Pare incredibile ma sopravvivono ancora, annidate in remote foreste e rovine, sparute tribù di Ingenui, che senza nulla sospettare della modernità e del progresso coltivano idee arcaiche e risibili. Credono che la storia serva a capire la differenza tra fascismo e Resistenza o fra dittature e democrazie; o in che cosa la Rivoluzione francese cambiò il mondo, o fin dove giunse l’Impero Romano. C’è perfino chi ritiene che studiare filosofia significhi leggere Platone o Kant; che la matematica vada intesa come supremo strumento di conoscenza e di analisi del mondo e del pensiero. E così via, di superstizione in superstizione.

Credenze da reprimere senza indugio. Per fortuna, è già in corso la pulizia etica, grazie al ministero dell’Istruzione e alla sua Campagna per le Competenze. Tramontato il nozionismo, è tempo di assicurare “l’acquisizione delle competenze chiave che preparino i giovani alla vita adulta anche ai fini della futura vita lavorativa”. Perciò la scuola dovrà organizzare un “unico processo di insegnamento/apprendimento attraverso la reciproca integrazione e interdipendenza tra i saperi e le competenze contenuti negli assi culturali”.

Ed ecco “le otto competenze chiave di cittadinanza: 1. Imparare a imparare. 2. Progettare. 3. Comunicare. 4. Collaborare e partecipare. 5. Agire in modo autonomo e responsabile. 6. Risolvere problemi. 7. Individuale collegamenti e relazioni. 8. Acquisire ed interpretare le informazioni”.

Vasto programma, come si vede, al termine del quale la Pedagogia del Vuoto avrà raggiunto il suo fine supremo. Preparare a una Vita Adulta (che sia anche lavorativa è da dimostrare) in cui non si impara nulla, se non la tecnica per imparare qualcosa. Si progetta (ma non si sa che cosa né perché o per chi). Si comunica (checchessia), si collabora e partecipa (non importa se alla Costituente o a un pic-nic), si agisce responsabilmente (non si sa per quali fini e con quali principi), e naturalmente si risolvono problemi (qui almeno il modello non manca, il Mr. Wolf di Pulp Fiction).

Ora farò una confessione personale. Finora l’ho nascosto, ma l’autore di queste righe (lo dico non senza imbarazzo) è egli stesso un Ingenuo. È convinto, ad esempio, che lo straordinario successo all’estero dei nostri ricercatori e studiosi, che l’Italia matrigna respinge dalle proprie università sottofinanziate, sia dovuto in primo luogo alla bontà dei nostri licei, che molti, in America o in Germania, considerano i migliori del mondo.

Certo la formazione universitaria, finché non verrà anch’essa travolta dalla cecità dei tagli lineari, è stata e resta importante: ma è il ventaglio delle conoscenze di base del liceo che fa la vera differenza, creando una piattaforma di flessibilità mentale e di curiosità intellettuale che non dipende dalla “competenza” di “imparare a imparare”, bensì da quel che sui banchi di scuola si è veramente imparato, compresi Omero, Virgilio e Dante, o le nozioni (sì, nozioni) basilari di biologia o di fisica. E anche aoristi, tavole periodiche, logaritmi, e quant’altro.

Sono anzi convinto che oggi più che mai sia importante non “imparare a imparare”, bensì imparare la storia, quella più antica (per sapere che gli italiani sono un popolo straordinariamente meticcio e non una razza da difendere), e quella più recente (per capire che “fascismo” non vuol dire camicia nera e passo dell’oca, ma violenza contro il diverso, intolleranza, prepotenza, presunzione). Agire responsabilmente non nel vuoto, ma imparando la storia dell’arte, senza di che a proteggere il nostro enorme patrimonio artistico e archeologico a nulla servono soprintendenti e carabinieri.

Il fatto è che la scuola è troppo importante per lasciarla, incaprettata mani e piedi, in mano a “pedagogisti” parolai. Il problema della scuola va ridotto all’essenziale, come ha fatto benissimo Giovanni Floris in un libro prezioso (Ultimo banco. Perché insegnanti e studenti possono salvare l’Italia) perché dice pane al pane e vino al vino con piglio semplice e diretto.

Floris ha ragione, “la svalutazione della scuola e il tracollo della politica vanno di pari passo”, ed è nella scuola che si combatte “l’uso povero delle parole”. “Il lavoro dell’insegnante è cambiare il futuro”, trasmettendo concrete conoscenze, non astratte e vuote competenze.

Insegnando con la passione e la convinzione che vengono da discipline ricche di contenuti, e non da protocolli procedurali e burocratici travestiti da pedagogia. Perciò bisogna “costruire una scuola da cui escano cittadini migliori”, e non solo “una scuola da cui escano lavoratori”, la cui competenza primaria sia quella voluta da Lorsignori: la competenza di saper servire, meglio se gratis (a questo serve la funesta “alternanza scuola-lavoro”, di cui benissimo ha scritto, sul Fatto del 27 marzo, F.M. Pontani).

Ma chi vuole questa sagra paesana delle competenze, questo stuolo di pseudo-adulti con la testa vuota? Alle origini, c’è una raccomandazione del Parlamento europeo del 2006, prontamente accolta da Confindustria, e tardivamente ma gioiosamente sposata dal ministero della (non più Pubblica) Istruzione. Come ha scritto Anna Angelucci su Roars (18 marzo), si tratta qui di “competenze trasversali, pragmatiche, operative, procedurali, cui vengono subordinate anche quelle disciplinari e interdisciplinari fino a sparire. Finalizzate esclusivamente alle ‘sfide’ della società globale, della trasformazione digitale e delle tecnologie dell’industria 4.0.

Un cambiamento di paradigma epocale, in cui l’educazione culturale, intellettuale e morale viene sostituita dalla formazione esclusiva al lavoro, senza psiche e senza téchne.

Che cosa farà, di fronte questo paesaggio di rovine, il neo-ministro nel governo “del cambiamento” presieduto dal prof. Conte? Nel cosiddetto contratto di governo e nel discorso d’insediamento del presidente del Consiglio, su questo tema non c’era se non qualche paillette retorica.

Alla mia lettera aperta pubblicata dal Fatto l’8 giugno, il presidente del Consiglio non ha trovato il tempo di rispondere, ma (ri)tentar non nuoce. Proviamo dunque a chiedergli: il “cambiamento” includerà il ritorno al nome storico “Ministero della Pubblica Istruzione”, ripristinando l’aggettivo “pubblica” cancellato dieci anni fa? O il governo continuerà a privilegiare la scuola privata, sebbene la Costituzione (art. 33) dica che dev’essere “senza oneri per lo Stato”?

E in che relazione è lo squallido diktat delle competenze con la piena libertà dell’insegnamento sancita dalla Costituzione? La scuola è fucina del futuro: vogliamo che sia la palestra di cittadinanza voluta dai Costituenti, o un vivaio di servi armati di burocratiche “competenze”?

Salvatore Settis        Il Fatto  7 luglio 2018

 

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