Carlo Levi

La paura della libertà è il sentimento che ha generato il fascismo. Per chi ha l’animo di un servo, la sola pace, la sola felicità è nell’avere un padrone; e nulla è più faticoso, e veramente spaventoso, che l’esercizio della libertà. Questo spiega l’amore di tanti schiavi per Mussolini: questa mediocrità divinizzata, necessaria per riempire il vuoto dell’animo, e calmarne l’inquietudine con un senso di riposante certezza. Per chi è nato servo, abdicare a se stesso è una beatificante necessità.

Ma questi servi nati hanno anch’essi la loro piccola coscienza morale, che vuole qualche piccola giustificazione; e un loro piccolo, e tuttavia esasperato, senso italiano di teatrale dignità, che ha bisogno di velare di pretesti il vuoto e la paura. Questi servi nati hanno sempre trovato delle ottime ragioni per la loro viltà, che non era, no, viltà ma, volta a volta, amor di patria, desiderio di ordine, senso di responsabilità, dovere di «tradizione spirituale», e così via.

Per potere, in tranquilla coscienza, abdicare a se stessi, essi hanno sempre trovato pronta una necessità storica. Poiché si voleva un Dittatore, un Padre che assumesse su di sé la viltà universale, tutte le situazioni divennero per costoro stati di emergenza. Da trent’anni, dall’inizio della grande guerra, l’Italia è in istato di emergenza per consentire a costoro di essere vili senza rimorso.

L’Italia, per trent’anni, fu sempre da salvare; e così nacque il Duce, per salvare l’Italia, per salvare questi italiani dallo sgradevole dovere di essere liberi. «Quando non c’era il Duce» la vita era così faticosa, le sfrenate passioni così spaventose! Non c’è più il Duce, ahimè!, e si risente il peso della libertà. I servi nati si sentono inquieti: «Vi è infatti nel Paese (essi parlano sempre di se stessi col nome di Paese, o di Patria o di Nazione) uno stato d’animo inquieto», essi dicono. Ma, per fortuna, se non c’è più il Duce, c’è, in cambio, la rovina economica, la miseria, le distruzioni, le difficoltà di ogni genere. L’Italia è ancora una volta in stato di emergenza; l’Italia deve ancora una volta essere salvata, per la loro tranquillità.

C’è qualcuno che ha avuto la strana idea di battersi e di morire per la libertà. C’è qualcuno che oserebbe credere che il popolo italiano fosse un popolo maggiorenne, capace di creare le forme nuove del suo Stato, e di mostrare come si possa esser liberi anche soffrendo la fame. Costoro, è evidente, «non sono sufficientemente coscienti della gravità della situazione in cui si trova la vita, anzi le possibilità di vita del Paese»; costoro non hanno «un sufficiente senso di responsabilità».

Essi non sanno che, ancora una volta, bisogna salvare l’Italia; che cioè non si deve cercare di essere liberi, cosa pericolosissima, ma che «si tratta semplicemente di tenere la nave a galla». I buoni italiani, maestri nell’arte di galleggiare, rimandano a un domani indeterminato la nuova navigazione «quando i navigatori si dedicheranno a riparare le avarie, raddrizzare verso il cielo l’albero di maestro e di trinchetto, spiegare al vento e alla luce del nuovo sole le vele gloriose (?) e la disciplina, l’ordine, il comando (le sole cose a cui il loro cuore anela) saranno nuovamente stabiliti dalla libera volontà dei navigatori fatti esperti dalla prova superata».

In attesa della disciplina, dell’ordine e del comando futuri, ci si può intanto riposare sulla disciplina, l’ordine e il comando presenti. Non c’è più il Duce, ahimè, ma per fortuna ci sono delle «forze non nostre», che si sono mosse dai quattro angoli della terra non per combattere al nostro fianco una comune battaglia per la libertà, ma soltanto per la pace e la tranquillità dei servi nati nostrani, per dare ad essi il riposante senso di essere governati. E, al loro servigio, queste forze, se Dio vuole, «non potranno ritirarsi finché un minimo di solidità italiana (sic) non si delinei».

Quanto alla «solidità italiana» essa non potrà «delinearsi» che attraverso il «senso della continuità storica», «la tradizione spirituale e storica». «Si può infatti», essi dicono acutamente, «fantasticare il futuro, ma bisogna riconoscere la realtà storica del passato». Non crediamo che, in Italia, vi sia nessuno che desideri fantasticare il passato e riconoscere la realtà storica del futuro. Ma vi è certamente qualcuno che non vuol permettere ai servi-nati nostrani di salvare ancora una volta l’Italia. Vi è certamente qualcuno che ritiene calunniose per il popolo italiano le paure dei servi-nati, e offensive per gli Alleati le loro pretese di farne, anziché dei combattenti per la libertà, dei tutori delle loro paure.

Vi è qualcuno che vede nell’attuale Risorgimento italiano qualcosa di più e di meglio che «le questioni personali, le rivalità fra individui e fra partiti, le lotte di competenza fra autorità, l’accaparramento di posizioni che si credono di comando».

Vi è qualcuno che non ha paura della libertà, e che potrebbe anche perdonare la viltà dei servi-nati, se poiché non sanno vivere, sapessero almeno scrivere. Ma, ahimè, questi difensori della «tradizione spirituale e storica» hanno perduto anche la sola tradizione che avrebbero dovuto difendere, quella dei letterati cortigiani. Ma come è possibile, mio Dio, scrivere senza «disciplina, ordine e comando», e «finché un minimo di solidità italiana non si delinei»?

Carlo Levi (1902- 1975)

in La Nazione del Popolo,  2 novembre 1944. Organo del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (11 agosto 1944 – 3 luglio 1946)

 

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