Crediamo di sapere «in fondo» che cosa sia il razzismo, ritenuto troppo spesso un residuo del passato. Ma siamo sicuri di conoscere come funzioni oggi? Negli ultimi decenni si è profondamente mimetizzato, producendo forme nuove, massicciamente introiettate. Un neorazzismo culturalista, che senza fare direttamente uso della «razza» come concetto biologico, ormai risaputa per essere scientificamente infondata e globalmente condannata, «razzizza» alcuni gruppi sociali, in Italia: migranti e rom.

A rilanciare la necessaria riflessione, due libri usciti di recente, Razzisti per legge. L’Italia che discrimina (Edizioni Laterza) di Clelia Bartoli, e Il razzismo di Alberto Burgio e Gianluca Gabrielli (nuova collana Fondamenti di Ediesse). L’Italia attuale è affetta da razzismo? Entrambi rispondono affermativamente. Il primo, basandosi su un’accurata analisi della produzione di norme, leggi e politiche discriminatorie, che negano diversi diritti agli stranieri; per dimostrare che nel Bel Paese si è avviato un razzismo «istituzionale» – di sistema – che coinvolge istituzioni, media e pubblica opinione e genera una discriminazione cronica con effetti duraturi.

Il secondo libro, fondandosi su un’analisi storica, dall’antisemitismo, passando per il colonialismo, e la propaganda nazista (con due casi studi su Stati Uniti e Sud Africa), indaga il nesso strutturale tra razzismo e modernità; non «effetto collaterale », ma «istituzione-chiave della modernità europea, uno dei capitoli fondamentali della sua biografia intellettuale e morale».

Un dispositivo logico che, pur nella diversità dei contesti storici, ha una sua configurazione unitaria. Il razzismo non è, infatti, una questione di «melanina», ma di legge (Bartoli), di costruzione simbolica. Definendo ufficialmente «categorie» di persone, il diritto costruisce la «razza», determina chi sia «bianco» o «nero».

Come insegnavano le analisi del Black Power, il pregiudizio struttura la propria conferma nella realtà della marginalizzazione: diventa «vero». Per Burgio-Gabrielli, invece, il razzismo è l’invenzione di pseudo nessi psico-fisici, con connotazioni di giudizi negativi, che fabbrica la differenza. Non è quindi necessario a questo nuovo razzismo di usare il discreditato concetto di «razza» biologica, supplita da altre categorie e terminologie: l’uso semantico del «noi» e «loro», per distinguere autoctoni e migranti; la nazionalità, percepita quasi come «dato» biologico dal quale è impossibile sbarazzarsi. Come allertava già il sociologo francese Pierre-André Taguieff, il neorazzismo odierno ha operato una pericolosa «svolta culturalista», che essenzializza le differenze culturali (tradizioni, religioni, lingue…) e genera un velenoso lessico razzista sotto mentite spoglie.

Caso esemplare in Italia, l’«extracomunitario », il cosiddetto «clandestino», prodotto da una politica migratoria unicamente «emergenziale» e securitaria, imbastita a colpi di decreti e circolari. Come analizza lucidamente la Bartoli, la clandestinità diventata «reato», status di eccezione sinonimo di pericolosità e di criminalità, radicalizza la «differenza» quasi fosse «per natura».

I clandestini, una sorta di «neo-razza». In generale, è in corso nella società italiana un processo di criminalizzazione dei migranti, ma anche di «rom», «zingari» e «devianti»; malgrado biografie e origini diverse, vengono imprigionati in gabbie identitarie rigide e perimetrate, inferiorizzanti.

Da marxisti «doc», Burgio e Gabrielli rileggono il razzismo in chiave di etnicizzazione del conflitto sociale e di esclusione delle classi subalterne. Bartoli, in chiave di norme discriminatorie e xenofobia crescentemente istituzionalizzata, a opera, cioè dello Stato. Pure molto diversi nei loro intenti, i due saggi rifiutano entrambi l’assunto assai divulgato e piuttosto ambiguo stando al quale il razzismo sarebbe un residuo del passato; smantellano anche l’altra vulgata dominante che esso scaturirebbe dalla «paura del diverso», dall’angoscia dell’altro.

Il razzismo è invece costruzione pianificata e normativa dell’alterità, una delle strategie sociali più razionali nella competizione per le risorse materiali e per l’affermazione di una certa classe a scapito di un’altra. Questi due libri di utilità pubblica, che hanno il pregio di tesi esposte con estrema chiarezza, dovrebbero diventare manuali per le scuole. Nel panorama editoriale italiano, ci si aspetta ancora però un’analisi approfondita della psicopatologia di massa alla radice di quest’ideologia. Nell’ora in cui riappaiono svastiche e vecchi «deliri» in un’Europa fortezza, non è mai stato così urgente pensare alla cura.

Flore Murard-Yovanovitsch       “l’Unità”  18 luglio 2012

 

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