“Era una legge che aspettavamo da 40 anni” ha dichiarato il trentenne capopolitico del Movimento 5 Stelle e ministro degli Esteri, esultando per il voto appena ottenuto da tutto (quasi tutto) il Parlamento. Sto parlando della mutilazione che il Parlamento ha inflitto a se stesso tagliando un bel numero di deputati e senatori e fingendo di farlo spontaneamente e per amor di patria.

Il messaggio che, con volontà ostinata, disciplina bulgara e diffuso imbarazzo, è stato inviato ai cittadini votando l’eliminazione di 230 deputati e 115 senatori è un messaggio cifrato. Perché si doveva fare? Da dove parte l’ordine?

Naturalmente la prima cosa che viene in mente è il detto popolare “parlare a nuora perché suocera intenda”. C’è un problema. Qui non si sa chi sia la nuora e non si sa chi sia la suocera. Ci sarà stata, nelle stanze interne, qualche spiegazione? Non ai parlamentari che (tutti meno 14) hanno votato la vasta mutilazione, quasi all’unanimità, dopo averla negata e disprezzata quasi all’unanimità (a parte i disciplinati 5 Stelle) in ogni dichiarazione di voto.

Non al popolo (“gli italiani” direbbe Salvini, che parla sempre da solo a nome di tutti) che si divide, ormai abbiamo capito, in tre grandi gruppi. Uno disprezza comunque tutto il Parlamento, grande o piccolo o gratuito che sia; uno lo vuole grande purché sia tutto leghista; il terzo non avrebbe partecipato alla mattanza se fosse stato possibile. Ma (e non siamo sicuri del perché) bisognava.

Non si capisce se la partecipazione in massa al grande e cupo evento di tutti i non 5 Stelle sia un insolito caso di disciplina o sia da interpretare come la necessità di far fuori un certo numero di futuri colleghi, perché altri sopravvivano. Di certo è il voto che più ha sconvolto e cambiato, fino a renderlo irriconoscibile, il volto della Costituzione, primo gesto rivoluzionario da quando esiste la Repubblica.

Mi rendo conto che queste parole possono sembrare drammatiche, e allora proverò ad affrontare i due percorsi opposti. È un bene. È un male.

1 – Confrontati in tanti modi, i parlamentari di altri Paesi sono in numero inferiore rispetto all’Italia (poco o molto, in qualche caso moltissimo). Perché non regolarsi come gli altri? L’eliminazione deve essere consistente per essere notata dai cittadini, severi nel giudizio con un Parlamento che non abbassa le tasse ma continua a fare leggi, a imporre obblighi, e ti impedisce, per esempio, di essere “padrone in casa tua”, come dicono i leghisti offrendo ai cittadini armi da comodino.

Implicitamente si formano due idee che diventano care alla folla: se i deputati sono meno, lavorano di più. Se i deputati sono meno, si risparmiano molti soldi che serviranno per usi migliori. Lo scarto di numero e dunque del costo (l’argomento più forte) diventa clamoroso quando si confronta l’Italia con gli Stati Uniti che, con una popolazione e una estensione territoriale non confrontabili con l’Italia, ha solo 100 senatori e 435 deputati.

I numeri non rendono conto delle regole, della storia, del potere e non spiegano, per esempio, che un deputato, da solo, può tener testa al presidente Usa. È evidente, comunque, che nel nostro Paese c’è uno squilibrio. Troppi in Parlamento. Questo squilibrio, subìto per decenni (ti dicono), va finalmente corretto sia per lavorare meglio sia per risparmiare. Non si dimentichi la questione della corruzione che fiorisce nella muffa dell’affollamento. La riduzione drastica ti dà un Parlamento più pulito e richiede solo ritocchi tecnici ai collegi che non cambiano il senso morale e politico della Costituzione.

2 – La composizione, anche numerica, della Camera e del Senato era stata disegnata con cura nell’insieme di tutto il corpo costituzionale, orientato a contenere il potere dell’esecutivo e a rendere accurata la rappresentanza dei cittadini. Impossibile non vedere che l’esplicita richiesta di pieni poteri da parte di un leader, in quel momento vicepremier e ministro dell’Interno (cioè il più potente) avviene alla vigilia della quarta e ultima votazione per la riduzione del numero dei Parlamentari.

La riduzione, condotta in uno spirito di necessità medica (amputazione necessaria alla salvezza del Paese) era stata preceduta dalla deliberata umiliazione (inflitta a tutti i parlamentari, giovani, vecchi, sani e malati, buoni e cattivi, laboriosi e profittatori), del taglio (in qualche caso dell’abolizione) dei celebri vitalizi di fine mandato, un gesto di potere imposto dall’esecutivo al legislativo nonostante il mascheramento da iniziativa spontanea.

Il fatto più sorprendente (che sarà bene spiegare) è stata la partecipazione compatta all’umiliazione collettiva di tutti coloro che erano in aula al tempo dei presunti misfatti, e lo sono ancora.

Furio Colombo      Il Fatto  13/10/2019

 

La democrazia dei vuoti

Esecutivo già nei guai. il taglio dei parlamentari non aumenta l’autorevolezza dei politici, ma è un altro passo verso la fine della rappresentanza

La democrazia degli idioti, l’ha chiamata senza tanti giri di parole Juan Luis Cebrián (El País, 7 ottobre). «L’espulsione dei dissidenti dai partiti, la tendenza all’autoritarismo interno, la ricerca del conflitto al posto dell’accordo, l’appropriazione partitica e stupida del significato di democrazia, le cui regole del gioco esigono una interpretazione comune, sono i segni ricorrenti della malattia che affligge il sistema», ha scritto il fondatore del quotidiano spagnolo.

Alcuni di questi mali sono tipici della Spagna, un Paese che torna a votare il 10 novembre per la quarta volta in quattro anni, la seconda nel 2019, con due legislature durate appena pochi mesi, ma anche con una crescita economica che da tempo è stabilmente sopra il due per cento, con un altissimo tasso di disoccupazione e di povertà. Altri, invece, incrociano l’Italia.

Non di una democrazia degli idioti, in realtà, parliamo a proposito della crisi italiana, ma di democrazia dei vuoti. È il filo che tiene insieme gli eventi della settimana che si chiude, alcuni di effetto nullo ma di significato storico. Di un tramonto, più che di un’alba nuova.

Il voto della Camera di martedì 8 ottobre che ha approvato definitivamente il taglio dei parlamentari, salvo una sorprese e un eventuale referendum, portando il Parlamento a seicento seggi (400 deputati, 200 senatori), è solo l’ultimo capitolo di un lungo processo.

Il Movimento 5 Stelle ha festeggiato il sì dell’aula di Montecitorio con una manifestazione in piazza, con un forbicione a tagliare le poltrone sullo striscione. Come se i 345 eliminati fossero occupanti illegittimi, mangiatori di denaro pubblico, spreconi da eliminare. Nulla è stato invece detto su chi resta: i seicento salvati dalla mannaia della riforma.

Non c’è nessuna garanzia che saranno più forti, più autorevoli, più necessari per i cittadini che andranno a eleggerli nelle prossime consultazioni politiche, e non ci può essere perché non è questo il fine di chi ha esultato per la riduzione. Non si pensa a un Parlamento più prestigioso, ma a Camere mutilate di un pezzo senza guadagnare nulla da un’altra parte, l’anticamera di future campagne anti-parlamentariste.

In dibattito arriverà a breve la riforma elettorale, la condizione che il Pd ha posto a M5S per abbandonare il no al taglio dei parlamentari e spostarsi sul sì dopo tre voti contrari, a dimostrazione che i sì e i no non sono questioni di principio (Stefano Ceccanti, deputato del Pd e costituzionalista, ha citato nel suo intervento in aula Groucho Marx: «Abbiamo i nostri principi, ma se volete li possiamo cambiare»).

Ma con varie gradazioni e livelli, in nessuno dei testi proposti nell’ultima legislatura, dall’Italicum al Rosatellum passando per un sistema tedesco che tedesco non era e che alla Camera non superò la prova del primo voto segreto, era affermato il principio che la scelta dei parlamentari sarebbe tornata ai cittadini e non ai capi-partito. Non il vecchio e famigerato voto di preferenza, ma uno strumento che restituisse ai parlamentari superstiti il contatto con la realtà.

Ancora una volta, dunque, si punta sul vuoto, che è così raggelante ma anche così rassicurante. Le riforme sul federalismo del 2001 o quella del Senato del 2015-2016 che voleva Matteo Renzi sono fallite o sono state rigettate dagli elettori perché non miravano a un rafforzamento del sistema in tutte le sue componenti, ma al suo indebolimento per favorire di volta in volta uno dei promotori del cambiamento.

Poi è arrivato Davide Casaleggio, sulle orme del padre, che di tutti i riformatori del vuoto è il più esplicito: «Oggi grazie alla rete e alle tecnologie esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile», ha detto un anno fa, prevedendo che al Parlamento sarebbe rimasto «il suo primitivo e più alto compito: garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti». E avvertiva: «Tra qualche lustro è possibile che non sia più necessario nemmeno in questa forma».

I suoi parlamentari, in buona parte, si sono molto impegnati molto a realizzare questa profezia. Ma a votare, gioiosamente o meno, per certificare la loro inutilità o irrilevanza sono stati nell’ultima votazione i deputati di tutti i gruppi, con l’eccezione di +Europa: il Pd e Forza Italia, la Lega e Liberi e Uguali, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e Italia Viva di Matteo Renzi.

Tagliare una parte per non cambiare il resto, un tripudio di gattopardismo riverniciato da cambiamento. Una strategia degli scafisti, buttare una parte dei migranti in mare per alleggerire lo scafo o intralciare le operazioni di soccorso, trasferita nelle aule parlamentari. Cui hanno aderito, per ragion di partito e di sopravvivenza, quelle forze politiche che hanno fatto della difesa della democrazia parlamentare e del primato della politica il loro tratto costitutivo.

È da decenni che si procede così. Il vuoto del Parlamento, trattato come una trave polverosa invasa dalle termiti, richiama il vuoto del potere, emerso nella sua gravità con un governo che ha alle spalle soltanto un mese di vita.

Dall’articolo di    Marco Damilano   L’Espresso 13/ 10/ 2019

 

La politica come pubblicità

Resterà nella memoria la manifestazione dei parlamentari pentastellati davanti a Montecitorio per celebrare la vittoria della loro proposta di taglio dei nostri rappresentanti. Una foto-riepilogo di una storia lunga di decenni e che rubrica sotto il titolo “la casta” parlamentarismo e partitismo.

Guglielmo Giannini (1891- 1960)

La diffidenza, quando non odio, verso il parlamento, è vecchia quanto il parlamento stesso anche se solo in alcuni Paesi, per esempio l’Italia, si è tradotta in regime antiparlamentare e antidemocratico con il fascismo. Questa diffidenza ha fatto sentire la sua voce anche nell’Assemblea costituente con quell’incredibile personaggio che fu Guglielmo Giannini.

Liberista come Friedrich von Hayek, che pubblicò La via verso la schiavitù nel 1943, due anni prima che lui pubblicasse La Folla, il fondatore del Fronte dell’Uomo Qualunque legò insieme parlamento, elezioni e partiti per concludere che, se si voleva far piazza pulita di tutto questo (della democrazia rappresentativa) occorreva usare il sorteggio per nominare una Camera che doveva solo sorvegliare e giudicare il lavoro ragionieristico del governo, un agente tecnocratico di uno Stato minimo.

All’origine di questo ingegnoso sistema, vi era il disgusto per la politica partitica, per quello spudorato metodo di fare campagna elettorale come si fa una campagna pubblicitaria.

Tramontata la stella di Giannini, non tramonta l’equazione tra partitocrazia e parlamento, che restò un tema ricorrente negli scritti di studiosi di orientamento conservatore e nei movimenti di destra. Dal Fronte dell’Uomo Qualunque al Movimento Sociale Italiano, la polemica contro il sistema dei partiti e la democrazia parlamentare fu al centro del Processo al Parlamento (1969) di Giorgio Almirante, che mise in discussione il suffragio individuale e diretto proponendo di “sostituirlo con un diverso sistema di rappresentanza”, quello corporativo.

Sorteggio nel caso di Giannini, rappresentanza corporativa in quello di Almirante. Diverse strategie ma stesso problema: “la casta”. Nella sua analisi delle forme di anti-partitismo, Nancy Rosenblum in On the Side of the Angels (2008) ha dimostrato come al di là delle varianti nazionali, l’animosità contro il parlamento è animosità contro i partiti, con il paradosso che deve farsi retorica partigiana essa stessa.

Nel governo rappresentativo, l’anti-casta diventa partito trasversale. Soprattutto quando, come oggi diventa un’ideologia prêt-à-porter per chi si candida fuori dai partiti. Gli antipartitisti sono a tutti gli effetti partigiani di una sola forma di partito, quella fatta di capitani di ventura e di aggregazioni à la carte costruite via internet con piattaforme private.

Come valutare l’antipartitismo nell’età del governo rappresentativo? Gli antipartitisti sono promotori di una visione di democrazia; la loro non è soltanto una reazione contro “la casta”. Dietro l’antipartitismo pulsa una radicale contestazione della rappresentanza elettorale.

E in effetti, una Camera con 400 deputati renderebbe la rappresentanza un orpello: l’Italia diverrebbe il Paese dell’Ue con il minor numero di deputati in rapporto alla popolazione (0,7 ogni 100.000 abitanti).

La rappresentatività non è solo una questione numerica; ma è anche numerica. Se non lo fosse perché non proporre un solo rappresentante per tutti? I numeri e le quantità sono importanti nella democrazia. E lo sono soprattutto se e quando i partiti sono destrutturati e personalistici.

L’attacco a “la casta” è ostilità per i partiti e i parlamenti ed è una manifestazione di antiestablishment. La novità è che oggi internet consente di attuare la nuova democrazia dei replicanti, un sistema che è sempre indiretto: i “partiti” sono le piattaforme e i “voti” i click, mezzi per designare o giudicare quelli “come noi”.

Ma questa sarebbe una riforma di sistema, così radicale da richiedere una riflessione costituente; e una votazione bulgara sul taglio delle poltrone è una scorciatoia patetica, se non fosse uno schiaffo alla nostra rappresentanza elettorale.

Nadia Urbinati     Repubblica 13/ 10/ 2019

 

Vedi:  Blindare la Carta, la riforma che manca

Taglio dei parlamentari, se la politica diventa uno spot

Se la democrazia diventa solitudine dei numeri esigui

Macchè democrazia, siamo una Repubblica

Il taglio dei parlamentari non serve. L’Italia ha bisogno di politici più seri, onesti e preparati.

L'ombra incompetente dell'Uomo qualunque

 



Calendario eventi
ottobre 2019
L M M G V S D
 123456
78910111213
14151617181920
21222324252627
28293031EC
Cerca nel Sito
Newsletter
In carica...In carica...


Feed Articoli