La democrazia in crisi da distanza

Con la pandemia abbiamo visto il miserevole spettacolo del Parlamento “a distanza”, esautorato da ogni funzione. Non stupisce quindi che l’opinione pubblica lo percepisca sempre più come “ente inutile”. Ma si dimentica sempre il rischio dell’autoritarismo

Le crisi svolgono essenzialmente una funzione maieutica, la loro arte è quella della levatricetraggono fuori da noi ciò che già in noi era in germe, maturava. Piccole o grandi sono sempre apocalissi, che significa rivelazioni: ciò che si nascondeva dietro il sipario e che ancora ci sforzavamo di ignorare, ecco ora si palesa, inaggirabile, infuggibile.

Si capisce allora la formidabile idiozia dell’interrogarsi se saremo migliori, peggiori o uguali a prima. Saremo quel che siamo e il nostro operare seguirà al nostro essere; ma finalmente non potremo ignorarlo, neppure cacciando il cervello diecimila leghe sotto i mari. E riconoscendo finalmente ciò che siamo, forse riusciremo a giudicarlo e a scovare in noi qualche risorsa per affrontarlo e magari modificarlo.

Sarebbe già molto se ora, per citare un autore a me caro che così parlava in un’epoca assai più tragica di questa (almeno al momento), prestassimo ascolto «a coloro che con la massima oggettività e la massima discrezione esprimono il tormento e la miseria della loro epoca».

Il presente sembra riflettere il nostro recente passato in una forma “diabolicamente” capovolta, in realtà ne mostra la vera immagine. L’epoca in cui ogni distanza deve venire meno, in cui appare intollerabile alla nostra ansia di simultaneità ogni confine spaziale, si specchia perfettamente nello slogan osceno del “social distancing.

La pandemia e l’esigenza di contrastarla non c’entrano nulla in quanto tali. Ciò che è rivelatore sono i modi in cui esse vengono narrate e gestite. L’epoca del preteso annullamento delle distanze è il grembo da cui questa, in cui siamo giunti a chiamare sociale una distanza fisica di sicurezza, si genera.

Perfettamente separati lo si era anche prima: dove la distanza si annulla, si annulla la prossimità, che esige il riconoscimento dell’altro come un problema e un compito, che debbo affrontare senza poterlo mai risolvere.

I “sistemi” dell’”universale conversazione” producono il più perfetto degli isolamenti. Nessuna solitudine è più profonda di quella in cui vive chi crede di comunicare perfettamente proprio grazie all’annullamento di ogni fisica prossimità. Così si edificano le fabbriche della paura. Così ci si rinserra in case inospitali e in staterelli pseudo-sovrani.

Stiamo rischiando il definitivo annullamento di ogni spazio pubblico. Tutto nel nostro presente già congiurava a un tale fine. I modi e il discorso con cui la crisi che attraversiamo viene affrontata possono completare l’opera.

Non permettono forse, finalmente, i mezzi di cui disponiamo di eseguire a distanza grandissima parte delle nostre attività? A distanza, anzi, il lavoro è più smart, insegnare e apprendere più economico e “universale”, conferenze e convegni assemblare pubblici vastissimi. Da quanto tempo sono vuote le nostre piazze, o riempite da effimeri tromboni? Per non parlare di quei luoghi in cui si discuteva di politica (come si chiamavano? partiti?).

C’erano festival di cultura che attraevano migliaia di persone. Troppe. Meglio consentire che lo spazio pubblico si riduca a qualche movida, per la chiacchiera e la birra. Il resto a casa, al sicuro. Apriamo il bar, dove il contagio, se c’è è fisico soltanto, ma usiamo prudenza massima per scuole, uffici, teatri e musei.

Per vedere Raffaello non più di 5′ per sala – un solerte guardiano ci inviterà a “superare” rapidamente la Fornarina o la Velata. Forse sarà concesso fotografarle. E d’altra parte non avviene così ormai da decenni? Come guarda il turista-tipo se non attraverso il suo cellulare o il suo ipad? La distruzione dello spazio pubblico è in corso da tempo – ora che lo constatiamo “grazie” al discorso politico sul Covid, troveremo la forza per reagirvi?

Per il momento, meglio procedere nel solco della “distanza sociale”, non importa se attraverso le “grida” più sconclusionate e contraddittorie. Anche qui abitudine antica, che la crisi si limita a evidenziare ed esaltare.

L’inflazione normativa è vizio storico del Paese, forse quello che segna la nostra maggiore distanza, e qui sì la parola è a proposito, dagli altri europei. Norme sovrapposte, conflitti di competenza, leggi illeggibili, con le quali amministratori e funzionari debbono quotidianamente lottare.

Le decretazioni della Presidenza del Consiglio degli ultimi mesi esprimono la quintessenza di questo incoercibile impulso normativistico cui si accompagna un autentico delirio sanzionatorio, in omaggio alle tendenze più plebee del senso comune.

Vecchissima storia anche questa: credere che sia la minaccia della sanzione a contare più della forza persuasiva implicita nella norma. No, non bisogna avere fiducia che il tuo concittadino capisca benissimo di per sé che non deve andare in giro abbracciandosi e baciandosi durante un’epidemia – no, occorrono due decreti al mese, cento regole, mille sanzioni. La vita sarà tanto più bella quanto più regolata da ordinanze per ogni possibile caso. Questa è la cultura politica che la gestione della crisi ha messo a nudo, coscienti o meno ne siano i protagonisti.

Il Parlamento è specchio del Paese, si diceva. Vero oggi più di sempre. Da agorà per eccellenza, dove la forza delle parole, insieme alla capacità di ascolto, doveva condurre alla intesa pacifica anche sui più forti contrasti, il Parlamento si è ridotto da anticamera dei partiti nella prima Repubblica, a confuso esecutore, nelle sue oscillanti maggioranze, della volontà dell’esecutivo. Fino al miserevole spettacolo del Parlamento “a distanza”, esautorato da ogni funzione, di questi mesi.

Che, a questo punto, l’opinione pubblica lo percepisca sempre più come “ente inutile” è logica conseguenza. Perché non eleggere subito un esecutivo e basta, e cioè chi comanda, e finiamola lì? Quale altra logica si esprime nel modo in cui attualmente viene pubblicizzata la “grande riforma” della riduzione del numero dei deputati?

Solo la più ignobile ipocrisia può mascherare la verità: passo dopo passo è l’attacco al ruolo delle assemblee rappresentative che viene portato avanti.

Ma l’attacco funziona perché queste assemblee non funzionano, e non funzionano da decenni. O i democratici sanno riformarle o vincerà chi democratico non è. Tertium non datur.

Nella sceneggiata degli Stati Generali tra le altre molte cose di cui non si è parlato sta appunto la questione della ripresa di un’iniziativa riformatrice in questo campo. E per forza: può un presidente partorito dal grillismo farsi promotore di una nuova forma di Parlamento e Governo? L’evoluzione può serbarci delle sorprese, certo. E la speranza è l’ultimo dei mali.

Massimo Cacciari, filosofo     L’Espresso  28/6/2020

 

 

La nostra non è più una Repubblica parlamentare

Sono un ingegnere e quindi sicuramente impreparato in una disciplina difficile e complessa quale quella legata al “Diritto costituzionale” cioè di quella branca del diritto pubblico che si occupa dell’evoluzione e dell’organizzazione dello Stato e dei rapporti tra autorità pubblica e individuo.

Da due anni però, cioè da quando si sono susseguite con una inimmaginabile velocità due compagini di Governo quanto meno anomale, sono rimasto davvero sconcertato dal cambiamento dell’assetto costituzionale del nostro Paese. Ho cercato, quindi di approfondire il significato di “Repubblica parlamentare” e ho trovato questa sintetica definizione:

Leggendo questa definizione e tentando di verificare se nel nostro Paese vive ancora una simile organizzazione dello Stato scopriamo che il Parlamento non esiste più, scopriamo che il Parlamento non svolge più il suo ruolo, non esercita più la sua funzione.

Ho cercato di fare una attenta analisi dei provvedimenti di legge approvati dal Parlamento sia durante il primo Governo Conte, sia durante il secondo Governo Conte, cioè ho effettuato una analisi nell’ultimo biennio ed ho scoperto che per oltre il 90% (novanta per cento) i provvedimenti sono stati approvati con Decreto legge. Sì, cosa davvero rara, ma anche il Disegno di legge di Stabilità ha seguito tale procedura.

Non posso inoltre non denunciare una ulteriore anomalia: per evitare che i Decreti legge non si trasformassero in legge, il Governo ha fatto ricorso al voto di fiducia varando in tal modo un “maxi emendamento”.

Questo comportamento che per un atto di correttezza verso il Governo ritengo “anomalo” ma, se per un attimo ridimensionassi il mio senso di rispetto definirei antidemocratico e antitetico ai principi della Costituzione, è stato più volte denunciato e criticato in modo formale sia dalla presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, che della Camera dei deputati, Roberto Fico, e mi sarei aspettato anche una nota del presidente della Repubblica, perché onestamente questo comportamento non è solo un attacco alla nostra democrazia ma, cosa ancora più grave, è un annullamento inconcepibile del ruolo istituzionale del Parlamento.

La cosa più grave è che la mia non è solo una contestazione procedurale ma anche una denuncia sulle modalità con cui la macchina parlamentare è costretta a lavorare e mi riferisco, in particolare, all’avanzamento dei Programmi e delle scelte strategiche che le Commissioni competenti non possono rilasciare perché in questi due anni le singole Commissioni sono state praticamente soggette a calendari che hanno reso quasi impossibile una naturale evoluzione dei lavori delle Commissioni stesse.

Mi chiedo a che punto sono i Contratti di Programma delle Ferrovie dello Stato e dell’Anas e mi chiedo cosa fa il Governo delle varie mozioni o dei vari ordini del giorno in cui il Parlamento “impegna il Governo…”.

Le risposte purtroppo sono preoccupanti: i Contratti di Programma delle Ferrovie dello Stato e dell’Anas dopo anni solo nel mese di maggio scorso hanno finalmente ricevuto i relativi pareri, mentre degli “ordini del giorno” e delle “mozioni” c’è solo un’ampia catalogazione utile per testimoniare una attività di routine dei parlamentari, utile per dimostrare che il Parlamento, ogni tanto, si ricorda di determinati collegi elettorali.

Molti diranno che in fondo questo comportamento non è ascrivibile solo agli ultimi due anni; anche in passato questa logica anomala e discutibile era stata adottata da molti Governi. È vero, c’è però una differenza sostanziale: mai in passato la intera macchina dello Stato era stata così ferma e la causa essenziale di tale stasi è da ricercarsi proprio nella inconcepibile lentezza  con cui un provvedimento legislativo diventa operativo, con cui un provvedimento ed una scelta del Governo o del Parlamento incide davvero sul tessuto socio economico del Paese e questa folle inerzia è proprio generata dalla miriade di Decreti attuativi che, legati a Leggi sempre più complesse, rimangono non operativi per giorni, per mesi, per anni

Ripeto, non ci sono alibi, non ci sono giustificazioni: è davvero preoccupante che nell’ultimo biennio sia crollata del tutto questa funzione democratica, sia crollata del tutto questa obbligata relazione tra Parlamento e Governo soprattutto in merito alla richiesta di chiarimenti sia sul mancato avvio di infrastrutturazione organica del Paese, sia sul blocco di risorse al comparto delle costruzioni.

Mi chiedo cosa racconteranno fra pochi mesi o fra quasi tre anni agli elettori tre partiti come il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e la Lega non su ciò che hanno fatto o non hanno fatto ma sulla triste sottovalutazione del Parlamento. Non sarà facile perché forse spesso non ce ne rendiamo conto ma la base elettorale è intelligente e, soprattutto, non dimentica.

Ercole Incalza            L’Opinione   26/6/2020

 

 

“Alla più perfetta delle dittature preferirò sempre la più imperfetta delle democrazie.”

Sandro Pertini (1896- 1990), dal messaggio di fine anno del 1979


 



 

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