Tutto mi dà dolore: questa gente

che segue supina ogni richiamo

da cui i suoi padroni la vogliono chiamata,

adottando, sbadata, le più infami

abitudini di vittima predestinata;

il grigio dei suoi vestiti per le grige strade;

i suoi grigi gesti in cui sembra stampata

l’omertà del male che l’invade;

il suo brulicare intorno a un benessere

illusorio, come un gregge intorno a poche biade;

la sua regolare marea, per cui resse

e deserti si alternano per le vie,

ordinati da flussi e riflussi ossessi

e anonimi di necessità stantie:

i suoi sciami ai tetri bar, ai tetri cinema,

il cuore tetramente arreso al quia…


E intorno a questo interno dominio

della volgarità, la città che si sgretola

ammucchiandosi, brasiliana o levantina,

come l’espressione di una lebbra

che si bea ebbra di morte sugli strati

dell’epoche umane, cristiane o greche,

e allinea tempeste di caseggiati,

gore di lotti color bile o vomito,

senza senso, né di affanno né di pace;

sradica i riposanti muri, i gomiti

poetici dei vicoli sui giardini interni,

i superstiti casolari dalla tinta di pomice

o topo, tra cui fichi, radicchi, svernano

beati, i selciati striati di una grama

erbetta, i rioni che parevano eterni

nei loro lineamenti quasi umani

di grigio mattone o smunto cotto:

tutto distrugge la volgare fiumana

dei pii possessori di lotti:

questi cuori di cani,  questi occhi profanatori,

questi turpi alunni di un Gesù corrotto

nei salotti vaticani, negli oratori,

nelle anticamere dei ministri, nei pulpiti:

forti di un popolo di servitori.


 

Pier Paolo Pasolini, da  La religione del mio tempo (1957-59)

 

 


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