Diciamolo subito, per disarmare i numerosi cantori del sovranismo in servizio permanente effettivo. Ovviamente nessuno si sogna di accostare Leoluca Orlando a Gandhi e Danilo Dolci, o Luigi de Magistris a Martin Luther King e Aldo Capitini. Ma mai come stavolta, senza scomodare Sartre, si può dire che «ribellarsi è giusto». In questa Italia passata con troppa fretta dal rancore alla cattiveria (come dice il Censis), “l’atto sedizioso” dei sindaci di Palermo, Napoli e altre città è una benedizione politica, oltre che una ribellione etica. In quel rifiuto di applicare il decreto sicurezza non si può non vedere un sano embrione di quella «disobbedienza civile» che Gustavo Zagrebelsky auspicava giusto un mese fa, proprio su questo giornale.

#Decreto Salvini: così, tronfio di orgoglio, lo aveva presentato il capo leghista a Palazzo Chigi, obbligando il premier a fargli da uomo-sandwich con apposito cartello esibito davanti ai giornalisti. Così, adesso che è legge dello Stato, dovrebbero applicarlo i Comuni.

Costretti a negare l’iscrizione all’anagrafe ai migranti, per i quali è stato abolito il permesso per motivi umanitari. A privare migliaia di esseri umani dei diritti essenziali, a partire dall’assistenza sanitaria. A smantellare i piccoli centri di accoglienza Sprar. A buttare in mezzo alla strada uomini, donne,bambini, condannandoli alla miseria e regalandoli al circuito dell’illegalità e delle mafie. «È un provvedimento disumano e criminogeno, e sa di odio razziale», dice Orlando. Ed è onestamente impossibile dargli torto.

Articolo 10 della Costituzione italiana

Quel decreto è la quintessenza del populismo salviniano, che riflette alla perfezione lo spirito del tempo.

Sequestro del linguaggio e torsione delle parole (“sicurezza” e “ordine”, “nazione” e “identità”). Costruzione del nemico e paura del diverso. Affermazione di un “principio naturale di disuguaglianza” e diffusione di sottili “crudeltà istituzionalizzate”.

È vero: sondaggi alla mano, questo grumo ideologico di nazionalismo securitario e xenofobo seduce molti italiani, rinchiusi nei miti della “Piccola Patria” e nei riti del ” sovranismo psichico” (per restare alla formula Censis). Ma questo corpus culturale, e adesso anche legislativo, resta uno schiaffo alla civiltà e uno strappo alla Costituzione.

Qualcuno l’aveva detto. Giuristi come Gaetano Azzariti sul Manifesto o testimoni di una sinistra che non c’è più, come Rossana Rossanda su Repubblica: «Non capisco come Sergio Mattarella abbia potuto fìrmarlo: è un testo razzista, il migrante è visto soltanto come potenziale criminale».

Oltre alla solita retorica simil-trumpista del «prima gli italiani», Salvini scaglia ora contro i sindaci “eversivi” proprio l’argomento della firma presidenziale. Ma il ministro della Paura si guarda bene dal ricordare che il 4 ottobre, insieme alla firma, il presidente della Repubblica inviò un messaggio chiaro al premier Giuseppe Conte, invitandolo pubblicamente, proprio nell’attuazione del decreto, a far rispettare «gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato» sui diritti dello straniero, al quale l’articolo 10 della Costituzione garantisce sempre, oltre all’asilo, anche «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche».

Tra le tante norme insopportabili del provvedimento, infatti, ce n’è una che amplia il perimetro dei reati per i quali al migrante può essere ritirato il permesso di soggiorno, anche se la sentenza di condanna non è ancora passata in giudicato.

È la dura lex del salvinismo: garantista con gli italiani, forcaiolo con gli stranieri. Esemplare la risposta che il Capitano diede allora al messaggio di Mattarella: «Ciapa lì e porta a ca’..». Perfetto senso delle istituzioni, per il responsabile del Viminale e custode della sicurezza pubblica di tutti i cittadini, che una domenica in Piazza del Popolo a Roma cita papa Francesco e la domenica dopo, a Milano, va a braccetto col capo ultra condannato per traffico di droga.

Questa perversa forma di macelleria morale e costituzionale sta producendo i suoi danni. Da Riace a Mineo, sono già finiti per strada centinaia di migranti e ora rischiano di restare senza protezione umanitaria i quasi 39.145 richiedenti asilo che l’avevano ottenuta tra il 2016 e il 2017.

Finora l’unica opposizione forte era venuta dagli uomini di Chiesa, dal segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin, al vescovo di Caltagirone, Calogero Peri; «Qui non si tratta di politica, ma si tratta di stare dalla parte degli esseri umani». Se adesso la “resistenza” non è più solo religiosa, ma diventa anche istituzionale, questo è il segno che forse non tutto è perduto. E magari abbiamo ancora una speranza di “restare umani”.

Dai Cinque Stelle, rispetto all’egemonia della destra sfascista, è ormai inutile aspettarsi un dissenso. All’interno lo regolano con le purghe casaleggiane, all’esterno si distinguono per un fragoroso silenzio. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, evidentemente, sono ancora persi tra le baite di Moena.

Ma per tornare a Zagrebelsky: a chi esalta la forza si opponga la mitezza, a chi pretende di parlare a nome degli italiani si opponga il dissenso, alla cultura della discriminazione si opponga la solidarietà. Fino ad arrivare alla «disobbedienza civile», che come insegnava don Milani è spesso «una virtù».

Qualche sindaco ci sta provando, anche a costo di disapplicare una legge. Restano la sedicente opposizione e la cosiddetta società civile: che cosa sono disposte a fare, per dimostrare che un’altra Italia è possibile?

Massimo Giannini       La Repubblica  3 gennaio 2019

 

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