«Caro Peyretti, sono qui in questo bel paesetto del cuneese in casa di amici […]. Mi sono portato qui un fascio di lettere alle quali non avevo mai risposto. Ce n’è una sua del 22 maggio scorso. Non prego, se per preghiera s’intende invocare aiuto, o peggio benefici, o premi, o salvezza in situazioni difficili. Ma se per preghiera s’intende, come dice lei, ‘apertura verso il mistero che ci avvolge’, prego anch’io come tanti altri. Ma è preghiera, questa? La preghiera implica che ci sia qualcuno che ascolta. La preghiera non può essere soltanto riflessione interiore sul mio destino, sul male, sulla origine e la fine delle cose, una riflessione in cui nessuno mi ascolta, e che rivolgo soltanto a me stesso…».

Così, da Valdieri, Norberto Bobbio, il 25 luglio 1990, all’ex allievo che aveva aperto un articolo sulla preghiera riprendendo una sua frase, «Io non prego», e continuandolo con un’altra frase bobbiana condivisa dal cardinale Carlo Maria Martini, e cioè: «La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza». «Il dolore non ci ferisce soltanto, ma anche stimola le nostre risorse spirituali più profonde per affrontarlo e viverlo all’altezza della drammatica dignità umana. Il ricordo e la permanente compagnia interiore di Sua moglie l’aiuteranno e Le daranno forza. Io che oso far conto su risorse non soltanto umane, quando la nostra vita si imbatte nei suoi limiti (non solo quelli temporali), e nei suoi più drammatici interrogativi, Le dico che prego Dio per Lei e per la cara Signora. Lo intenda almeno come intenzione di partecipazione profonda e affezionata, aperta sul mistero che ci circonda». Così Enrico Peyretti a Bobbio dopo la morte della moglie Valeria.

I brani appena citati, sono solo un paio di frammenti del dialogo fra due amici – un credente che prega fiducioso di guarire la sua incredulità e un uomo consapevole di essere immerso nel mistero. Due schegge di un carteggio che costella insieme a tanti ricordi vent’anni di amicizia e di riflessioni sui grandi interrogativi della vita ma anche quesiti legati alla quotidianità, ora nelle pagine tessute da Peyretti sotto il titolo Dialoghi con Norberto Bobbio, edito da Claudiana (pagine 256, euro 15,00). Un confronto che abbraccia politica ed etica, pace e fede, e dove si avvertono distanze e sintonie, disparità di conoscenze e contraddizioni. Così, oltre al dibattito destra e sinistra tra interessi e ideali, giudizi sulle stagioni politiche e ostracizzazione della mitezza, oltre alle questioni sulla responsabilità e la libertà, il disarmo e i diritti umani, ecco qui affacciarsi alcuni riferimenti al cristianesimo che aiutano a capire meglio le ultime riflessioni bobbiane circa la sua ‘religiosità, non  religione’ fino al suo testamento (in cui accenna tuttavia alla ‘religione dei padri’). Così con il Bobbio che confessa all’intellettuale impegnato nei movimenti della non violenza, «Sono, o credo di essere, un uomo pacifico, ma non sono, e mi considero sempre meno, un pacifista assoluto, come lei e i suoi amici», troviamo qui quello che scruta il senso del male, che ammira l’essenziale della morale cristiana e ne valuta l’efficacia innanzi a quella laica, che stima le persone seriamente religiose, che parla di Cristo con rispetto, ma senza riconoscergli di aver dato all’umanità la grazia  salvifica di un cammino.

Insomma ecco il filosofo che resiste alla fede, con una concezione profana della vita, dove anche gli atti buoni sono persino santi ma mai religiosi, ed ecco l’ex allievo che lo stimola a rileggere i suoi lavori, ma pure, ad esempio, quelli di Sergio Quinzio (La sconfitta di Dio) o di Paolo De Benedetti (Quale Dio?). Così sino all’ultima lettera del 13 maggio 2000. Scrive Bobbio a Peyretti: «Se lei intende per ‘fede’ il mondo degli affetti, delle emozioni, dei sentimenti profondi, sono perfettamente d’accordo con lei. Non c’è nessuna contraddizione tra il mondo delle passioni o delle emozioni e il mondo della ragione […]. Mentre vedo un contrasto tra l’uomo di ragione e l’uomo di fede […]. La fede, a me pare, è un’altra cosa: non ha niente a che vedere, secondo me, con le passioni e con gli affetti [...]. Non discuto le interpretazioni più credibili, a suo parere, di tanti miti tramandatici dai testi attraverso i quali si è venuta formando la nostra educazione religiosa, ma io penso che la via attraverso cui progredisce la nostra conoscenza del mondo non parta da lì. Anzi comincia quando ce ne distacchiamo […]. Più mi avvicino alla fine, più sento che la morte è il passaggio dalla polvere da cui siamo nati alla polvere a cui siamo destinati a ritornare. Ma non insisto. Non pretendo che sia qualcosa di più di quel che lei chiama una ‘scommessa’ […]. Non le nascondo che sull’origine divina di Cristo ho sempre avuto i miei dubbi […]. Ma non posso neppure dire di accettarlo completamente come ‘maestro’. Vorrei che qualcuno mi spiegasse meglio perché accanto al Cristo delle ‘benedizioni’ ci sia anche quello delle ‘maledizioni’ […]. Pongo domande poste da mille altri prima di me, che possono apparire a un uomo di fede ovvie e ingenue, se non addirittura malevole». «Le sue domande non sono affatto malevole, ma serie. Un credente anche persuaso non è privo di dubbi e incredulità. Anche grandi santi hanno provato il dubbio freddo e buio». Era – il 20 giugno –la risposta di Peyretti. Due sensi religiosi della vita innanzi al suo Mistero.

 

Marco Roncalli         Avvenire   3 giugno 2011

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