A livello politico, la corruzione è la deviazione del potere dalle finalità che gli vengono assegnate dalla civiltà moderna. Che consistono nell’amministrare impersonalmente e imparzialmente, e nel riconoscere e tutelare i diritti individuali e collettivi in un contesto di legalità, di certezza, di uguaglianza, di prevedibilità. C’è corruzione quando un apparato pubblico (una burocrazia) accetta o sollecita per sé benefici, in denaro o d’altra natura. Benefici solo in cambio dei quali soddisfa alcuni bisogni sociali – non tutti, ma solo quelli dei corruttori –; ma questa è appunto una deviazione sostanziale del potere dal proprio orizzonte pubblico. La corruzione rende il potere parziale e ingiusto perché favorisce qualcuno (chi è in grado di corrompere prima e meglio) a danno di tutti coloro che hanno diritto a una prestazione pubblica, o a vedere riconosciuto un diritto, un merito.

Quando questo strappo alle regole diventa sistema, quando l’anomalia diventa norma, si perde qualcosa di ancora più profondo della forma moderna del potere. È la fiducia dei cittadini nel potere, e al tempo stesso nella sostenibilità delle loro relazioni sociali. Per ogni concorso truccato, per ogni promozione ingiusta, per ogni permesso edilizio comperato, per ogni scandalo, per ogni occhio chiuso, tutta la collettività paga un prezzo: si dissipa quel capitale di reciproca credibilità fra Stato e cittadini, e all’interno della stessa società, che è l’architrave e il cuore del patto sociale. Ovvero, la promessa – implicita ma vitale – di tutti verso tutti che la nostra vita collettiva sarà immaginata, concepita e condotta secondo principi che la differenziano dalla vita in una giungla. La promessa che la vita sociale si organizzerà in modo tale che non sempre il più forte, il più ricco, il più astuto, prevarranno sugli altri – come invece avviene in quello stato di natura al quale i filosofi che hanno fondato la modernità politica affermavano che è necessario uscire, verso la civiltà perfezionata –.

La corruzione è il tradimento di quella promessa, di quel patto; è il ritorno della natura all’interno della vita associata, con tutta l’irrazionalità e l’imprevedibilità, con tutti i rischi, con tutta la cecità che la natura comporta. È la risposta più pigra e naturale alle difficoltà del funzionamento dello Stato, alle nuove esigenze della società: anziché operare riforme – mirate, progettate razionalmente – si sceglie la via più facile per recuperare efficienza, cioè il reciproco adattamento fra uno Stato invecchiato e una società che accetta di decomporsi pur di funzionare. Con il risultato perverso che, al contrario, si pregiudicano le basi stesse dell’efficienza, a tutti i livelli. La decomposizione delle architetture della politica, che danno forma anche alla società – il potere pubblico, la legge, l’uguaglianza –, e l’affermarsi di conglomerati opachi di forze occulte, di collusioni fra pezzi di Stato e pezzi di società, di omertà diffuse, di sistemi illegali, di cricche, di mafie, sono infatti la fine della distinzione e della chiarezza, e l’affermazione della nebbia, dell’oscurità, in cui tutti sospettano di tutti, e tutti – i pubblici funzionari, ma anche ogni cittadino – perseguono il proprio interesse privato: ciecamente, senza certezze, senza altra progettualità che non un sempre più cinico e disperato “tirare a campare”. Tutti avvitati, quindi, nella corruzione e nell’inefficienza.

Abituarsi a questa qualità delle relazioni politiche e sociali, trovarle magari ingiuste ma normali, sgradevoli ma naturali e insopprimibili, è non solo la più radicale corruzione – in primis, dell’immagine che abbiamo di noi stessi, della nostra autostima come cittadini e come esseri umani, e quindi delle stesse fondamenta morali e civili del sistema-Paese, della volontà collettiva di vita civile –, ma è anche un calcolo sbagliato, una deriva rovinosa. La corruzione è anche un costo economico proprio perché le economie sviluppate, pur con tutte le loro contraddizioni, chiedono ancora quella prevedibilità dei pubblici poteri e della vita sociale che è proprio ciò che il nostro Paese non sa più offrire, se non a macchia di leopardo, solo in alcune zone del territorio. Ed è per questo che gli investimenti stranieri precipitano, e che si espande il raggio d’azione delle economie  criminali, che dalla corruzione dello Stato e della società traggono il loro nutrimento parassitario. Fra le anomalie di questo Paese c’è oggi, si dice, anche il fatto che la democrazia è a rischio. È vero. Ma non certo perché l’esecutivo è formato da tecnici – che senza il voto del parlamento non andrebbero lontano: altro che golpe! –. Ma perché la corruzione soffoca sistematicamente la nostra fiducia in quei valori fondamentali, in quegli assetti istituzionali, in quella trasparenza delle relazioni sociali, in quella possibilità di sviluppo civile e materiale, in cui la democrazia in ultima analisi consiste.

 

Carlo Galli        la Repubblica   22 dicembre 2011

 

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