Come se fosse l’architettura dei poteri e una Costituzione difettosa, a impedire alla politica e ai partiti di ritrovare la decenza perduta, o a darsene una ex novo. Come se un capo di Stato eletto direttamente dal popolo, e più dominatore – è il farmaco offerto in questi giorni – servisse a curare mali che non vengono da fuori, ma tutti da dentro, dentro la coscienza dei partiti, dentro il loro rapporto con la cosa pubblica, con l’elettore, con la verità delle parole dette.
De Gaulle in Francia concepì la Repubblica presidenziale per sormontare la guerra d’Algeria: aveva di fronte a sé un compito immane – la decolonizzazione – e alle spalle una classe politica incapace di decidere. Non aveva tuttavia uno Stato intimamente corroso come il nostro, in cui i cittadini credono sempre meno. La costituzione semi-monarchica nacque per adattarsi a lui – l’uomo che da solo era entrato in Resistenza, nel 1940 – non per servire un capopopolo stile Berlusconi, che non sopporta il laccio di leggi e costituzioni.
La politica francese prima del 1958 era inservibile, ma la corruzione morale e mentale non l’aveva sgretolata sino a farla svanire. La nostra guerra d’Algeria l’abbiamo in casa: è la nostra casa, squassata, che va decolonizzata. Sono qui dentro i golpisti, non lontani nelle colonie. Piazzare all’ingresso dell’edificio un padre-padrone, con poteri più vasti ancora di quelli che già possiede, non preserva la casa dalla rovina. E poi non dimentichiamolo. Non fu facile far nascere la Quinta Repubblica. L’accentramento dei poteri all’Eliseo rese il Paese più efficiente, ma moltiplicò opache derive e non lo democratizzò. Avvenne piuttosto il contrario: un Presidente autocrate e decisamente di parte; un Parlamento in gran parte esautorato; un governo sempre sacrificabile dal Capo supremo, e non a caso chiamato fusibile: la Quinta Repubblica è anche questo, e venne confutata da politici e costituzionalisti di rilievo. Non si oppose solo il socialista Mitterrand, che nel ’64 scrisse Il colpo di Stato permanente, denunciando antiche vocazioni bonapartiste e la perdita – grave – della funzione di arbitro del Presidente.
Pur esecrando il precedente regno dei partiti, pur approvando l’elezione diretta, si sollevarono anche costituzionalisti come Maurice Duverger: nella nuova Costituzione, egli scorse fin dal ’59 «spirito di rivincita» e partigianeria: “Ogni costituzione è un’arma politica, attraverso la quale un partito vincitore cerca di consolidare la propria vittoria e trasformare gli avversari in vinti”. Né la rivolta fu solo di sinistra. L’attacco finale venne da Jean-François Revel che, osservando l’uso socialista della Carta gollista, scrisse un pamphlet feroce: L’assolutismo inefficace. Mitterrand fu accusato di indossare il detestato manto presidenzialista per spezzare la dialettica democratica: “Le costituzioni sono cattive quando il controllo può divenire invadente al punto di paralizzare l’esecutivo, oppure quando l’esecutivo diventa onnipotente al punto di annientare il controllo”. Testi simili aiutano a capire.
Una costituzione è buona se consente controlli: “Senza contropoteri costituzionali – così Revel – il Presidente reagisce solo a forze esterne alle istituzioni: ai media e alle piazze”. Né si può dire che il presidenzialismo sia, almeno, più efficace: “Una buona costituzione non solo associa controllo ed efficacia senza sacrificarli l’un l’altro, ma garantisce l’efficacia perché esiste il controllo”. Bisogna comunque avere uno Stato e virtù pubbliche ben solidi, per schivare questi pericoli.
E l’Italia di oggi, dopo la Prima repubblica degradata in Tangentopoli, nella P2, nei patti Stato-mafia, dopo il ventennio dominato da uno scardinatore di istituzioni come Berlusconi, faticherà a salvaguardare la democrazia se cincischia la Carta proprio ora: è come se De Gaulle l’avesse negoziata con l’Organizzazione dell’armata segreta Oas. E non perché possediamo “la Costituzione più bella del mondo”, ma perché il vero check and balance, il reciproco controllo fra poteri indipendenti, non è compiuto. Più che bellissima, la nostra Carta è finalmente da realizzare.
Credere di raddrizzarla con il presidenzialismo vuol dire aggiungere un potere, lasciandola storta. Dicono che il popolo tornerebbe a esser sovrano, votando il Presidente. Non è detto affatto, rammentano i detrattori della V Repubblica. Mitterrand descrive rischi che saranno anche i nostri: una volta svuotati Parlamento, politica, governi, “si installa una tecnocrazia rampante, una sfera di amministratori indifferenti al popolo” che “confiscano il potere della Rappresentanza nazionale”. Citiamo ancora Revel: “La logica della V Repubblica deresponsabilizza, perché il potere è attribuito da un onnipotente irresponsabile a creature che sono solo emanazioni della sua essenza, e che dunque partecipano del suo privilegio di irresponsabilità”. De Gaulle non era temuto come tiranno. Ma i suoi successori?
Altro scenario in Italia. Primo, perché non c’è un De Gaulle fra noi. Secondo, perché il contesto conta quando si disfa la Carta e il contesto nostro è quello di uno Stato diviso in bande, che ha patteggiato finanche con le mafie. Un male come il nostro nemmeno sappiamo più bene nominarlo, e proprio quest’afonia trasforma le discussioni sul presidenzialismo in furbo escamotage. In doppia fuga: fuga dai fondamenti (quale bene pubblico è difeso da partiti o sindacati?) e fuga da noi, dalla nostra storia di colpe e misfatti. Una storia in cui si bagnano ormai destra e sinistra. Se evochiamo parole morali come colpe e misfatti è perché qui è il nostro guaio, dilatatosi a dismisura: l’aggiramento voluto delle volontà cittadine, la parola sistematicamente non tenuta, il tradimento. Il governo Letta è visto come inciucio perché nato da intese tutte fuoriscena, ob-scaena.
È strano come i politici, perfino gli innovatori, evitino di menzionare una tema che resta cruciale: la morale pubblica. Giacché è per immoralità che si rinviano le cose prioritarie, anteponendo l’escamotage. Mai come adesso invece, la questione posta da Berlinguer nei primi ’80 è stata così attuale. Oggi come allora, è obbligo etico il «corretto ripristino del dettato costituzionale», il divieto ai partiti di occupare lo Stato. Nulla è cambiato rispetto a quando Berlinguer diceva a Scalfari che la questione morale «è il centro del nostro problema»: quell’«occupazione » produce sprechi, debito, ingiustizia. È questione morale allontanarsene subito. È urgente, fattibile, e però intollerato dalle oligarchie. Per questo pesa il contesto delle riforme istituzionali, e inane è mimare Parigi. Questo è un paese dove non è stata mai fatta una legge sul conflitto di interessi. Dove un magnate tv ha governato nonostante una legge del ’57 proibisca l’elezione di titolari di concessioni pubbliche (frequenze tv). E restano le leggi ad personam, grazie a cui quest’ultimo elude processi e condanne.
Questo è il paese dove si ha l’impressione che niente sia vero, di quanto detto in politica. Che tutto sia fumo o diversivo. Il Pd aveva promesso di non governare con Berlusconi, e ora Berlusconi comanda. Aveva promesso di cambiare subito la legge elettorale, restituendo all’elettore la scelta dei suoi rappresentanti, e neppure questo fa. Quel che è accaduto giorni fa è una pagina nera, simile alla pugnalata di Prodi. La mattina del 29 maggio il deputato Pd Giachetti raccoglie adesioni contro il Porcellum per tornare automaticamente alla legge Mattarella (1 milione 210.000 italiani hanno chiesto un referendum per ottenere proprio questo, il 30-9-11). Circa 100 firmano: di Pd, Sel e 5 Stelle. Ma arriva l’altolà di Enrico Letta e Finocchiaro («È intempestivo, prepotente!») e dei Pd resta solo Giachetti.
Se ne parlerà, sì, ma se vorrà Berlusconi. Questo è un paese dove si mente al popolo, annunciando pompose abolizioni del finanziamento pubblico ai partiti, e poi ecco una proposta che obbliga i contribuenti a sovvenzionarli col 2 per mille, anche quando non lo dichiarano (le cosiddette somme “inoptate”). Questo è un paese dove il presidente della Repubblica esercita poteri imprevisti. Con che diritto, sabato, ha definito «eccezionale» il governo: «a termine»? Il Quirinale già ha pesato molto, influenzando il voto presidenziale e favorendo le grandi intese. Formidabile è la coazione a ripetere inganni, tradimenti. La chiamano addirittura pace, responsabilità. In realtà nessuno risponde di quel che fa o non fa. Deridono Grillo, che chiama portavoce i rappresentanti. Ma loro non sono affatto rappresentanti, essendo nominati. Nessuno è imputabile, e che altro è la non-imputabilità se non la fine d’ogni etica pubblica.
Barbara Spinelli la Repubblica 5 giugno 2013