargli qualsiasi coinvolgimento sia civile che penale. Ambrosoli, pur essendo conscio dei rischi a cui stava andando incontro, non cedette: nel febbraio del 1975 in una lettera indirizzata alla moglie Anna le comunicò di essere in procinto di effettuare il deposito dello stato passivo della Banca Privata Italiana spiegandole di non avere timori nonostante i problemi che tale atto avrebbe causato a molte persone.

Nella lettera Ambrosoli dimostrò di essere consapevole che tale incarico sarebbe stato pagato “a molto caro prezzo: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese“. Quindi Ambrosoli sottolineò come questo compito gli avesse creato solo dei nemici che “cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria“.

Durante le sue indagini l’avvocato scoprì anche le responsabilità di Sindona  verso la Franklin National Bank, un istituto statunitense che versava in pessime condizioni economiche: per questo motivo le indagini non coinvolsero unicamente la magistratura italiana ma addirittura l’Fbi americana.

Nei mesi successivi Ambrosoli, oltre ai consueti tentativi di corruzione, dovette fare i conti con vere e proprie minacce esplicite: ciò non lo distolse in ogni caso dall’intenzione di riconoscere la responsabilità penale di Sindona e di liquidare la banca. Pur avvalendosi del supporto politico di UGO LA MALFA (1903- 1979) e di Silvio Novembre (un maresciallo della Guardia di Finanza) come guardia del corpo Ambrosoli non ottenne alcuna protezione dallo Stato a dispetto delle minacce di morte ricevute.

Ambrosoli ebbe anche il sostegno del governatore di Bankitalia Paolo Baffi e del capo dell’Ufficio Vigilanza Mario Sarcinelli, ma entrambi, nella primavera del 1979, vennero incriminati per interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento personale nell’ambito della vicende che riguardavano un altro famoso bancarottiere italiano: Roberto Calvi e il suo Banco Ambrosiano. Le accuse si dimostreranno, in seguito, assolutamente pretestuose, ma costrinsero entrambi sul momento alle dimissioni cosicchè Ambrosoli rimase ancor più isolato.

In questo stesso periodo Ambrosoli ricevette numerose telefonate anonime di carattere intimidatorio da parte di un interlocutore dal forte accento siciliano (probabilmente lo stesso Aricò) che gli ordinava, in maniera sempre più esplicita, di ritrattare la testimonianza che aveva fornito ai giudici statunitensi che stavano indagando sul fallimento della banca americana di Sindona.

Lapide accanto al portone dell'abitazione di Ambrosoli. Milano.

Nonostante il clima di tensione sempre più rischioso, Ambrosoli continuò a condurre la propria inchiesta pur osteggiato da pressioni politiche evidenti. Tale generosa ostinazione e determinazione gli costerà la vita con l’attentato orchestrato da Sindona.

Ai funerali di Ambrosoli non partecipò nessuna autorità pubblica a parte alcuni esponenti di secondo piano della Banca d’Italia, tra i quali lo stesso Baffi. Venti anni più tardi, nel luglio del 1999, lo Stato cercherà di riparare al suo atteggiamento assegnando ad Ambrosoli la Medaglia d’oro al valor civile in quanto “splendido esempio di altissimo senso del dovere e assoluta integrità morale spinti sino all’estremo sacrificio“.

Il 18 marzo 1986 Sindona  (già in carcere negli USA dal 1979 e poi in Italia dal 1984) venne condannato all’ergastolo quale mandante dell’omicidio Ambrosoli. Due giorni dopo la condanna morì avvelenato con un caffè nella sua cella del super-carcere di Voghera. Il killer di Ambrosoli, Aricò, era già morto nel 1984 durante un tentativo di fuga dal carcere federale di New York dove si trovava.

Lo scrittore e giornalista Corrado Stajano scrisse nel 1991 un’importante biografia di Ambrosoli intitolata “Un eroe borghese” da cui Michele Placido trarrà uno splendido film omonimo nel 1995, con Fabrizio Bentivoglio che interpreta Ambrosoli con grande intensità.

 

Dalla lettera scritta da Ambrosoli alla moglie Anna nel febbraio del 1975:

Anna carissima

è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I. (Banca Privata Italiana ), atto che ovviamente non soddisfarà molti e che è costato una bella fatica.

Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente di ogni colore e risma non tranquillizza affatto. È indubbio che in ogni caso pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese.

Ricordi i giorni dell’Umi (Unione Monarchica Italiana), le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene a quarant’anni di colpo ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito.  Con l’incarico ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se non fossi stato io avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo.

I nemici comunque non aiutano e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria e purtroppo quando devi firmare centinaia di lettere al giorno puoi anche firmare fesserie.  Qualunque cosa succeda comunque tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo.  Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese si chiami Italia o si chiami Europa…

Giorgio

 

Vedi:  Guido Rossa, un “eroe borghese” come Ambrosoli

Il dovere di tenere la rotta


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