Parliamo di noi, del nostro essere incompiuti come nazione n realtà parliamo di noi, oggi, quando parliamo del 25 aprile. Della nostra incompiutezza come nazione, se si intende l’identità nazionale come qualcosa che non è definito solo dalla comunità di discendenza, dal sangue e dalla terra, ma dal riconoscimento reciproco che si scambiano i cittadini nel comune patto costituzionale che fissa i diritti e i doveri dei singoli, insieme con il carattere e la natura dello Stato democratico.

È questo il vero nodo della discussione che si è riaperta sull’anniversario della Liberazione, l’obiettivo finale, quel che davvero si vuole rimettere in discussione. Naturalmente entrano in gioco anche partite minori, di cui non varrebbe la pena occuparsi.

Il ministro dell’Interno che contrappone la lotta alla mafia all’antifascismo, come se fosse una gara a sottrazione, e non un doppio impegno per un leader democratico: con questo squalificandosi come uomo politico e come uomo di governo.

L’altro vicepremier in caduta libera che indossa la pelle del camaleonte scoprendosi all’improvviso antifascista per convenienza, dopo aver predicato per mesi la sua equidistanza pilatesca da destra e sinistra, controfirmando tutte le politiche xenofobe di Salvini.

In più un mondo di destra sbandato e senza riferimenti che si affida alla forza virtuale dei sondaggi per riaprire i conti con la storia, pensando ancora una volta, come già nel 1994, che si possa mettere in discussione il 25 aprile in nome di una malintesa pacificazione che cerca sottotraccia un’impossibile equiparazione dei torti e delle ragioni.

Infine l’emersione tollerata, blandita, quindi incoraggiata di nuovi gruppi e movimenti che si richiamano al fascismo, pronti alla provocazione che rovescia il significato della giornata di oggi, festa nazionale: come “l’onore a Mussolini” sullo striscione portato ieri nel centro di Milano.

Ciò che conta è la coscienza della nazione, il sentimento della Repubblica. Dopo 74 anni dovrebbe essere chiaro a tutti che il passaggio fondativo dello Stato democratico è la riconquista della libertà, conculcata dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista, con il marchio di sopraffazione delle leggi razziali. Su questa pietra angolare — la libertà — si fonda tutto lo sviluppo democratico del Paese, nell’alternanza delle stagioni politiche e culturali, nel passaggio dei governi, nelle crisi economiche e nella sfida con il terrorismo delle Brigate Rosse.

Una democrazia sicuramente imperfetta, per anni incompiuta, fragile, a tratti infedele: e tuttavia capace di prevalere, di allargare la sfera dei diritti e dunque di mantenere il patto di libertà stretto con i cittadini quel 25 aprile.

Se oggi possiamo dire che quella libertà è stata “riconquistata”, e non soltanto “concessa” dagli Alleati con il loro decisivo intervento, è perché c’è stato un moto autonomo, nazionale e spontaneo di ribellione e di rifiuto della dittatura, organizzato e armato, che ha dato vita alla Resistenza. Anzi: quel poco o quel tanto di opposizione organizzata che porterà poi all’insurrezione partigiana, è tuttavia sufficiente per rendere la nostra democrazia non octroyée come una licenza sovrana, ma riscattata come il diritto negato a un popolo.

La libertà di cui godiamo, dunque, la cultura democratica nella quale organizziamo le nostre vite, sono delle conquiste, frutto di volontà e azione da parte di alcuni italiani, a beneficio di tutti — vinti e vincitori — e a vantaggio delle generazioni future.

Qui sta la fonte di legittimazione della Repubblica, che non è una costruzione artificiale o un prodotto d’importazione proprio perché dalla lotta partigiana al fascismo è nata l’emancipazione democratica di una nazione, e da lì sono derivate la Costituzione e le istituzioni che reggono il nostro Paese. Da lì origina il gioco politico che si è articolato negli anni tra destra e sinistra, in un confronto libero nelle elezioni, nel Parlamento, nella società.

C’è dunque un percorso coerente che nasce dal 25 aprile e attraversa tutta la vicenda repubblicana. Perché il senso di quella data costituisce il nucleo morale della democrazia ritrovata.

Nascono a questo punto due questioni. La prima riguarda quel che è successo in Italia negli ultimi vent’anni, quando è venuta meno la pretesa «totalitaria» (come la chiama Emilio Gentile) degli ex comunisti di rappresentare il vero antifascismo della Resistenza: perché quella parte della destra italiana che non è di derivazione post-fascista non si è impadronita per quota di questo avvenimento di libertà che è il 25 aprile, condividendone significato e testimonianza come ha fatto la Democrazia cristiana, e declinandolo poi secondo i suoi interessi politici?

Questa scelta — repubblicana, democratica, costituzionale — non c’è stata, anzi lo sdoganamento degli ex missini da parte di Berlusconi per portarli al governo è avvenuto senza chiedere e ottenere (nel silenzio degli intellettuali) un rendiconto sul fascismo, salvo l’eccezione isolata e subito dannata di Fini: come se la prassi non avesse bisogno della teoria, e tutti gli atti si giustificassero mentre si compiono. Col risultato di un’operazione politica che non ha definito fino in fondo il suo orizzonte culturale, e proprio su un punto sensibile della storia italiana, rivelando così l’incapacità di far nascere anche nel nostro Paese una moderna forza conservatrice europea, e lasciando il campo libero alle incursioni dell’estremismo populista.

La seconda questione deriva proprio da questo limite. Mancando un giudizio sulla storia, sul fondamento di libertà del nostro ordinamento costituzionale e istituzionale, oggi l’attacco è al costume democratico, ai valori liberali che regolano la vicenda politica e la nostra convivenza.

Non è il caso di parlare di fascismo che ritorna. Ma assistiamo a tentativi continui di sfiorare i tabù democratici, alludendo al passato, mutuando slogan e linguaggi, guardando con indulgenza a quelle espressioni di fascismo sciolto, disorganico, fuori dalla storia (dunque al riparo dalle lezioni del secolo) che si ripropongono come presenza originaria, situazionista, antagonista, realizzata, spiegata e consumata nell’azione.

Intanto un nuovo istinto di classe si fa Stato contro il migrante, vede crescere le distanze tra il ricco e il povero, li disgiunge dalla stessa comunità di destino di cui facevano parte fino a ieri nelle loro differenze, mentre la ferocia verbale e la brutalità esibita contro i deboli diventano la cifra della nuova politica.

Questo succede quando viene meno la coscienza della vicenda repubblicana, nel suo male e nel suo bene. Quando si smarrisce, per scelta, il sentimento delle origini da cui deriva il processo democratico del Paese. Quando rischia di andare in crisi quel patto costituzionale che è il deposito permanente del 25 aprile.

La data di oggi ci ricorda proprio questo: che viviamo da decenni dentro un patto di libertà da difendere, non nell’anno zero di un populismo vendicativo che vorrebbe riscrivere la storia, e fatica a scrivere la cronaca.

Ezio Mauro         La Repubblica  25 aprile 2019

 

 

Autentico o no, ma è sempre fascismo

La diffidenza e anzi l’irritazione di numerosi intellettuali italiani per “il fascismo che torna” (frase, dicono, da smentire subito, nessuno va in giro in orbace come Tognazzi ne Il federale) sta creando un problema prima di tutto a coloro che credono di essere i protagonisti della nuova e cupa avventura italiana.

Che cosa deve fare un ministro dell’Interno che va in giro con la giacca della polizia, definisce ladri e delinquenti i cittadini stranieri rifugiati in Italia, ha detto a gente che vive per la strada “è finita la pacchia” e, a ogni obiezione, risponde “me ne frego”? Che cosa deve fare per essere considerato uno che politicamente fa sul serio e che ha le idee chiare su come si impianta un regime? Ma che cosa devono fare, per essere riconosciuti fascisti, gruppi che ti entrano in casa e ti obbligano ad ascoltare una dichiarazione fascista? Di altri, che spadroneggiano coi più deboli, tu sai che ciascuno di loro ha autorità per decidere il destino anche di una sola famiglia rom, assegnataria legittima di una casa popolare. La respingono, la insultano, cambiano la serratura, le fanno trovare la casa già occupata da altri fascisti debitamente mobilitati e ci sono “talpe” negli uffici giusti (con la affiliazione giusta, dove si conquistano gradi e benefici giusti) che fanno sapere a mano a mano quali sono le case che si rendono libere, un potere grandissimo.

Pensate alle innumerevoli scene di uomini robusti che si identificano come CasaPound e Forza Nuova, cantano e recitano quel che sanno del fascismo e del razzismo, sanno che la folla che ancora non si vede tra poco sarà in strada (vedi gli applausi a Salvini sugli aerei) e giustamente disprezzano la cultura perché la cultura rifiuta di considerarli il fascismo che torna, anche se negano l’acqua da bere agli immigrati bloccati a Ventimiglia, rifiutano l’ingresso in certi quartieri (“zone rosse”) delle città in modo che non possano né sedere né camminare né sostare in piedi né mangiare qualcosa (il cibo etnico è proibito) e comunque danneggiano il decoro urbano.

C’è chi, con dovuta autorità accademica, ti avverte che il razzismo c’era anche prima, molto prima del fascismo. È vero, ma forse è importante notare che la storia europea è spaccata in due parti dalla Shoah. Il razzismo sistematico, popolare e governativo, dopo la Shoah è immensamente più grave perché non è più possibile fingersi indifferenti al modo inevitabile in cui il razzismo si evolve verso la morte nelle sue forme più inimmaginabili e inattese.

Qualcuno in Germania, per antisemita che fosse, aveva immaginato Birkenau e i forni? Qualcuno può fingere adesso di non sapere dove conduce la strada che prima si chiama populismo, poi sovranismo, poi suprematismo ?

Purtroppo sappiamo dove conduce, tra linciaggio e camere a gas. Certi gesti di estrema cattiveria urbana (giovani contro anziani, sadismo sui disabili, massacri in famiglia, papà uccide mamma, mamma uccide bambino) mostrano una slabbratura pericolosa e contagiosa nella vita quotidiana, dove niente ha più valore. A questo mondo deforme, la politica con le sue leggi cattive (quella sulla sparatoria libera in casa) fa gran cenni di incoraggiamento. Essere buoni perché? Forse siamo più stupidi degli altri sovranisti? Ma forse sono utili alcune domande.

1. Conta distinguere, con perizia filologica tra fascismo vero e similfascismo? Una volta che la gente muore in mare o viene abbandonata allo schiavismo della raccolta di pomodori nel Sud italiano, qual è la differenza?

2. La Polonia di Kaczynski e l’Ungheria di Orbán sono certamente e orgogliosamente fascisti. Conta la nostra amicizia con loro?

3. Il grande amico e misterioso messaggero Steve Bannon è o non è un solido legame con l’idea fascista di governo? È una sua affermazione. Ma è anche il miglior amico e suggeritore di governanti italiani.

4. Si sta creando una nuova religiosità (Kerigma) in cui non c’è vie d’uscita fra Apocalisse e regime autoritario, mentre si moltiplicano forti attacchi e si fabbricano dubbi sul papa, che ha denunciato il sovranismo in espansione come altri papi non hanno fatto col fascismo.

5. Lo striscione di piazzale Loreto nel giorno della Liberazione sembrava una descrizione di Lussu all’inizio di Marcia su Roma e dintorni: poca gente fanatica che sa di parlare a molti che saranno in piazza fra poco. A questo punto basterà rassicurarli sui sacri confini e sulla caccia allo straniero.

Furio Colombo      Il Fatto  28/4/2019

 

Vedi: Se la nazione lacerata volta le spalle al 25 aprile

25 aprile, festa della responsabilità

A differenza del passato, il «postfascismo» distrugge la democrazia dall'interno

La marcia su Roma fermata da Simone

Desistenza


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