La deriva a 5Stelle rischia di trascinare nel pantano il governo, l’alleanza col Pd e l’argine che essa aveva promesso di erigere contro il salvinismo. Non possiamo certo rallegrarcene, come fece qualche pensatore di sinistra al momento del tracollo Pd.
La deriva a 5Stelle rischia di trascinare nel pantano il governo, l’alleanza col Pd e l’argine che essa aveva promesso di erigere contro il salvinismo. Non possiamo certo rallegrarcene, come fece qualche pensatore di sinistra al momento del tracollo Pd. Quando, dopo le elezioni del 2018, si usò l’argomento autolesionista che «almeno è finito un equivoco». Ma neppure possiamo pensare che si tratti di una sorpresa, di una sciagura che non potevamo aspettarci.
Il miserevole spettacolo offerto dalla compagine dei 5Stelle è tutto perfettamente iscritto nella sua storia. È iscritto nella genesi del movimento e nella sua natura, riconducibile alla matrice qualunquista e antipolitica largamente presente nella destra italiana (da Guglielmo Giannini a Achille Lauro, da Berlusconi a Di Pietro), ora dilagata a livello internazionale mettendo in luce e accelerando il logoramento delle democrazie liberali.
Il movimento 5Stelle è nato per iniziativa di un demiurgo abile a dare forma al sentimento di stanchezza e di rivolta generato dalla crisi democratica e alimentato dal berlusconismo anche e soprattutto nella fase del suo interminabile declino, per una specie di legge fisica interna alla demagogia, la quale per sopravvivere ai suoi insuccessi deve alzare continuamente la posta.
Un nuovo demiurgo dunque, un Elevato al posto dell’Unto del signore, capace di radunare il suo pubblico nei teatri, nelle piazze e sui social, e di somministrargli l’atteso messaggio iconoclasta, apocalittico e palingenetico: azzerare tutto.
Mandare a casa i professionisti della politica e i corrotti, sostituire alla democrazia rappresentativa una sedicente democrazia diretta, in realtà diretta dall’alto ossia da lui stesso e da un gruppo privato di manovratori occulti delle leve informatiche.
Questo volto del M5S si è rivelato subito, appena mossi i primi passi. I seguaci più dotati sono stati allevati come un gruppo di ripetitori delle parole d’ordine elaborate dal leader e di guastatori tenuti sotto tutela. Inizialmente non potevano partecipare a dibattiti televisivi né rilasciare dichiarazioni, poi vi sono stati lentamente ammessi con la riserva di non discostarsi dal ruolo di replicanti. La classe cosiddetta dirigente doveva provare innanzitutto di sapersi comportare come una setta in cui vigono segretezza e fedeltà al capo.
Il caso Pizzarotti è in questo senso esemplare: capace di interpretare il messaggio di rinnovamento con duttilità, trovando forme di dialogo e di mediazione sia con la realtà sia con gli altri soggetti politici, è diventato un buon amministratore ma è stato subito espulso come un corpo estraneo. Pur avendo provocato immani disastri, Virginia Raggi non ha fatto la stessa fine perché non ha mai osato disdire il principio di sudditanza.
Quando poi nella selezione elettronica dei candidati amministratori si sono aperte delle falle, la scelta è stata semplicemente abrogata d’imperio, chiedendo ai sudditi di accogliere la rettifica con un atto di fede. È passata alla storia in questo senso la dichiarazione di consenso a prescindere, perinde ac cadaver, del senatore Morra, uno degli spiriti liberi che ora chiedono maggior democrazia interna.
In un organismo politico basato sulla dipendenza gerarchica, l’autonomia sfocia fatalmente nella guerra di tutti contro tutti. L’anarchia paventata da Di Maio è semplicemente il corollario dell’autocrazia da lui praticata in nome e per conto del capo supremo. Quest’ultimo, preso da un soprassalto di responsabilità, ha dovuto rendersi conto di esser passato da demiurgo ad apprendista stregone e ha tentato la suprema piroetta di ricacciare nel sacco i venti da lui scatenati.
Di tutto ciò – ripeto – non è il caso di rallegrarsi, visto che la montagna dei detriti rischia di seppellire anche noi e con noi l’esile speranza che abbiamo coltivato nell’estate del Papete grazie all’entrata in scena dell’unico prodotto anomalo della macchina impazzita: il visconte duplicato.
Non ci resta che augurarci l’impossibile: che nelle file dei 5Stelle le persone dotate di buon senso e di senso di responsabilità – quelli per esempio che con un pochino di ritardo hanno capito che tra destra e sinistra una certa differenza c’è e avanzato qualche dubbio sui trucchi della piattaforma Rousseau usata come il cappello del prestigiatore – prevalgano: abbandonando del tutto non questa o quella parola d’ordine, ma l’impianto stesso dell’organismo del quale hanno fatto parte fino ad oggi e grazie al quale sono approdati in Parlamento in compagnia di campioni emeriti del qualunquismo a tutto tondo come Paragone.
E lascino finalmente al loro destino il comico, l’informatico e l’enfant prodige, perché tornino a fare quello che hanno sempre fatto prima di imbarcarsi in questa disastrosa avventura.
Antonio Gibelli Il Manifesto 11/ 1/ 2020
Perché la fine del M5S è iniziata ben prima delle dimissioni di Di Maio
Luigi Di Maio ha rassegnato le sue dimissioni da capo politico del M5S, confermando le voci di corridoio diffuse da alcuni giorni. Le intenzioni di Di Maio e dei vertici del M5S sono chiare: rinnovare la leadership del partito per arginare il crollo dei consensi dell’ultimo anno. La gestione di Di Maio è stata spesso criticata (sia da parte della base che da altri parlamentari ed esponenti politici del M5S) per l’eccessiva concentrazione di potere nelle sue mani e la scarsa trasparenza dei processi decisionali.
Va detto che, a un’analisi più approfondita, risulta chiaro come il vero potere decisionale all’interno del M5S sia sempre stato ben saldo nelle mani di Grillo e Casaleggio – Gianroberto prima e il figlio Davide in seguito. Il capo politico è sempre sembrata più una figura di facciata pilotata dai due fondatori. Per questo il vero problema del M5S non è affatto questa figura, ma la morsa in cui Grillo e Casaleggio tengono gli eletti (e gli elettori) del Movimento, limitandone autonomia e pensiero critico.
La crisi del M5S non è frutto del caso e ha poco a che fare con la guida di Di Maio. Le sue radici sono molto più profonde e risalgono alle scelte fatte da almeno dieci anni a questa parte.
Già a partire dal 2009 la linea politica del M5S era chiara e precisa: caratterizzarsi come una forza antisistema attraverso continui attacchi alle politiche e ai partiti progressisti. A lungo andare questa tendenza – o scelta identitaria – ha portato a due conseguenze ben definite: la prima è stata l’assecondare, in maniera più o meno consapevole, lo spostamento a destra dell’opinione pubblica. La seconda, forse involontaria ma ben più grave, è stata quella di legittimare l’equazione secondo la quale il fallimento dei partiti della sinistra post-comunista coincida con l’inaffidabilità degli ideali stessi della sinistra (socialdemocratica e moderata o socialista e radicale).
Nel 2009 Beppe Grillo annunciò la sua candidatura alle primarie del Pd con il chiaro scopo di denunciare pubblicamente l’inconcludenza del partito e la sua complicità con un sistema corrotto. Grillo venne poi tesserato da una sezione del Pd della provincia di Avellino, scatenando accese polemiche da parte dei vertici nazionali. Proprio in quell’occasione l’allora sindaco di Torino Piero Fassino lanciò la sua sfida infelice a Grillo di fondare un suo partito.
Anche dopo l’arrivo in Parlamento per la prima volta, la linea politica del M5S non cambiò di una virgola. Nel 2013 Grillo impose ai suoi parlamentari il rifiuto dell’alleanza di governo proposta dal Pd di Bersani, sostenendo sul suo blog che non si poteva votare la fiducia a chi nei precedenti anni si era reso complice della rovina dell’Italia. La stessa filosofia ha guidato le estenuanti trattative per l’elezione del Presidente della Repubblica, sempre nello stesso anno: i grillini, compatti sul nome del costituzionalista Stefano Rodotà, sembrarono aprire uno spiraglio sul possibile voto a Prodi. Il fallimento di questa operazione portò a una crisi interna nel Pd e alle dimissioni di Bersani, alla contestatissima rielezione di Napolitano e alla formazione del Governo Letta.
Un copione simile si ripeté nel 2014, quando Grillo (senza peraltro ricoprire alcun ruolo istituzionale) guidò la delegazione del M5S al colloquio con Renzi per le consultazioni sulla formazione del nuovo governo. Per evitare il rischio che la base potesse pronunciarsi a favore di un esecutivo in tandem con i democratici, Grillo rifiutò il confronto.
Un altro esempio della gestione del partito targata Grillo è stato il voto sulla Legge Cirinnà. Disattendendo sia la volontà degli iscritti sia una delle battaglie storiche del M5S, Grillo lasciò libertà di coscienza ai parlamentari, riuscendo nel triplo colpo di rafforzare l’ala conservatrice del movimento, affossare una legge giusta e di buon senso (poi approvata una molto fortemente rimaneggiata dalle posizioni conservatrici del centrodestra) e di acquisire credito agli occhi dell’elettorato di destra. Ancora lo scorso anno il M5S è stato accusato di voler sabotare anche la legge sul testamento biologico, altro suo storico cavallo di battaglia.
Alcuni potrebbero giustificare tutto in prospettiva di una strategia politica per screditare l’avversario e guadagnare consensi. Tuttavia, c’è un elemento ulteriore che va considerato: nonostante uno dei mantra storici del M5S sia quello che “destra e sinistra sono uguali”, bisogna riconoscere che l’atteggiamento di Grillo nei confronti della destra è sempre stato piuttosto conciliante, se non amichevole, probabilmente in virtù della sua presunta militanza giovanile nel Msi di Almirante. Giusto per non smentire queste voci, prima delle elezioni politiche del 2013 Grillo elogiò apertamente i militanti di CasaPound, affermando che l’antifascismo non fosse di sua competenza e che alcune delle idee del gruppo neofascista fossero valide.
Nello stesso anno il fondatore del M5S scriveva anche che, sebbene tra destra e sinistra non ci sia alcuna differenza, bisogna riconoscere che ” la destra ti prende un po’ meno per il culo”. Nel 2014 il suo blog pubblicò l’intervista a un sedicente storico che negava le responsabilità di Mussolini nel delitto del parlamentare socialista Giacomo Matteotti. Sono sempre molto diversi i toni riservati alla sinistra, che già nel 2010 venne accusata di aver tradito i propri valori, di essersi fatta complice delle malefatte della peggior destra e di aver contribuito all’oppressione economica e sociale delle masse.
Ora, il problema non sta nelle critiche che Grillo da tempo muove alla sinistra post-comunista. Molte sono condivise da diversi esponenti della sinistra e dei suoi elettori e mettono in luce la complicità del centrosinistra italiano con le oppressive istituzioni neoliberali dell’Occidente. Il problema è un altro: nel denunciare il fallimento della sinistra, Grillo non le riconosce alcuna possibilità di riabilitazione, contrariamente a quanto fa con la destra. Mentre la sinistra è senza speranza, per Grillo dalla destra sembra invece possibile ricavare qualcosa di buono.
Non stupisce quindi che il M5S abbia inseguito la destra più becera e radicale su diverse posizioni, in particolare su immigrazione e politiche sociali. Nel 2017, in vista della campagna per le elezioni politiche dell’anno successivo, in un post su Facebook Di Maio definiva le Ong “taxi del mare” (rilanciando un articolo – poi rimosso – del blog di Grillo). Tali dichiarazioni furono poi riproposte dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che rivendicava con orgoglio come il M5S avesse assunto tali posizioni prima di Salvini. Non a caso c’era una forte convergenza tra i programmi elettorali presentati da Lega e M5S in vista delle elezioni politiche del 2018.
Salvini rappresenta forse l’esempio più lampante di come i vertici del M5S abbiano deciso senza nessun rispetto per la loro base di seguire la rotta dell’avvicinamento alla destra. Avendo celebrato pubblicamente l’ex ministro dell’Interno come uomo serio e affidabile, Grillo ha di fatto legittimato l’alleanza di governo tra Lega e M5S ben prima che la votazione online degli iscritti avvenisse. L’idillio ha toccato il suo apice quando nel marzo dello scorso anno il Senato ha negato l’’ autorizzazione a procedere contro Salvini sul caso Diciotti, con i voti decisivi proprio del M5S. In quell’occasione gli iscritti furono chiamati a rispondere a un quesito-farsa sulla piattaforma Rousseau, che tra l’altro andò in tilt in maniera sospetta, scatenando le ire di molti attivisti.
Anni di propaganda grillina hanno portato al consolidamento nell’opinione pubblica di un’idea molto precisa: ad aver fallito non sono solo gli uomini della sinistra, ma la Sinistra intesa come sistema e ideologia, mentre a destra è ancora possibile trovare buon senso e idee giuste per il futuro dell’Italia.
L’alleanza con la Lega sembrava quindi il coronamento naturale del progetto antiprogressista del M5S. Invece qualcosa è andato storto rispetto alle previsioni del duo Grillo-Casaleggio: l’elettorato italiano, visti lo scimmiottamento della propaganda di Salvini e la totale subalternità del M5S alle politiche leghiste, ha deciso di optare per l’autentica destra leghista, piuttosto che continuare a dare fiducia a un movimento dalle idee sempre più confuse.
Subito dopo la formazione del governo gialloverde nel 2018 sono iniziati a emergere i primi malumori tra i grillini. Alcuni hanno capito che la scelta di assecondare l’ondata xenofoba e reazionaria ha danneggiato il Pd, ma ha anche permesso a Salvini e alla destra più conservatrice di guadagnare consensi e credibilità a spese del Movimento stesso. Questa consapevolezza ha minato l’autorità indiscussa di Grillo e Casaleggio degli ultimi 11 anni, ma lo ha fatto troppo tardi. Per diventare un argine reale alla destra sovranista Pd e M5S avrebbero dovuto allearsi subito dopo le elezioni, non del 2018, ma del 2013. Per il modo in cui è arrivata, l’attuale alleanza di governo sembra più frutto dell’improvvisazione che non di un chiaro progetto politico, simile a quello che ha portato il M5S a coalizzarsi con la Lega.
Nel suo discorso di dimissioni, Di Maio ha fatto più volte riferimento a dei traditori, affermando che i peggiori nemici del M5S si trovano al suo interno. Ha ragione, ma i traditori non sono i vari fuoriusciti o coloro che si sono permessi di opporsi ai diktat di Grillo e Casaleggio. I veri nemici del M5S sono proprio i suoi fondatori, dal momento che sono loro ad aver quasi compromesso del tutto la credibilità del Movimento, pur di inseguire a ogni costo le pulsioni reazionarie del Paese. Dopo aver speso oltre un decennio a convincere il popolo che i progressisti sono i suoi principali nemici, è naturale che questo scelga i partiti più reazionari e retrogradi per rappresentarlo sulla scena politica.
Daniele Fulvi in The Vision 24 Gennaio 2020
La parabola del leader che insegue il popolo
Luigi Di Maio, dimessosi ieri dalla guida del M5S, non è stato un leader populista: come Peron, Berlusconi, Trump o Grillo. È stato un leader nell’era del populismo. Oltre il gioco di parole, fa una grande differenza.
I primi – prodotto tipicamente novecentesco con interessanti propaggini e varianti contemporanee – sono innanzitutto i fondatori di qualcosa: un movimento collettivo, una storia comune, una tradizione, un linguaggio, una mitopoiesi, un abbaglio ideologico. Sono per definizione affabulatori, visionari e innovatori, personalità magnetiche e istrioniche, spesso vagamente paranoiche, demagoghi della più bella acqua, manipolatori, trasformisti capaci d’indossare molti abiti e molte identità, talmente coriacei e caparbi da resistere spesso a qualunque rovescio.
Combattenti nati, si esaltano nella lotta. Credibili per ciò che hanno già fatto nella loro vita precedente (quello un generale, l’altro un imprenditore di successo, quell’altro ancora un comico o attore famoso). Quando costoro irrompono da protagonisti nell’agone politico ne stravolgono le regole. Proprio per questo sono potenzialmente pericolosi, ma non stiamo qui a fare i moralisti.
I secondi, un fenomeno tipico dei giorni nostri, così segnati dalla virtualità, dall’effimero mediatico e dalla voracità dei consumi (anche nella sfera politica), sono appunto un’altra cosa. Vanno e vengono con una straordinaria velocità: oggi sugli altari, domani nella polvere.
Le loro fortune, spesso frutto di circostanze straordinarie, non dipendono da particolari qualità personali e sono più legate all’apparenza che all’essere: dal momento che sembrano vivere di comunicazione e messaggi istantanei, soccombono quando hanno esaurito il repertorio o raggiunto il livello della massima saturazione in pubblico. Non hanno nessuna storia straordinaria alle spalle, ma una passabile mediocrità: quel che serve per alimentare l’illusione consolatoria che colui che comanda e colui che è comandato stanno sullo stesso piano e sono in fondo figure reversibili.
Più che trascinare le masse, costoro ne sono trascinati: non sono leader alla maniera tradizionale, capaci di indicare al prossimo una direzione di marcia (foss’anche quella che porta verso il baratro come nel caso del pifferraio di Hamelin), ma follower, che seguono l’opinione dominante per meglio sfruttarla politicamente. Fiutano gli umori collettivi e ad essi adattano il loro pensiero, peraltro sempre cangiante: oggi si dice una cosa, domani un’altra, tanto tutto si dimentica nell’epoca in cui le parole non sono più pietre ma acqua fresca.
Ed è appunto il caso di Luigi Di Maio – leader per caso e per una breve stagione, finita ieri. Scelto dall’alto, grazie ad un accordo con Casaleggio figlio sancito dalla nascita della piattaforma Rousseau, per un ruolo – quello di capo politico – che in altri tempi si sarebbe dovuto conquistare mordendo e battagliando, avendo forze proprie. Un capo dal piglio notarile e composto, sin dall’abbigliamento monotono: nessun mimetismo o travestimento, che è un altro dei caratteri tipici del vero leader populista. E nessun tratto fisico o vezzo comportamentale che possa dare il segno di una qualche eccentricità e irrequietezza. Tutto ordinario, nonostante la pretesa verbale di rivoltare il sistema.
E infatti è finita senza grande gloria, con dimissioni anch’esse ordinarie, ormai largamente attese (anche se non questi tempi). E come nella vecchissima politica e nei vecchi partiti, causate da giochi correntizi, dai tradimenti dei fedelissimi e da un logoramento psicologico non più sopportabile dal diretto interessato (laddove i leader populisti veri hanno sempre mostrato ben altra tenuta fisica).
Ma questi sono stralci di teoria della leadership nel suo rapporto necessario con la politica e la democrazia. C’è poi la pratica, nel nostro caso le ragioni tattico-prosaiche, e comunque politicamente non irrilevanti, che hanno spinto Di Maio a questa scelta, peraltro in un momento delicato come la vigilia d’un voto che potrebbe essere decisivo per le sorti del governo. La più banale è che due incarichi oggettivamente grandi – capo e ministro – non erano più cumulabili, a meno di far male entrambe le cose. Ha poi agito il comprensibile desiderio, dopo molte sconfitte, di non intestarsene un’altra che in Emilia-Romagna s’annuncia rovinosa. Perché mettere la testa sul ceppo a vantaggio dei suoi nemici interni, lui che in questa partita amministrativa, fiutata per tempo la cattiva aria, aveva suggerito di non presentare candidati?
Ma detta così sembra davvero il generale che lascia il campo prima della sconfitta. In realtà hanno contatto diversi altri fattori, meno effimeri. Innanzitutto la necessità di un gesto sacrificale che dovrebbe togliere alibi o argomenti ai suoi contestatori non sempre in buona fede. Con il M5S che perde pezzi ogni giorno, senza Di Maio si arresterà l’emorragia? In caso contrario, sarà chiaro che non è questione di uomini al vertice (inadeguati), ma di progetto politico (fattosi evanescente e contraddittorio).
C’è poi una questione di strategia politica. Del M5S s’è sempre detto che era di tutto un po’: la destra, la sinistra e il centro nello stesso contenitore, tenute insieme dal risentimento sociale e dalla voglia di sfasciare il sistema. Ma questo valeva nella fase della protesta e dell’opposizione dura e pura, quando si stava solo nelle piazze. Poi sono venuti i trionfi elettorali e la prova del governo, cioè l’ora della responsabilità e delle scelte oltre la demagogia. E alle fisiologiche divaricazioni personali, imputabili alle ambizioni dei singoli, si sono sommate quelle politiche, frutto di visioni sempre più inconciliabili all’interno di un Movimento con troppe teste al comando.
Da un lato, la speranza-scommessa di Di Maio che il M5S, pur stabilizzandosi al ribasso nei consensi dopo l’exploit del 2018, debba provare ad essere il Terzo che gode tra destra e sinistra, ovvero il perno del nuovo sistema dei partiti: forza centrale (dunque non centrista) ma pur sempre radicale e orientata al cambiamento. Il Di Maio moderato e governista, disposto al compromesso coi poteri forti, di cui talvolta s’è parlato in realtà non è mai esistito, essendo la sua vera natura un’altra: da jacquerie piccolo-borghese, sovversivo in giacca e cravatta. Dall’altro, il progetto di Grillo finalizzato a fagocitare la sinistra democratica attraverso un’alleanza organica con essa, anche se il rischio attuale – numeri alla mano – è che accada il contrario. Lo scontro era inevitabile e Di Maio, capo per delega, ha perso contro il capo naturale di quel mondo.
A questo si lega la preferenza per Salvini che Di Maio ha sempre coltivato, al di là degli inevitabili screzi personali seguiti alla fine del governo giallo-verde. Tra i due c’è sempre stata una comunanza generazionale, antropologia e politica – da outsider uniti nella lotta contro la vecchia classe politica.
Il sovranismo per chi lo combatte è una brutta parola, per chi ci crede – come appunto Di Maio e Salvini – è la dottrina del futuro: quella che nel globalismo economico e nella governance transnazionale vede una macchina tecno-burocratica finalizzata ad accrescere il potere delle oligarchie a danno delle collettività e dei popoli. Dato un simile punto di partenza ideologico, condiviso dal suo antico sodale Di Battista, si capisce come per lui sia sempre risultato ostico l’abbraccio al governo con la sinistra del Pd.
E dunque che accadrà ora? Diventerà Di Maio il capo della destra grillina contro lo stesso Grillo? C’è chi dice che potrebbe persino farsi un suo partito – una specie di lega del Sud. O riproporrà se stesso in occasione dei prossimi Stati Generale del movimento, quando magari si sarà scoperto che senza di lui e con una guida collegiale le cose rischiano di andare ancora peggio? Tutte cose che per riuscire richiedono qualità da leader vero, quelle che sinora, per quanto l’uomo sia un abile tattico, non ha mai mostrato di possedere.
Alessandro Campi il Messaggero 23 Gennaio 2020
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