Anche se non è detto, ancora, che possa portare alla nascita di un governo di salute pubblica (se ne parla da giorni, e probabilmente ne parleranno presto al Quirinale Mattarella e Salvini), ciò che sta accadendo in Italia a causa del coronavirus è qualcosa di mai visto. Se non fosse per il senso di responsabilità che sempre si deve mostrare in certi momenti, verrebbe da gridare: aiuto! Salvateci! Si salvi chi può!

Sebbene non sia dato sapere dove e come, dato che man mano che l’Italia scala le classifiche del coronavirus, le frontiere si chiudono, diventiamo indesiderabili, chiusi qui, nel recinto dei propri confini, costretti nelle case piene di cibo e litri e litri di acqua minerale saccheggiati nei supermercati, circondati dal muro invisibile dell’ansia che il governo si ostina a inseguire, e in qualche caso a incoraggiare, mentre dal Colle scende un velo pesante di perplessità.

Si poteva, si doveva fare qualcosa di diverso? Certo. Invece di bloccare i voli diretti, e non quelli indiretti, dalla Cina, s’imponeva un controllo accurato di ogni cinese in arrivo in Italia da qualsiasi destinazione: non sarebbe stato razzismo, ma realismo. Il razzismo è semmai incoraggiato dal sapere che non tutti coloro che provengono dal continente malato, dove il virus si è manifestato per la prima volta, sono stati esaminati, così che da Nord a Sud, per strada, sugli autobus, nei supermercati, la gente si abbandona all’isteria contro chiunque abbia occhi a mandorla, incurante se si tratti di filippino, coreano, giapponese, e non di cinese.

Si poteva e si doveva immaginare che il blocco di gran parte delle attività di svago come cinema, teatri, stadi, e la messa al bando dei luoghi aperti al pubblico, come centri commerciali, aeroporti, stazioni, per non dire delle navi da crociera dove pure qualche caso di affezione da virus si è verificato, avrebbe comportato inutili generalizzazioni e la crisi dei rispettivi settori, esercenti, produttori e distributori cinematografici, compagnie teatrali e attori, armatori, operatori del turismo, albergatori, ristoratori, e la lista è destinata ad allungarsi: di questo passo, presto si fermeranno le fabbriche e perfino le esportazioni. D’altra parte, se solo si dà la sensazione che l’Italia è diventata ricettacolo del contagio, non ci viene più nessuno e nessuno vuol ricevere qualcosa proveniente dal Paese infetto.

Si poteva e si doveva, insomma, avere un atteggiamento più cauto, riflessivo, prudente? Ma sicuro. Anche se il premier Conte e i ministri del suo governo lo negano, riaffermando la linea dell’emergenza e della quarantena nazionale come l’unica possibile. Non è vero.

Se fosse vero, dovremmo concludere che Francia, Germania, Inghilterra, dove l’incubo del virus ha avuto limitate conseguenze (cinquecento tamponi di controllo somministrati ai francesi, contro i quasi diecimila italiani), sono guidate da governi incoscienti, e invece non è così.

Se si genera il panico, e se un piano d’emergenza radicale lo stimola, magari involontariamente; se si mette un numero verde che ciascuno può comporre per chiedere soccorso, e solo dopo ci si ricorda di raccomandare di telefonare unicamente se si avvertono chiari sintomi (tra l’altro, va ricordato, simili a quelli di un pesante raffreddore o di un’influenza), è chiaro che la gente corre a chiamare. Può sopravvenire una suggestione, questa sì, contagiosa: una serie di starnuti, il naso chiuso, un doloretto, possono diventare ragioni valide per farsi portare in ospedale con l’ambulanza da medici e infermieri in tute asettiche.

Conte e i ministri, che sull’emergenza si stanno giocando il posto, tuttavia, ribattono: non c’era altra strada, il verdetto di medici e scienziati era univoco, il rischio massimo, la sicurezza prima di tutto. Ma a parte il fatto che gli esperti, mai come in questi giorni presenti in tv, dicono tante cose differenti, un governo, se c’è, esiste per valutare, approfondire e decidere, non per farsi sostituire da rispettabili dottori, a cui pure va il plauso per essersi messi a disposizione e lavorare ininterrottamente da giorni e giorni. Altrimenti, mandiamo a governare gli esperti, e a casa il governo.

Nella storia recente della Repubblica, purtroppo, questo non è il primo caso di crisi sanitaria internazionale che mette a rischio la salute degli italiani. Il pensiero va a Chernobyl, l’incidente nella centrale nucleare sovietica del 26 aprile 1986, che generò una pericolosa nube radioattiva, avvelenando l’aria di mezza Europa. Anche allora la carenza di informazioni da parte russa, come oggi da quella cinese, fu colpevole. Il timore era forte.

Gli scienziati – ma solo loro, il test non era aperto alla popolazione – misuravano il grado di radioattività delle suole delle scarpe, ricavandone dati allarmanti. Ma il governo si limitò a vietare per qualche giorno – e successivamente a sconsigliare – il consumo di lattuga, frutta e ortaggi, suggerendo in seguito di lavarli a lungo prima di mangiarli. Azzardo, incoscienza o niente di tutto ciò? La politica serve per questo.

Ma di politico, in Italia, al tempo del populismo, è rimasto ben poco.

Marcello Sorgi      La Stampa  27/2/2020

 

 

La grande tentazione

Ma a questo punto nasce una domanda, perché si intravede una tentazione: serve andare oltre, puntare a un governo di tutti, a larghissime intese? Deciso dal virus, e non dai meccanismi della normalità politica, sarebbe con ogni evidenza un governo dell’emergenza, che come primo effetto avrebbe quello di certificare un allarme di massimo grado per l’epidemia, non giustificato oggi dai dati di analisi.

Dunque un rialzo artificiale della temperatura del Paese, che rischierebbe di esporlo ancor più sul piano internazionale, rivelando una sua esagerata debolezza, proprio quando si vorrebbe proteggerlo maggiormente con il concorso universale degli attori politici di ogni parte. Diciamolo in una formula: l’allarme sanitario, che verrebbe invocato come ragione necessaria di un concorso politico generale, non è ragione sufficiente. Addirittura non è ragionevole.

Le politiche quotidiane dettate dalla crisi sanitaria, infatti, possono e devono essere condivise — quando lo meritino — nel quadro politico attuale, con il governo che si assume la responsabilità primaria delle sue azioni e l’opposizione che concorre con le sue idee e le sue proposte, mentre controlla l’esecutivo.

Il Paese che trova minoranza e maggioranza concordi sulle linee d’intervento contro il virus sarà sicuramente più rassicurato che da un governo-omnibus tra forze così diverse da essere incompatibili e improduttive, dove si smarriscono ogni fisionomia politica e tutte le identità, per precipitare nell’indistinto emergenziale, senza che per fortuna sia suonata la campana dell’emergenza.

In realtà dietro questa tentazione c’è la voglia di far fare un salto al sistema nel corso finale della legislatura per sgombrare il paesaggio: spezzare il confine tra destra e sinistra, consentire a qualche forza minore di attraversare il campo in una direzione o nell’altra senza più vincoli di appartenenza, legami di tradizione o impacci d’origine, disegnare un nuovo quadro politico neutro, rimpastare la compagine di governo silurando il premier Conte e aprendo qualche ministero di spicco ai nuovi venuti, e intanto distruggere la tela che il Pd sta faticosamente cercando di tessere per una nuova possibile trama di sinistra nel Paese.

Una partita legittima ma tutta politica, anzi puramente tattica, che nasconde dietro il virus le sue vere intenzioni, usandolo come un grimaldello per quelle operazioni che non si riescono a fare a bassa temperatura, senza agenti patogeni. Solo che la politica non fa salti, ha bisogno di costruzioni e spiegazioni, alla luce del sole. Naturalmente questo non significa che il governo debba restare in piedi a ogni costo.

Sopravviverà se avrà la forza per farlo. Anzi, se troverà in sé la ragione per esistere. Così come non ci sono scorciatoie, non ci sono antidoti: una vera politica di cambiamento è l’unico vaccino possibile contro .

Dall’articolo di    Ezio Mauro    La Repubblica   27/2/2020

 

 

Renzo l’untore e quel confine tra maturità e superstizione

Caro Augias, consiglio la rilettura del brano manzoniano in cui Renzo s’imbatte in un signore al quale vorrebbe chiedere un’informazione. Si toglie il cappello con buona creanza e quello lo scambia per un untore e lo minaccia con un bastone ferrato. Temo che fra non molto saremo a questo. Stamane, al solito supermercato la coda alle casse era insolitamente lunga e molti scaffali erano vuoti. La ragazza davanti a me aveva acquistato 15 kg(sic!) di fagiolini e teneva il collo del maglione dolcevita all’altezza del naso. Molti avevano il maglione alla portata di naso e si tenevano a debita distanza gli uni dagli altri.

Ho pensato che non ero al cospetto di una razionale misura profilattica, bensì all’effetto di un fenomeno che ha nome psicosi di massa. L’epidemia influenzale (di questo si tratta e non di peste) mette in scena comportamenti individuali che rivelano individuali criticità, che non sono fisiche ma psicologiche. Trepidiamo per un niente e per un niente ci eccitiamo.

Rino Gualtieri


Rileggiamole insieme quelle righe del capitolo XXXIV ( dei Promessi Sposi, n.d.r.), chissà che non serva a stimolare un po’ più di contegno:

«Arrivato al crocicchio che divide la strada circa alla metà, e guardando dalle due parti, vide a dritta, in quella strada che si chiama lo stradone di santa Teresa, un cittadino che veniva appunto verso di lui.

Un cristiano, finalmente!” disse tra sé; e si voltò subito da quella parte, pensando di farsi insegnar la strada da lui. Questo pure aveva visto il forestiero che s’avanzava; e andava squadrandolo da lontano, con uno sguardo sospettoso; e tanto più, quando s’accorse che, in vece d’andarsene per i fatti suoi, gli veniva incontro. Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello, da quel montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l’altra mano nel cocuzzolo, e andò più direttamente verso lo sconosciuto. Ma questo, stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso bastone, e voltata la punta, ch’era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: — via! via! via!

— Oh oh! — gridò il giovine anche lui; rimise il cappello in testa, e, avendo tutt’altra voglia, come diceva poi, quando raccontava la cosa, che di metter su lite in quel momento, voltò le spalle a quello stravagante, e continuò la sua strada, o, per meglio dire, quella in cui si trovava avviato.

L’altro tirò avanti anche lui per la sua, tutto fremente, e voltandosi, ogni momento, indietro. E arrivato a casa, raccontò che gli s’era accostato un untore, con un’aria umile, mansueta, con un viso d’infame impostore, con lo scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere (non era ben certo qual de’ due) in mano, nel cocuzzolo del cappello, per fargli il tiro, se lui non l’avesse saputo tener lontano. — Se mi s’accostava un passo di più, — soggiunse, — l’infilavo addirittura, prima che avesse tempo d’accomodarmi me, il birbone».

Spero vivamente che di fronte a un certo pericolo comune — non a una catastrofe — si moderino lo sciacallaggio politico, i provvedimenti insensati di alcune regioni, le singole reazioni isteriche per riguadagnare quella compostezza che dovrebbe distinguere un popolo maturo da una folla superstiziosa.

Corrado Augias       La  Repubblica   27/ 2/ 2020

 

 

“Il pericolo non viene da quello che non conosciamo, ma da quello che crediamo sia vero e invece non lo è.”

Mark Twain  (1835- 1910), scrittore americano


 

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