Lo spazio pubblico è cannibalizzato dagli “eventi”, la logica dell’immediatezza prevale sull’investimento di lungo periodo

Nel 2011, alle Ogr di Torino, si tenne la mostra celebrativa per il 150° anniversario dell’unità d’Italia: una cattedrale fordista, un luogo di culto dell’organizzazione del lavoro novecentesco, fu trasformata nel palcoscenico di una rappresentazione della nostra storia dal 1861 a oggi. Alla fine la mostra fu smantellata e non ne rimase più niente, tranne la scenografia utilizzata per raccontare la mafia, ereditata dai giovani di Libera e installata in una cascina sequestrata alla criminalità organizzata. Poche settimane fa, le stesse Ogr hanno visto l’inaugurazione di un nuovo polo culturale destinato a incidere sul futuro di Torino. L’evento è stato salutato con entusiasmo dai media. Nessun accenno, neanche minimo, è però emerso ai successi del 2011, archiviati nell’indifferenza, sprofondati nell’oblio.

Questa è la logica degli eventi culturali che caratterizzano la nostra contemporaneità. Quello che viene dopo cannibalizza e fagocita tutto quanto che c’è stato prima.

Lo spazio pubblico della cultura è monopolizzato dagli eventi. Ne deriva un profilo complessivo privo di un disegno unitario, segmentato, che vive di accensioni istantanee e poi si spegne, proponendo un consumo culturale «usa e getta» che gli toglie ogni spessore, consegnandolo a un tempo effimero, destinato a essere archiviato in fretta.

Una conseguenza di questo approccio è la «separatezza» che si spalanca tra la catena degli eventi snocciolata nello spazio pubblico e quanto avviene negli archivi, nelle biblioteche e negli altri centri di ricerca, dove la cultura si produce e non si consuma. Pochi sono gli esempi virtuosi (il Museo Egizio di Torino è tra questi) in cui invece il nesso tra ricerca e «spettacolarizzazione» si presenta saldo e con esiti straordinariamente positivi; per il resto tra i due mondi non c’è scambio e, quando c’è, è a senso unico, con gli eventi che impongono le loro regole, proponendo anche alle istituzioni culturali più legate alla ricerca l’esigenza di adattarsi alle spinte del mercato.

Per quanto riguarda i musei, la tendenza ad assimilarne la gestione a quella di un’azienda si è imposta già nell’ultimo ventennio del secolo scorso, quando ci si incominciò a porre il problema del peso sempre più rilevante che i finanziatori, in buona parte privati, stavano assumendo nei confronti delle scelte scientifiche. Per ottenere finanziamenti si delineò allora un circuito in cui diventava necessario attirare visitatori e per attirarli bisognava divertirli, ottenere l’inserimento nei percorsi dei tour operator, offrire una serie di servizi di supporto tali da rendere gradevole «la gita».

E proprio su queste tendenze aveva richiamato a suo tempo l’attenzione Yannis Thanassekos, direttore della Fondation Auschwitz di Bruxelles: «Il museo storico postmoderno eclissa l’interpretazione ragionata della storia a vantaggio della sensazione, della simultaneità, dell’immediatezza e dell’impatto. Così, anche il passato storico rientra nella cultura della messa in scena, dello spettacolare, dell’effimero».

Considerazioni riprese da François Marcot, collaboratore del Musée de la Résistance et de la Déportation di Besançon, che in quelle procedure vedeva un duplice rischio: per il pubblico, di essere ridotto a un esercito di consumatori; e per il museo, di passare «dalla sfera del civico a quella del mercantile […] a meno che non si debba trovare proprio in questo il senso profondo del messaggio: essere cittadini, vuol dire essere consumatori».

Dietro a quella tendenza c’era, appunto, il mercato in un processo sfociato oggi nell’abbinamento istituzionale tra beni culturali e spettacolo che guardano entrambi ai musei e agli archivi come a potenziali luoghi di intrattenimento di massa. In Italia, una legge approvata dall’ultimo governo di Silvio Berlusconi, dalla quale sono derivati seri danni al principio di inalienabilità del patrimonio nazionale italiano, pubblico e sotto la tutela dello Stato, fu a suo tempo la traduzione legislativa di questa tendenza.

L’invasività del mercato è direttamente proporzionale alla crisi della politica; non ci sono più fondi pubblici, e quelli che ci sono hanno altre priorità da soddisfare. Si è così spalancato un vuoto che ora è diventato essenzialmente progettuale. Il mondo della ricerca non produce profitti immediati; gli archivi e le biblioteche, in una concezione puramente mercantile della cultura, sembrano istituzioni polverose e obsolete, da lasciare andare tranquillamente in malora.

Ne deriva la rinuncia a coltivare il circuito virtuoso che è invece necessario stabilire tra ricerca e divulgazione, tra profili culturali alti e spettacolarizzazione, senza accorgersi che proprio in quelle istituzioni ci sono gli antidoti più efficaci contro le approssimazioni e le bufale che attraversano lo spazio del dibattito pubblico sulla cultura.

Appellarsi ai privati è certamente legittimo e in alcuni casi anche opportuno. A patto di essere consapevoli di quali possono essere le conseguenze: un evento spettacolare avrà sempre la precedenza nei confronti di altri interventi più strutturali; la logica dell’immediatezza prevarrà sugli investimenti di lungo periodo; i bibliotecari e gli archivisti saranno sempre guardati con sospetto come appartenenti a un mondo scarsamente «produttivo.

Giovanni De Luna, storico,       La Stampa 9/11/2017

 

vedi:  Socialismo e cultura

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