La rassegna stampa dei principali quotidiani di oggi pullula di articoli improntati all’ottimismo a commento della recente proclamazione del cardinal Jorge Mario Bergoglio a pontefice della chiesa cattolica romana. Sebbene non manchino elementi in virtù dei quali è lecito sentirsi confortati da questa scelta, il senso critico che dovrebbe caratterizzare gli organi di informazione tende talvolta a latitare: basti pensare, prima che anche questo ricordo oggi ancora vivo cada nell’oblio, al tono ossequioso che ha caratterizzato la quasi totalità delle trasmissioni radiofoniche e televisive che si sono occupate di seguire l’evento in oggetto.
 
Sebbene il novello pontefice abbia suscitato nei più un’istintiva e motivata simpatia per la modalità semplice con cui ha deciso di presentarsi alla sua prima uscita in pubblico, dalla stampa c’è comunque da attendersi una lettura in filigrana dell’evento che, per essere adeguatamente interpretato, richiede la ricostruzione, sia pure per sommi capi, dell’iter ecclesiale di Franceso I, non certo scevro di nodi critici e persino di aspetti controversi. Entrato a far parte della Compagnia di Gesù nel 1957, all’età di ventun anni, frequentò il seminario bonarense di Villa Devoto, dall’impronta teologica fortemente tomista, completando poi i propri studi presso il seminario gesuita di Santiago del Cile. Ordinato sacerdote nel 1969, fu eletto provinciale della Compagnia di Gesù, carica che occupò dal 1973 al 1979. Questo, come è noto, fu il periodo in cui, a seguito del golpe militare del 24 marzo del 1976, si instaurò in Argentina una delle più sanguinose dittature militari dell’America Latina: e proprio per ciò che attiene ai rapporti con il generale Videla e la sua junta militar emergono gli aspetti controversi del pastorato di Bergoglio. Due testi pubblicati in Argentina chiamano in causa l’attuale pontefice in ordine al suo silenzio relativo ai crimini della dittatura circa i quali egli era al corrente1 e lo scrittore e giornalista Horacio Verbitsky, editorialista del quotidiano argentino Pagina 12, ha intervistato cinque testimoni che considerano l’allora provinciale dei Gesuiti non estraneo alla vicenda del sequestro e della tortura di due sacerdoti appartenenti al suo ordine, Orlando Yorio e Francisco Jalics, esponenti della teologia della liberazione, impegnati in un lavoro di educazione popolare nella villa miseria di Bajo Flores, nella periferia sud della città di Buenos Aires.
Quel che è certo è che i sospetti su un suo coinvolgimento in questi fatti incresciosi non impedirono la sua nomina a vescovo ausiliario prima (1997) e poi ad arcivescovo (1998) della diocesi di Buenos Aires, né la sua investitura cardinalizia da parte di Karol Wojtyla, notoriamente ossessionato dallo spettro del comunismo e della teologia della liberazione latinoamericana, nel 2001. Con Wojtyla, difatti, Bergoglio ha condiviso la recisa opposizione alla teologia della liberazione, schierandosi contro questa rilettura del Concilio Vaticano II operata da una parte dei vescovi riunitisi a Puebla, nel 1979, in occasione dell’incontro del CELAM (Consiglio Episcopale Latinoamericano). 
In effetti il nuovo pontefice, sotto il profilo etico e dogmatico, non lascia intravedere alcuna possibilità per il rinnovamento in seno cattolicesimo romano e può essere considerato in tutto e per tutto un fedele prosecutore del conservatorismo osservato in merito nell’arco dei due ultimi pontificati (sotto i quali, non va dimenticato, è avvenuta la quasi totalità delle nomine cardinalizie che compongono l’attuale conclave): basti, a tale proposito, dare una rapida scorsa ai commenti di Bergoglio relativi a tematiche quali l’aborto e l’eutanasia, che riprendono, radicalizzandole, le tesi elencate nel documento approvato dai vescovi latinoamericani e ratificato da papa Benedetto XVI nel corso della «V Conferenza Generale dell’episcopato dell’America Latina e dei Caraibi» tenutasi ad Aparecida, Brasile, dal 13 al 31 maggio del 20073.
 
Ancora più eloquenti le dichiarazioni rilasciate dal primo papa gesuita della storia in seguito alla decisione presa dal governo argentino il 9 luglio del 2010 di riconoscere il matrimonio di persone dello stesso sesso, da lui definito, senza mezzi termini, una «mossa del diavolo» contro cui mobilitare una a suo avviso ineccepibile e improcrastinabile «guerra di Dio».  Ecco perché, forse, prima di fare del cardinal Bergoglio una sorta di novello Francesco d’Assisi, sarebbe opportuno ricostruirne un profilo che cerchi, senza accuse né mistificazioni, di attenersi ai fatti che connotano la sua biografia.
  
 
1. Emilio Mignone, Iglesia y Dictadura. El papel de la iglesia a la luz de sus relaciones con el régimen militar, Ediciones del Pensamiento Nacional, 4° edizione, settembre 1987; Horacio Verbitsky El silencio: de Pablo VI a Bergoglio: las relaciones secretas de la Iglesia con la ESMA, Sudamericana, Buenos Aires, 2005 (traduzione italiana: L’isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina. Fandango Libri, Roma, 2006).
 
2. Horacio Verbitsky, Cinco nuevos testigos contra Bergoglio, articolo comparso sulle colonne del quotidiano argentino Pagina 12 del 18 aprile 2010, scaricabile dal sito www.pagina12.com.ar. Ottimo, per quel che riguarda il materiale consultabile in lingua italiana, l’editoriale della rivista on-line Il Dialogo a firma di Gennaro Carotenuto, intitolato: Il papa argentino. Francesco I, il conservatore popolare nei torbidi della dittatura, pubblicato in data giovedì 14 marzo 2013 e consultabile sul sito internet: www.ildialogo.org.
 
 3 Esternazioni riportate in un articolo dal titolo: Cardinal Archbishop of Buenos Aires Rages Against Abortion “Death Sentence” (Cardinale arcivescovo di Buenos Aires reagisce contro l’aborto: “Sentenza di morte”) pubblicato in data 5 ottobre 2007 sul sito: www.lifesitenews.com. A tale proposito si possono consultare gli articoli: Boda gay: para Bergoglio es una “movida del Diablo” y Kirchner lo acusó de presión (Nozze gay: per Bergoglio si tratta di una “mossa del diavolo” e Kirchner lo ha accusato di pressioni), pubblicato sulle colonne del quotidiano El Cronista del 9 luglio 2010; Bergoglio convocó a una “guerra de Dios” contra el matrimonio gay (Bergoglio ha proclamato una “guerra di Dio” contro il matrimonio gay), pubblicato sulla rivista on-line www.LaVoz901.com.ar in data 9 luglio 2010.
 
Alessandro Esposito     in “MicroMega” del 14 marzo 2013
 
 
 
 
 
«Per molti argentini è stato complice»
 
 
Delle centinaia di chiamate ed email che ho ricevuto, ne scelgo una sola. «Non riesco a crederci. Sono così angustiata e carica di rabbia che non so che cosa fare. Ha ottenuto ciò che voleva. Mi sembra di vedere Orlando nel salotto di casa nostra, qualche anno fa, che diceva: ‘Lui vuole essere Papa’. È la persona più adatta a nascondere il marcio. Lui è un esperto in insabbiamenti. Il mio telefono non smette di suonare, Fito mi ha chiamato in lacrime». La firma è quella di Graciela Yorio, sorella del sacerdote Orlando Yorio, che denunciò Bergoglio come responsabile del suo sequestro e delle torture che ha subito per 5 mesi nell’anno 1976. Il Fito di cui parla. e che l’ha chiamata sconsolato, è Adolfo Yorio, suo fratello.
Entrambi hanno dedicato buona parte della loro vita a portare avanti le denunce fatte da Orlando, un teologo e sacerdote terzomondista, morto nel 2000 con l’incubo che ieri è divenuto realtà. Tre anni prima, il suo mostro era stato eletto arcivescovo di Buenos Aires, un avvenimento che preannunciava il resto. Orlando Yorio non ha mai avuto modo di sentire la deposizione di Bergoglio davanti al Tribunale Orale Federale n. 5. Quella fu la prima volta in cui riconobbe che, dopo la fine della dittatura, seppe che i militari rapivano i bambini. Tuttavia, il Tribunale Orale Federale n. 6, in cui si è svolto il processo per il programma sistematico di sequestro dei figli dei prigionieri-desaparecidos, ha ricevuto documenti in cui si indica che già nell’anno 1979 Bergoglio era perfettamente al corrente della situazione, non solo, ma che addirittura intervenne personalmente, eseguendo un ordine del suo superiore generale, Pedro Arrupe.
Dopo aver ascoltato il racconto dei familiari di Elena de la Cuadra, sequestrata nel 1977, quando si trovava al quinto mese di gravidanza, Bergoglio consegnò loro una lettera per il vescovo ausiliare di La Plata, Mario Picchi, chiedendogli di intercedere davanti al governo militare. Picchi riuscì a scoprire che Elena aveva messo al mondo una bambina, poi regalata a un’altra famiglia. «Ce l’ha una coppia per bene e non c’è modo di tornare indietro», disse alla famiglia. Dichiarando per iscritto nella causa dell’Esma (la Scuola di Meccanica della Marina), per il sequestro di Yorio e di Franscisco Jalics, che era gesuita come lui, Bergoglio disse che nell’archivio episcopale non c’erano documenti sui desaparecidos.
Tuttavia, il suo successore e attuale presidente della Conferenza episcopale, Josè Arancedo, inviò alla giudice Martina Forns una copia del documento che io stesso ho pubblicato, sulla riunione avvenuta tra il dittatore Videla e i vescovi Raul Primatesta, Juan Aramburu y Vicente Zazpe, in cui parlarono in modo straordinariamente franco del fatto che fosse conveniente o no dire che i desaparecidos erano stati uccisi, perché Videla voleva proteggere chi li aveva assassinati. Nel suo libro ormai divenuto un classico, Iglesia y dictadura (Chiesa e dittatura), Emilio Miglione citò l’episodio come un paradigma di «pastori che consegnano le loro pecore al nemico, senza difenderle o tentare di recuperarle». Bergoglio mi ha raccontato che, in una delle sue prime messe come arcivescovo, riconobbe Mignone e tentò di raggiungerlo per dargli delle spiegazioni, ma che il presidente e fondatore del Cels alzò la mano facendogli segno di non avvicinarsi.
Non sono sicuro che Bergoglio sia stato eletto per nascondere il marcio che ha ridotto all’impotenza Joseph Ratzinger. Le lotte interne alla curia romana seguono una logica cosi imperscrutabile che i fatti più oscuri possono essere attribuiti allo spirito santo, sia che si tratti delle gestioni finanziarie per cui la Banca Vaticana è stata espulsa dal clearing internazionale, visto che non rispetta le regole anti-riciclaggio di denaro sporco, o le pratiche di pedofilia, in quasi tutti i paesi del mondo, che Ratzinger ha insabbiato attraverso il Santo Uffizio e per le quali ha chiesto perdono come Papa. Nemmeno mi sorprenderebbe che, con il pennello in mano e con le scarpe rotte, Bergoglio iniziasse una crociata moralizzante per imbiancare i sepolcri apostolici. Quello di cui invece sono sicuro è che il nuovo vescovo di Roma sarà un ersatz, una parola tedesca che è impossibile tradurre e che significa un surrogato di qualità minore, come l’acqua mescolata con la farina che le madri povere usano per ingannare la fame dei loro figli. Il teologo della liberazione brasiliano, Leonardo Boff, allontanato da Ratzinger dall’insegnamento e dal sacerdozio, aveva il sogno che a essere eletto Papa fosse il francescano di origine irlandese Sean O’Malley, responsabile della diocesi di Boston, arrivata al fallimento per i tanti indennizzi che ha pagato ai bambini vessati dai suoi sacerdoti.
«È una persona molto legata ai poveri, perché ha lavorato a lungo in America Latina e ai Caraibi, sempre in mezzo agli indigenti. Questo significa che potrebbe essere un papa diverso, un papa che inizi una nuova tradizione», ha scritto l’ex sacerdote. Sul Trono Apostolico non siederà un vero francescano, ma un gesuita che si farà chiamare Francesco, come il poverello di Assisi. Un’amica argentina mi scrive turbata da Berlino, perché secondo i tedeschi, che non conosco il suo passato, il nuovo papa è un terzomondista. Che grande confusione. La sua biografia è quella di un populista conservatore, come lo sono stati Pio XII e Giovanni Paolo II: inflessibili su questioni dottrinali, ma con una certa apertura nei confronti del mondo, soprattutto, verso le masse povere.
 
Quando recita la prima messa in una via di Trastevere o nella stazione Termini a Roma e parla di persone sfruttate e prostituite dagli insensibili potenti che chiudono il loro cuore a Cristo; quando i giornalisti amici raccontano che ha viaggiato in metropolitana o in autobus; quando i fedeli sentono le sue omelie recitate coi gesti di un attore, dove le parabole bibliche coesistono con il parlar franco del popolo, ci sarà chi delirerà per il tanto desiderato rinnovamento della Chiesa. Nei tre lustri che ha trascorso alla testa dell’Arcidiocesi di Buenos Aires ha fatto questo e altro. Ma al tempo stesso ha tentato di unire l’opposizione contro il primo governo che, dopo molti anni, ha adottato una politica favorevole ai settori meno abbienti. Addirittura lo ha accusato di essere aggressivo e di cercare provocazioni, perché per farlo è dovuto scendere a patti con quei potenti attaccati nel discorso.
Adesso potrà farlo su scala più grande, ma non significa che si dimenticherà dell’Argentina. Se Pacelli ricevette il finanziamento dell’Intelligence Usa per sostenere la Democrazia Cristiana e impedire la vittoria comunista nelle prime elezioni del Dopoguerra e se Wojtyla è stato l’ariete capace di aprire il primo buco nel muro europeo, allora il Papa argentino potrà svolgere lo stesso ruolo su scala latinoamericana. La sua passata militanza nella Guardia de Hierro, il discorso populista che non ha dimenticato e con cui addirittura ha abbracciato cause storiche come quella delle Malvinas, gli permetteranno di imporre la direzione a questo processo, per apostrofare gli sfruttatori e predicare la bontà degli sfruttati.
 
 
 
*Per gentile concessione del quotidiano argentino «Pagina12». L’autore, Horacio Verbitsky, è giornalista, scrittore e intellettuale, responsabile della sezione americana di Human Rights Watch. Nel 2005 ha scritto «L’isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina», nel quale ha raccolto le testimonianze di sopravvissuti e parenti dei desaparecidos. Nel 1995 aveva già pubblicato «Il Volo – Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos».
 
Horacio Verbitsky       il manifesto   15 marzo 2013
 
 
 
Pop e conservatore
 
I simboli, nella liturgia e nella modalità comunicativa della Chiesa cattolica, sono importanti, spesso più delle parole. È per questo che i primi gesti compiuti e le poche parole pronunciate dal neo papa Francesco trasmettono l’impressione di un’energica sterzata rispetto al percorso degli ultimi anni. Se questo sarà il preludio ad un effettivo cambio di direzione da parte della Chiesa – più dal punto di vista ecclesiale che teologico e dottrinale – è presto per dirlo: bisognerà attendere Bergoglio a prove ben più impegnative, a cominciare dalla ristrutturazione della Curia romana. Tuttavia i suoi primi atti mandano dei segnali chiari.
Ieri è stata la prima giornata da papa, con la visita alla basilica di Santa Maria maggiore, per «pregare», come aveva annunciato da san Pietro la sera prima. Viaggio breve, dal Vaticano all’Esquilino, a bordo di una macchina della gendarmeria – non la lussuosa berlina papale targata Scv 001 –, senza il corteo di automobili tipico degli ultimi due pontefici. Breve sosta di preghiera, con il rammarico di avere tutta la basilica solo per sé: aveva chiesto che restasse aperta ai pellegrini, ma non è stato possibile. Ha vinto il dogma della sicurezza. Che però verrà corretto, come ha fatto intendere il direttore della sala stampa della Santa sede padre Lombardi: ogni papa «ha uno stile personale che va rispettato», ha detto rispondendo ad una domanda sulla questione sicurezza. Subito dopo, una deviazione alla Casa del clero, dove Bergoglio aveva soggiornato prima del conclave, per ritirare i bagagli e pagare il conto. Gesto inconsueto, forse populista, ma eloquente.
La prima verifica si avrà nei prossimi mesi, quando dovrà occuparsi dei bilanci economici del Vaticano, a giugno, e affrontare il capitolo Ior. Infine nel pomeriggio una messa, nella Cappella Sistina, davanti ai 114 cardinali che il giorno prima lo hanno eletto papa, con un’omelia “a braccio”, in italiano, sulla necessità di camminare ed edificare insieme la Chiesa. Questa mattina nuova udienza ai cardinali, con il primo discorso “programmatico” del nuovo pontefice. Una giornata, quella di ieri, che ha confermato quanto si era già visto e ascoltato mercoledì sera, quando Bergoglio si era affacciato dalla loggia di san Pietro senza indossare i simboli del potere papale, la mozzetta rossa e la stola, ma in talare bianca, con la croce di ferro che aveva già da vescovo di Buenos Aires. Più che gli abiti, però, sono state significative le sue parole: non si è presentato come «papa» ma come «vescovo di Roma», riportando indietro di molti secoli l’orologio della storia, quando il papa non era il «vicario di Cristo» ma solo il «vescovo di Roma»; e ha ripetuto più volte i termini «fratellanza» e «popolo». Segnali che potrebbero essere l’anticipazione di un ridimensionamento del centralismo papale e della Curia romana e di un ampliamento della collegialità episcopale. Ma anche questo lo si capirà meglio dai primi atti di governo del nuovo pontefice.
Sotto l’aspetto dottrinale e teologico, invece, i segnali sono diversi. Bergoglio è rimasto sempre distante dalla teologia della liberazione ed è saldamente ancorato ai «principi non negoziabili». E ieri, durante la visita a Santa Maria maggiore, ha sostato in preghiera sulla tomba di Pio V, prima inquisitore e poi papa della Controriforma cattolica e della battaglia di Lepanto. Conduce uno stile di vita sobrio – a Buenos Aires si muoveva anche con i mezzi pubblici e abitava non nel palazzo del vescovado ma in un appartamento comune – ed è attento ai temi sociali, ma in una prospettiva caritatevole più che “politica”. Insomma il profilo di un conservatore popolare.
Potrebbe tuttavia riservare delle sorprese, come spera il movimento di base Noi siamo Chiesa, che «si aspetta dal nuovo vescovo di Roma Francesco un pontificato degno del nome che si è scelto». C’è l’attesa del rinnovamento, dice il portavoce nazionale Vittorio Bellavite, e di una Chiesa «che sappia chiudere con gli scandali della curia e col suo centralismo mefitico; che faccia pulizia completa sulla questione dei preti pedofili; che sappia percorrere senza paure e reticenze le strade indicate dal Concilio Vaticano II; che sappia ascoltare al proprio interno ed usare la misericordia e non l’esclusione; che sappia dire al mondo parole di pace fondata sulla giustizia; che sappia riaprire la strada dell’ecumenismo con le altre chiese cristiane e rapportarsi con le altre religioni; che sappia avere rapporti corretti con i poteri civili».
 
Luca Kocci      il manifesto  15 marzo 2013
 
 
 
vedi:  Francesco?
 
 

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