È meglio servire o essere liberi? La domanda sembrerebbe oziosa: un’intera tradizione delle culture occidentali ha risposto con le parole di Amleto: meglio morire che sopportare l’oppressione dei tiranni e l’insolenza del potere. Ma la realtà storica e politica parla una lingua diversa: quella della corsa a precipizio dei popoli verso la servitù – la “servitù volontaria”: avere posto al centro del suo Discorso sulla servitù volontaria (Chiarelettere) proprio questa espressione è il principale, quasi unico titolo di gloria di Étienne de La Boétie, quello che fa tornare di tempo in tempo in libreria il suo scritto dopo la prima edizione postuma e anonima che vide la luce nella Francia delle guerre di religione. Allora il potere monarchico era in crisi, la furia dell’intolleranza religiosa scuoteva i troni e il pugnale dei tirannicidi minacciava la vita dei re. Ma anche se il libretto di Étienne de La Boétie fu edito in un contesto tanto agitato e violento con un titolo di battaglia – Contr’un –, si sbaglierebbe a definirlo un testo rivoluzionario.

Renzo Ragghianti, il nostro più esperto studioso dell’argomento, ha osservato che fu proprio Michel de Montaigne a considerare lo scritto dell’amico scomparso una declamazione giovanile, quasi un esercizio adolescenziale costruito su luoghi comuni letterari. E quanto al sintagma “servitù volontaria”, Mario Turchetti nella sua vasta ricostruzione storica della discussione su tirannia e tirannicidio ne ha fissato l’origine al commento medievale di Nicole Oresme alla Politica di Aristotele. Tutto questo però non cancella il fascino delle pagine di Étienne de La Boétie. C’è in apertura quel genuino sentimento di stupore di chi fa una vera scoperta: «com’è possibile che tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino un tiranno che non ha altra forza se non quella che essi gli danno?». Questo è un problema vero: ci volle Thomas Hobbes per trovare la risposta. Una risposta racchiusa in una parola: paura.

È per paura che gli uomini rinunciano alla libertà dello stato di natura e si piegano alla servitù del potere politico. Poi, con la nascita delle costituzioni liberali e democratiche, si pose il problema ulteriore se fosse preferibile sottoporsi al potere di uno o al potere di molti.

E accanto a democratici e liberali favorevoli al governo dei molti sorsero i reazionari alla De Maistre, maestro perenne della genìa dei “servi liberi” di un padrone solo. Ma quella descrizione di Étienne de La Boétie di popoli supinamente acquiescenti e di tiranni che li addormentano con gli spettacoli, i bordelli e la religione, resta carica di una sua attualità (come nota il curatore Paolo Flores d’Arcais).

Pensiamo per esempio al modo in cui de La Boétie viene discoprendo dietro la figura solitaria dell’uno tutta una rete di complici e di clienti: quell’uomo apparentemente solo ha una piccolissima corte di sei complici delle sue ruberie e ruffiani dei suoi piaceri. Da loro dipendono seicento profittatori: e dai seicento dipendono altri seimila. Tutti sono legati tra di loro dalla spartizione di poltrone politiche e di fortune finanziarie, tutti coperti dall’impunità garantita da un potere che sospende o cancella la validità delle leggi. È un modello in cui parte dell’Italia di oggi può ben riconoscersi.

Si può spingere l’analogia anche più in là. Nel testo resta una sproporzione tra l’empito libertario della denunzia e la modesta proposta che si intravede: la speranza dell’autore si affida al ceto degli uomini di legge di cui fa parte e all’autorità dei Parlamenti, cioè a una minoranza di magistrati chiamati a difendere i diritti naturali degli uomini e a fare argine alla prepotenza del tiranno. L’alternativa libertà o morte non gli appartiene. E non appartiene nemmeno alla maggior parte di noi lettori. A qualcuno di noi sì, se consideriamo tra i “noi” i disperati che attraversano il canale di Sicilia per diventare italiani. Ci vuole uno sguardo straniero per cogliere le assurdità delle nostre forme di convivenza civile e politica. Non è per caso se l’accusa di “servitù volontaria” è diventata davvero celebre nella cultura europea solo quando Montaigne ebbe l’intuizione di farla sua mettendola però in bocca a chi davvero aveva i titoli per guardare alla realtà della nostra società con sguardo estraniato: i selvaggi brasiliani da lui incontrati a Rouen.

Secondo Montaigne quei “barbari” vestiti di piume si erano meravigliati, come de La Boétie, che tanti uomini “civili”obbedissero a un re bambino; ma ancor più si erano stupiti della passività di una massa di popolo che moriva di fame senza ribellarsi.

Adriano Prosperi     la Repubblica  15 giugno 2011

 

vedi:  Discorso sulla servitù volontaria


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