Mentre ci misuriamo a distanza e ci adattiamo a ‘cenare senza come Dio’ (E. Dickinson), mentre ci abituiamo a vedere spegnersi, un lume per volta, la cultura (la cultura sì, nessuna Mostra, nemmeno la più discreta, nessuna scuola, nemmeno la più piccola, resta aperta; teatri, cinema e librerie sono vuoti – ma le palestre, dove mani appiccicose stringono strumenti sudati, quelle continuano ad assembrare), mentre un metro di circonferenza virtuale ci isola dal mondo come un cane da guardia, vicino a noi, a pochi altri metri, avviene forse l’evento di più asettica ferocia avvenuto sulla terra: centinaia di migliaia di persone vengono spinte e guidate sul mare e per terra verso le frontiere di un paese che li aspetta con bastoni e fucili e distrugge il cibo che li terrebbe in vita, e quando cercano di tornare indietro alle loro prigioni, quelli stessi che li hanno spinti fuori li fermano tenendoli a forza nella non-terra di mezzo che hanno creato per loro.

Una congiunzione efferata, che ha un prezzo: 3 miliardi di euro, il prezzo che la Turchia reclama e l’Europa continua a dare. Questo prezzo non è un valore. Non è il valore della vita delle persone strette fra due morse, ma è il prezzo del ricatto cui l’Europa docilmente cede, da quando ha cominciato a pagare la Turchia e la Libia perché fermassero, a modo loro, i migranti. È il prezzo di una merce umana che nessuno vuole.

Io dico, sapendo che improperi mi tirerò addosso, che la Shoah è stata battuta: nemmeno i nazisti hanno usato gli umani con tale sprezzo, cinismo e iniquità. O meglio, i nazisti odiavano e disprezzavano le loro vittime. Ma nessuno odia o disprezza i Siriani e i Curdi che fuggono la guerra. Eppure li lasciamo friggere nell’olio bollente senza che nessun giudizio abbia comminato questo Inferno.

Li abbiamo disumanizzati. O addirittura disanimalizzati. E noi con loro. La Presidente del Parlamento Europeo dice: «La Grecia è il nostro scudo!», senza una parola per la carne inerme e smarrita che si trova davanti a questo scudo.

Sembrava che la Shoah fosse il male assoluto, ma non esiste il male assoluto. Il male è una potenza senza limiti e senza confini. Il solo limite è quel che ‘puoi’ o ‘non puoi’ fare. Il mondo li sta scavalcando tutti. Il nostro mondo.

Si alza qualche flebile voce, ma siamo troppo occupati dal nostro metro vuoto. Diceva giorni fa sul Manifesto Roberta De Monticelli, che il peggio non è il male, ma l’indifferenza fra il bene e il male. Questo virus è una prova generale d’indifferenza. Prove di disumanità andate a buon fine.

Ginevra Bompiani     Il Manifesto  7/3/2020

 

 

Il Dio meschino del coronavirus

Vito Mancuso ha scritto una bella riflessione sulla paura che ci avvince e ci affascina – il fascino ambiguo di tutto ciò che minaccia la nostra vita, perfino questo coronavirus che alcuni virologi ritengono non peggiore di un’influenza stagionale (almeno quanto a percentuale di decessi).

È un teologo, e dalle sue righe vien fuori un Dio che molti teologi del Novecento hanno trovato consono al suo nome: un Dio di grazia e di terrore, mortifero e avvivante, ambiguo quanto i nostri affetti – anche se, pantografata nel divino, la nostra ambiguità si chiama più nobilmente coincidenza degli opposti, Mysterium tremendum, «il dio che atterra e suscita».

Insomma il Dio di Mancuso è un Dio dialettico. E assomiglia proprio come due gocce d’acqua a quello del sacrificio di Abramo, quel signore di dubbia o piuttosto nulla moralità che l’antropologia culturale chiama il «sacro», sottolineando con gaudio la violenza assassina che il simbolo, il totem, il recinto racchiude, incorona e adora.

Questo Dio è lecito non amarlo affatto. Io direi anzi che non amarlo è doveroso. Ma non è per questo che – dalla mia stanza isolata, in quarantena, a Parigi – vorrei rispondere a Mancuso, che nel suo ultimo libro (se Dio vuole) libera l’etica dal suo preteso fondamento divino, citando precisamente a contrario il sacrificio di Abramo. È perché la sua meditazione sulla paura e sul coraggio forse giunge alle stesse esortazioni cui ogni uomo di buona volontà, specie se pubblico intellettuale, dovrebbe giungere: ma lo fa per una via che a mio parere perde di vista l’essenziale. Mi spiego: c’è una passione che nel nostro Paese non alligna granché, ed è la passione per le distinzioni.

Distinguere il vero dal falso, in primo luogo. Distinguere i veri dai falsi numeri, ad esempio (vedi l’incredibile intervista rilasciata ai media oggi dal Consigliere per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali sul coronavirus Walter Ricciardi).

Distinguere la peste da un’influenza, per quanto perniciosa. L’informazione dal sensazionalismo. La responsabilità istituzionale di governanti e amministratori dagli interessi di partito. La professione medica dal divismo televisivo. La coerenza, linearità e trasparenza delle disposizioni di un governo dalla vociferazione ubriaca di un’osteria.

Perché una paura tanto opaca e confusa, tanto priva di cognizione di causa – tanto cieca, e non per colpa di chi ce l’ha – a me non sembra degna di alcun dio, e tanto meno dell’umanità civile che dovrebbe abitare una società democratica. E vengo al dunque.

Ho attraversato con sgomento e angoscia il mondo dei grandi moralisti classici, da Machiavelli a La Bruyère. Mi aprono un mondo di anime spaventosamente anguste, di motivazioni terribilmente meschine, di crudeltà barbariche e servitù volontarie, di “volontà di potenza poggiata sulla malizia e sulla frode” (Giovanni Macchia).

Certo, anche di lampi grandiosi di intelligenza, nobiltà e follia. Certo, è anche il mondo di Amleto, di don Chisciotte, del Greco. Ma sono squarci di luce su quell’«abisso di vizi trionfanti» da cui fugge disperato Alcesti, il Misantropo di Molière. E’ la società del Re Sole. Ed è davvero verminosa e fosca quanto solare pare il trono e la gloria.

Sono arrivata a una conclusione. C’è davvero un nesso essenziale fra l’anima e la polis, fra la forma politica dei rapporti che costituiscono uno Stato e la forma etica delle relazioni che costituiscono la società e le persone. E ho capito la ragione della tristezza che mi avvolge, in questa doratissima quarantena.

Quell’«abisso di vizi», appunto, secerneva dal dolore il dubbio e il fermento di un umanesimo nuovo, nutriva la luce dei Lumi.

Ma la nostra società, travolta dal manzoniano «delirio collettivo» (grazie, Professor Squillace!), perduta ogni fiducia nelle sue istituzioni, istupidita dal sensazionalismo becero dei suoi media, mortificata dalla disoccupazione della mente, avvilita dall’assenza di speranza: quali dubbi, quali fermenti potrà mai produrre? Non lo avremo già raggiunto, quel sommo male che secondo una grande pensatrice francese non è il male, ma l’indistinzione del bene e del male? Non sarà un dio che rasenta la meschinità di un demonio gogoliano, caro Vito, l’ambiguo iddio che si aggira fra noi?

Quanto a me, se proprio di un Dio parlar bisogna, oh quanto preferisco quello di mia nonna, quando il prete saliva «all’altare di Dio, quello che accende la mia giovinezza». Perché non lo dite più, a messa?

Roberta De Monticelli, filosofa             Il Manifesto  28/2/2020

 

 

dall’articolo: A infettare l’Europa sono due virus

Se un raffreddore non impedisse al Papa di affacciarsi alla sua finestra di San Pietro come tutte le domeniche, forse avrebbe potuto riflettere con i suoi fedeli sul rapporto – clamorosamente visibile dal punto di vista religioso – fra coronavirus e violenza (turca e greca) su donne e bambini che fuggono dalla violentissima guerra russa e turca sopra la Siria.

Persino ai tempi in cui bastava agli umani di credere in una schiera di potenti e capricciosi padroni del cielo e del destino, si sarebbe detto che alla fine Giove, disgustato da tanta crudeltà e insensatezza dei governanti d’Europa, mandò come punizione un virus che avrebbe scardinato i mercati, unico vero amore di tanti Paesi formalmente associati, ma sospettosi e gelosi l’uno dell’altro. Il virus, infatti, se non è una maledizione divina, è inspiegabile.

Intanto animosi soldati greci sparano (dicono: proiettili di gomma) su una folla di decine di migliaia di famiglie siriane (metà donne e bambini) che tentano di attraversare il confine europeo, spinti alla spalle dai soldati turchi che vogliono liberarsene su direttiva (una astuta mossa di strategia politica detta”ricatto”) del loro Presidente Erdogan.

Noi, gli europei di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni e Ernesto Rossi, apprendiamo di avere un confine che coloro che fuggono da una guerra non possono attraversare, pena la morte. Scopriamo di essere prigionieri di una colonia sovranista in cui, se non sei bianco ed europeo, non conti.

E se non sei ungherese non conti in Ungheria, se non sei polacco non sei niente in Polonia, se non sei austriaco non passi, insomma sei un cittadino a cui hanno cancellato la Resistenza, cancellato la vittoria del mondo libero nel 1945, e reso inutile sia il voto che la Costituzione democratica, perchè persino la presidente della Commissione Europea, la graziosa signora von der Leyen ha detto”apprezzo molto ciò che sta facendo la polizia greca ai confini dell’Europa”.

Nessuno scienziato troverà un nesso fra coronavirus e politica europea, fra Europa e mano violenta verso i deboli del mondo. Ma è evidente che si tratta dello stesso disastro.

Furio Colombo       Il Fatto  8/3/2020

 

 

“Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia.”

Primo Levi (1919- 1987), scrittore e Partigiano

 

 

 

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