Si assiste in queste ore convulse ad una gara di entusiasmo per il voto anticipato. Nel nome della chiarezza, del non inciucio, del far parlare gli italiani – a destra come a sinistra, tutti stregati dal ritorno alle urne. E Matteo Salvini dirige questo garrulo coro nel quale poco o nulla ci si preoccupa delle possibili conseguenze di un monocolore targato Lega.

Eppure bisognerebbe preoccuparsi molto proprio in base a quello che Salvini ha mostrato di poter fare in questo anno di governo di coalizione, e per quel che ha detto nel comizio a Pescara: «Abbiamo fatto una scelta di coraggio. Adesso chiedo agli italiani se hanno la voglia di darmi pieni poteri per poter fare quello che abbiamo promesso senza palle al piede. Chi sceglie Salvini sa cosa sceglie». «Pieni poteri» – cosa assurda in una democrazia parlamentare, è ovvio. Ma il solo coraggio di usare questa espressione mussoliniana, intesa probabilmente a rubare consensi a Fratelli d’Italia, fa rabbrividire.

Salvini vuole la libertà dai lacci e lacciuoli che imporrebbero un governo di coalizione – ecco perché mostra fastidio a presentarsi come il capo di una maggioranza di destra (con disappunto di Giorgia Meloni e di quel che resta di Forza Italia). Salvini è il Capitano del suo popolo, non di quello d’altri. E il suo popolo, come sanno bene coloro che studiano il populismo, è un artificio retorico di tanta maestria da riuscire a far sentire chi vi si identifica una cosa sola col capo.

Juan Domingo Peron (1895-1974)

Così fu per il più grande dei populisti, colui che diede a questa forma di governo un’identità sua propria, Juan Domingo Perón, il quale disse celebrando la vittoria elettorale del 1949: «Abbiamo dato al popolo l’opportunità di scegliere … Il popolo ci ha eletto, e il problema è risolto».

Il capopopolo pratica una forma di rappresentanza che ha davvero poco a che fare con il mandato elettorale, anche se di questo si serve per competere e vincere. La rappresentanza che crea è come un’incarnazione, un incorporamento del popolo nella sua persona, nelle sue parole, nelle sue scelte.

Ogni distanza che lo separa dagli elettori scompare, con l’esito che il popolo si dà per fede al suo capo. Fede è identificazione. Come disse Donald Trump il giorno della suo insediamento alla Casa Bianca nel gennaio 2017: si celebra qui il popolo vero, non quello delle maggioranze precedenti che era rappresentato dai partiti dell’establishment.

Il capopopolo è un leader che lotta per e conquista il potere usando le regole del gioco democratico; che vuole, anzi, e cerca il consenso elettorale come prova della sua forza. E fa un uso plebiscitario delle elezioni. Poiché non ha la pazienza della conta dei voti uno per uno, mira ai grandi numeri, alla poderosa e chiara vittoria.

Un po’ come nelle assemblee di Sparta, dove non si conosceva la raffinatezza aritmetica del conteggio delle mani alzate, ma dominava la rozza percezione sensoriale – l’urlo forte era inconfondibilmente un segno dell’esito.

Questo vorrebbe Salvini, che si appresta a rendere quelle che ci attendono come le prime elezioni compiutamente populiste della nostra storia repubblicana. Le democrazie producono capipopolo quando, come nel nostro tempo, i partiti politici hanno atterrato la loro organizzazione e sono liquidi e leggeri, esposti naturalmente a leader plebiscitari. Dalla fine dei partiti che avevano fatto la Repubblica, dal 1994, l’Italia è una fucina di populismo.

E, forse, è proprio l’abitudine al populismo a rendere un po’ tutti (anche il Pd) irresponsabilmente contenti per queste elezioni anticipate. Convinti che comunque vada non ci sarà altro che una nuova maggioranza. Anzi, sembra di capire che il Pd preferisca un governo chiaramente salviniano per potersi meglio fare le ossa e crescere nei consensi grazie alla polarizzazione. Ma questo capopopolo dovrebbe destare molti sospetti, anche perché ha già avuto modo di dimostrare la sua predilezione per politiche autoritarie e il dispregio per lo stato di diritto.

La democrazia costituzionale è come un elastico, capace di sopportare il peso del maggioritarismo – lo abbiamo visto con i governi berlusconiani, che hanno messo a dura prova le istituzioni. Ma l’elastico può essere tirato fino a raggiungere il suo massimo punto di sforzo e rompersi quando e se un capopopolo si presenta «agli italiani» chiedendo «pieni poteri per poter fare quello che abbiamo promesso senza palle al piede».

La palla al piede non sono solo ipotetici alleati di governo, ma i limiti imposti del governo della legge, come abbiamo già verificato con il DL sicurezza bis. La palla al piede sono quelle norme che devono servire a moderare ogni maggioranza, soprattutto quella più ingombrante. Non vi è nulla di che essere entusiasti per l’eventualità di un governo del capopopolo leghista.

Nadia Urbinati     Il Manifesto  11/8/2019


 

I pieni poteri generano seri pericoli

Il contesto delle manifestazioni del ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio del ministri, tra spiagge e piazze entusiaste, non dovrebbe portare a sottovalutare la gravità di quanto ha detto, quando ha chiesto agli italiani, «se lo vorranno», di dargli i «pieni poteri» per fare quello di cui l’Italia ha bisogno. È possibile che il senso dell’espressione che ha usato volesse essere piuttosto generico, utile poi a lamentare che quei poteri per salvare l’Italia non gli siano stati dati (dagli altri, dai poteri forti, ecc.).

Tuttavia la posizione istituzionale rivestita e il ruolo di capo del partito che sembra essere di maggioranza relativa consigliano di essere prudenti, prendere sul serio la richiesta e le dichiarazioni del ministro e non lasciarla cadere in mezzo alle sue tante altre.

Le non numerose reazioni alla richiesta che il ministro ha rivolto «agli Italiani» hanno segnalato la stretta somiglianza con quanto Mussolini ottenne in Italia e Hitler in Germania. Il ricordo è utile, per indicare come la concentrazione di ogni potere in capo ad uno solo, sia funzionale alla dittatura e incompatibile con ogni forma di democrazia, anche se voluta e autorizzata da un voto popolare.

Tuttavia va detto che proprio la storia europea dell’anteguerra ha prodotto in molti Stati e certo in ltalia e Germania un sistema costituzionale che impedirebbe a una anche larga maggioranza di elettori di soddisfare il desiderio del ministro.

Fu proprio la facilità con cui il sistema costituzionale vigente fu travolto a indurre nell’immediato dopoguerra a dare alle nuove Costituzioni democratiche il carattere della rigidezza. Insieme alla connivenza del re, la modificabilità con semplici leggi dello Statuto albertino, che definiva il sistema costituzionale della monarchia italiana, facilitò lo stravolgimento delle istituzioni e l’instaurazione della dittatura.

Ora invece, non solo la riforma della Costituzione è possibile esclusivamente con gravose procedure, ma sono esclusi dalla possibilità di modifica i suoi principi supremi: diritti fondamentali, forma di repubblica parlamentare, indipendenza della magistratura, separazione dei poteri, controllo di costituzionalità delle leggi, ecc. Nemmeno il popolo potrebbe farlo, poiché la Costituzione (art. 1) prescrive forme e limiti in cui esso esercita la sovranità. Non possiamo pensare che il ministro, che ha giurato fedeltà alla Costituzione, si proponga di sollecitare dal popolo elettore la sua violazione.

Certo sono possibili modifiche legislative che portino a ulteriore accentramento dei poteri governativi. Ma mai si potrebbero eliminare il sistema dei pesi e contrappesi e dei controlli, la competenza del Parlamento, il ruolo proprio delle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile: tutto ciò che il ministro ritiene «palle al piede». Chiacchiera agostana, quindi? Minaccia impossibile? Scampato pericolo? Non proprio.

Il ministro ha manifestato l’opinione che ha del Parlamento e del suo ruolo nel delicato momento della crisi di governo, pretendendone, con intollerabile volgarità, l’immediata convocazione. La riforma della giustizia che egli ora pone in primo piano non riguardala soluzione del problema gravissimo dei tempi delle decisioni, ma proprio il merito delle decisioni. L’indipendenza della magistratura è insolentita, ogni volta che la decisione dei giudici non piace al ministro.

Non si tratta di parole gettate al vento, ma di precisi messaggi politici, destinati a sollecitare e anzi a formare un’opinione pubblica pronta al disprezzo delle istituzioni repubblicane. Le istituzioni della democrazia possono essere lasciate intatte sulla carta, ma svuotate nei fatti, umiliandole, irridendole, paralizzandole e facendone oggetto di divisione e conflitto.

Vladimiro Zagrebelsky       La Stampa  12/8/2019

 

 

Troppa paura dei sovranisti

Dalle maggiori capitali europee si torna a guardare all’Italia con allarme. Ma stavolta non tanto o non più soltanto per gli ormai consueti timori sulla tenuta dei nostri conti pubblici. La preoccupazione più corposa è diventata politica: sconfìtta nelle urne per il parlamento di Strasburgo, l’onda nera sovranista potrebbe trovare a Roma una sponda solida dalla quale manovrare per boicottare il processo di integrazione dell’Unione. Non va dimenticato, infatti, che con i suoi 60 milioni di abitanti l’Italia – pur insieme a un debito abnorme – ha il terzo Pil della Ue, è la seconda industria manifatturiera del continente, ha adottato l’euro ed è uno dei sei storici fondatori della comunità. Un suo passaggio al fronte sovranista avrebbe effetti pesanti e pericolosi sul futuro dell’Unione.

La principale televisione pubblica tedesca ha sintetizzato le diffuse preoccupazioni in proposito con una frase che ha avuto successo sui media: “Salvini premier sarebbe da pelle d’oca”. Brivido che molti fra coloro che vivono in Italia hanno già provato quando hanno ascoltato l’attuale ministro dell’Interno reclamare, con esibito piglio ducesco, elezioni anticipate al fine di ottenere “pieni poteri”.

Siano, dunque, benvenute queste ritrovate sensibilità e solidarietà europee dinanzi a una minaccia di involuzione politica che apre seri interrogativi sulla tenuta delle istituzioni democratiche in Italia e di conseguenza in Europa.

Ma il sovranismo di Salvini non è un’erbaccia spuntata all’improvviso in un bel campo fiorito e curato a dovere dagli attenti giardinieri dell’Unione. È da lungo tempo che nel prato europeo si tollera la presenza e la crescita di piante infestanti che, anno dopo anno, hanno inquinato l’ humus politico della Ue rendendolo sempre più fertile per i seminatori della zizzania nazional-populista.

Perfino Jean-Claude Juncker, che non è mai stato un cuor di leone, si è lamentato a più riprese delle difficoltà incontrate nel mettere assieme la maggioranza necessaria ad avviare procedure d’infrazione contro Polonia e Ungheria per sfregio niente meno che alle regole dello Stato di diritto. In particolare, per il caso di Orbàn a Budapest, si è accettato senza colpo ferire che questi con chilometri di filo spinato violasse gli obblighi europei quanto ad accoglienza dei migranti e continuasse a predicare la “democrazia illiberale” in aperta sfida ai principi fondanti dell’Unione ispirandosi come modello politico alla Russia dei pogrom putiniani contro le opposizioni.

Ed è proprio in questo contesto di abusata benevola negligenza verso i lieviti sovranisti che il novello Mago Cipolla italiano – come scriverebbe Thomas Mann - sta ora esercitando con successo il suo illusionismo populista in una chiave doppia: antidemocratica e antieuropea.

Anziché paventare la pelle d’oca per un Salvini premier dell’Italia, occorre che al di là delle Alpi si ritrovi quel minimo di lucidità politica necessario a rimediare errori e ritardi micidiali nella lotta contro il cancro sovranista. Altro che parole di docile comprensione per le inaccettabili deviazioni illiberali della metastasi orbaniana come ha appena fatto la neo-eletta presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.

A quando, per esempio, da parte tedesca un atto di indispensabile chiarezza come la definitiva espulsione dal Ppe del partito liberticida di Orbàn? È l’inerte pavidità politica delle liberaldemocrazie europee a nutrire la bestia sovranista.

Massimo Riva      La Repubblica 13/8/2019


 

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