«Prendo il giornale e leggo che di giusti al mondo non ce n’è». Così iniziava il “Mondo in M7”, un brano musicale che scalò le classifiche. Era il 1966 e bastava infilare una moneta da 50 lire nel juke-box perché i bar del centro e della periferia delle città si riempissero della voce di Adriano Celentano e si gonfiassero di indignazione. Il suo rap ante litteram soffiava sul fuoco che covava sotto la cenere. Eravamo ai preliminari della grande contestazione del ’68. Da allora la giustizia nel mondo non è aumentata, al contrario dell’assuefazione alle terribili notizie. Mercoledì 11 luglio 2012, prendo il giornale e leggo che 54 immigrati provenienti da Tripoli sono morti in mare. Ma la notizia non fa grande clamore. Un naufragio di Costa Crociere fa più audience. Sono morti di sete, non annegati, come invece capitò a Fleba il fenicio, il fluttuare delle cui membra nelle acque marine è cantato da Thomas Stearn Eliot, rendendolo così eterno.
Non esiste una classifica di morti terribili. Eppure morire di sete in una distesa d’acqua ci appare ancora più assurdo e mostruoso, come annegare in una pozzanghera nel deserto del Sahara. Solo che quest’ultimo è un paradosso mentale, l’altra una tragica realtà quotidiana. L’acqua è un bene comune. Sì, ma a costo di grandi lotte e comunque non in mare. Là il non possesso traccia il confine tra la morte e la vita. Erano partiti in 55, uno solo può raccontare il progredire della micidiale disidratazione collettiva. Ma di che vita vivrà? I sommersi e il salvato. Primo Levi, in conclusione della sua splendida trilogia, scriveva che in fondo tutto quello che aveva voluto dire è che l’immane tragedia dell’olocausto, per il solo fatto di essere già accaduto, avrebbe potuto ripetersi. È vero, ma qui la tragedia si ripete con frequenza infinita.
La bella stagione è amica della morte, ancor più della cattiva. 170 morti dall’inizio del 2012? Quelli sicuramente accertati. Ovvero non meno, ma quanti siano stati in realtà nessuno lo può realmente dire. E di tutto ciò resta solo qualche dichiarazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Il nostro ministro Riccardi ha auspicato il rafforzamento del dialogo e della cooperazione. Altri neppure questo. Qualcosa si è mosso nel nostro Paese per regolarizzare le presenze di cittadini extracomunitari. Too little too late, direbbero gli inglesi. Intanto il mare nostrum continua a funzionare come un cimitero liquido di capacità illimitate. La vecchia Europa sprofonda nella crisi creata dalle assurde regole imposte dalle elite che la comandano, mentre le giovani generazioni d’Africa muoiono di guerra, di fame, di sete. È il nuovo mondo, cui bisognerebbe ribellarsi, non più in M7, in G20.
Alfonso Gianni, direttore della Fondazione “Cercare ancora” l’Unità 12 luglio 2012
L’intolleranza morbida
“L’Italia ha iniziato un percorso di guerra durissimo – ha detto ieri il presidente Mario Monti – una guerra contro i pregiudizi diffusi”. Si riferiva a quelli sugli italiani e sull’affidabilità finanziaria del paese. Chissà se qualcuno degli ascoltatori, nella sala del convegno dell’Associazione bancaria italiana, ha pensato per un attimo ai pregiudizi e alle discriminazioni degli italiani verso gli “altri”. Il mondo del pregiudizio diffuso e della discriminazione legalizzata dovrebbe richiedere qualche attenzione da parte di un governo degno di questo nome. La minaccia latente dei conflitti identitari del mondo attuale può essere tollerabile in condizioni normali, ma diventa devastante quando la violenza dello sfruttamento e il vilipendio dei diritti umani sono lasciati liberi di scatenarsi. Secondo i più aggiornati rapporti periodici dell’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) il fenomeno della discriminazione razziale è in forte crescita in Italia. Lo documenta una fitta serie di rilevazioni che riguardano l’accesso ostacolato o negato ai diritti primari di lavoro, casa, sanità, istruzione. Nei primi mesi del 2012 gli episodi accertati hanno superato il totale dell’anno precedente. Sono storie che nella statistica generale appaiono ripetitive, quasi incolori.
Ma basta entrare in una vicenda, incontrare un volto, un nome nella cronaca dei quotidiani, per rivelare ai più distratti in quale contesto siamo immersi, quale sia l’aria che respiriamo. Si pensi al caso recentissimo della piccola Blessed, promossa a Castel Volturno in prima elementare con tutti dieci, che non vedrà la pagella perché i genitori, privi del permesso di soggiorno, hanno paura a presentarsi in scuola per ritirarla. Sono tante le vicende come questa: storie di studenti figli di immigrati ma nati e cresciuti qui che si sentono dire dagli insegnanti: “Sei più bravo degli italiani”: e imparano così sulla loro pelle che da noi vige una legge razzista della cittadinanza come privilegio del sangue. Una legge che nemmeno gli appelli del presidente della Repubblica Napolitano hanno convinto le forze politiche e il governo a modificare. Di fatto i percorsi sociali deputati all’integrazione sociale e alla educazione ai diritti di cittadinanza, svolgono spesso il loro compito alla rovescia, lasciando ferite quotidiane nell’esperienza e nella mentalità di quei milioni di italiani di fatto che la legge e la mentalità corrente continua a definire non italiani. Questa è sempre più la realtà quotidiana di un’Italia dove una intolleranza morbida, quasi inconsapevole, frutto di ignoranza e di pregiudizio, esplode solo eccezionalmente in forme di razzismo conclamato e violento: un’Italia dove però vige un sistema che garantisce una discriminazione deliberata, utilizzabile a piacere a scopo di sfruttamento, di lavoro o sessuale che sia. Da noi, ricordiamolo, c’è un’antica vetta emergente di razzismo duro, banalmente quotidiano ma all’occorrenza spietato: è quello che riguarda gli zingari.
E qui ci sono i delitti della gente per bene, come quelle famiglie che a Napoli non volevano bimbi zingari nelle scuole dei propri figli e per questo nel dicembre 2010 ricorsero alla camorra e fecero dar fuoco al campo rom (sono di martedì gli arresti dei 18 responsabili). Accanto a questo picco razzista, c’è tutt’intorno quella pratica diffusa della discriminazione di cui parla il rapporto Unar, alimentata e incoraggiata già dal governo Berlusconi, che ci ha valso la condanna nel febbraio 2012 della Corte europea dei diritti umani per la prassi dei respingimenti in mare. Il governo Monti si è pubblicamente impegnato a dare attuazione alla sentenza. Ma poi il 3 aprile 2012 se n’è dimenticato quando ha firmato il nuovo accordo Italia-Libia sul controllo dell’immigrazione. Padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, ha chiesto inutilmente una “comunicazione trasparente” su quegli accordi e qualche garanzia sui diritti umani di chi attraversa la Libia fuggendo da guerre e persecuzioni. A quanto si sa, l’Italia si è limitata a rinnovare alla Libia la richiesta di fermare le partenze dei migranti prestandole per questo uomini e mezzi. E intanto quel mare che la retorica nazionalista definì “nostro” e che è per noi quello delle vacanze estive, è sempre di più per “loro” l’immenso cimitero dove annegano ogni giorno tanti disperati. Proprio dalla Libia proveniva ieri il barcone con 54 eritrei: 53 di loro “si sono spenti uno ad uno, uccisi dalla sete», ha riferito l’unico sopravvissuto. E intanto l’Alto commissariato Onu per i rifugiati informa che ce ne sono altri 50 in arrivo. Un fenomeno che secondo ogni previsione è destinato a crescere. Tutte queste cose il governo guidato da Mario Monti le sa. Ma non sembra intenzionato a occuparsene. In questa situazione gli sforzi generosi di singoli e di associazioni volontarie, laiche come Amnesty e religiose come i gesuiti della Fondazione Astalli, non ce la possono fare a invertire la tendenza. Non basta gettare in mare una corona d’alloro, come ha fatto una persona sicuramente di buona volontà come il ministro Riccardi. Questo governo si è dato un’auto-limitazione che danneggia il Paese perché lascia in essere cattive norme e cattive abitudini. Un governo, un Paese non vivono solo di economia.
Adriano Prosperi la Repubblica 12 luglio 2012
vedi: Cimitero Mediterraneo «Nel nostro mare ci sono 17mila cadaveri»