Ma perché la Chiesa fa uno scatto e, bruciando ogni record, lancia nella gloria dei cieli e della terra papa Wojtyla, dopo appena sei anni dalla morte? Per opportunismo politico? Per una terapia d’emergenza sulla crisi che infuria al suo interno? L’ipotesi che passa dal Vaticano è che questa aureola a processo breve, anzi brevissimo è un gesto di gratitudine e di affetto di Ratzinger per l’uomo di cui è stato il braccio destro ultraventennale. Tanto più se si considera che la classe dirigente subentrata in Vaticano ai 26 anni di wojtylismo non tifava per una aureola così precoce, quasi a prendere le distanze da un modello di papato carismatico per tornare quanto prima a stili di governo istituzionale ordinario. E quanto ai maggiori dirigenti della Segreteria di Stato sotto il Papa polacco, Sodano e Sandri, nessuno dei due aveva accettato di deporre al processo di beatificazione: segno inequivocabile di circospezione. Ragioni sufficienti per discernere in questa aureola l’impronta personale, biografica di papa Ratzinger. Fonti vaticane assicurano che è legittimo il dubbio che senza di lui Wojtyla sarebbe volato sugli altari. Almeno non così presto.

Ma le tensioni istituzionali sottese a questa glorificazione raccontano anche che la lettura trionfalista di quel regno non è indiscussa e, anzi, che i rischi di questa beatificazione non sono inferiori a quelli di altre aureole papali del Novecento. Non ha tardato a tremare l’aureola posta nel 1950 da Pio XII sulla testa di Pio X, il Papa veneto divenuto ben presto il simbolo identitario dell’ultracattolicesimo alla Lefebvre, l’oppositore di ogni riforma. Stessa operazione con la beatificazione del Papa del Vaticano I e del “Syllabus” Pio IX, messo sugli altari in coppia con Giovanni XXIII da Giovanni Paolo II nel 2000 malgrado le prove del suo carattere irritabile e violento. Benché un trattamento analogo fosse stato inflitto anche ai vescovi che si erano opposti al dogma dell’infallibilità pontificia, Giovanni Paolo II passò sopra a ogni genere di obiezione, avendo interesse – si ritiene – a legittimare il ritorno dei tradizionalisti all’ovile e a placare la curia bilanciando l’aureola che essa bramava con quella del Papa del Vaticano II che essa contrastava. Non sembrava fosse di ostacolo ai suoi occhi nemmeno che Pio IX avesse rifiutato la grazia a due ragazzi filo-rivoluzionari italiani come Monti e Tognetti, finiti sotto la ghigliottina dell’ultimo Papa-re. L’analisi storiografica di queste aureole scottanti sforna le prove che la prudenza con cui Roma gestiva in passato l’ascesa dei Papi all’onore degli altari era la via maestra per risparmiare al soglio l’imbarazzo di sentenze auto-interessate, non prive di fallimenti per sé e per i successori. Così il lasciapassare per gli altari ad un Papa come Pio IX si è trasformato in una macchia – una fra le tante – non solo per l’aureola di Wojtyla ma anche per la credibilità della fabbrica dei Papi santi.

Il quesito ricade dunque sulle ragioni istituzionali, e non appena personali, per cui Ratzinger ha ritenuto di passare sopra alle ragioni del metodo storico e sponsorizzare l’aureola per il Papa polacco. Forse uno dei motivi è rivendicare e consolidare l’integrazione del papato carismatico nel sistema del pontificato romano, come a sottrarre «l’eccezione» polacca al suo statuto singolare e irripetibile. Probabilmente Benedetto XVI intende usare questa aureola per porsi risolutamente nel cono di luce del predecessore. Potrebbe essergli utile per procedere con migliore efficacia al ricompattamento interno fra i differenti e plurali cattolicesimi e alla disciplina dello spirito di setta prodotto da tanto neo-liberalismo religioso e dal fondamentalismo fanatico degli ultracattolici radicali. Non si può escludere che uno degli obiettivi di questa nuova stella nel firmamento dei santi sia il tentativo di rafforzare la figura centrale del papato nell’intera galassia cristiana, una terapia d’urgenza in una congiuntura di crisi della Chiesa. Al di là degli aspetti contestabili dell’istruttoria canonica, alla quale avrebbe certamente giovato più un’analisi storiografica attendibile (per la quale mancava il tempo) che un approccio agiografico emotivo, ciò che molti si attendono da Benedetto XVI è che colga questa occasione per ribadire cosa intenda fare del lascito di Wojtyla su alcuni punti critici da lui lasciati in sospeso e affidati nel «Testamento» al successore.

Per esempio, la questione della riforma del Primato pontificio, il governo collegiale della Chiesa, l’inculturazione del messaggio evangelico nelle tradizioni culturali e spirituali dell’Asia e dell’Africa, al di là dei gusci dell’Occidente, la priorità da assegnare nella Chiesa alla alleanza tra le religioni e i grandi processi storici della dignità della persona e della non violenza, il dialogo con le grandi religioni mondiali. L’aspetto nuovo di questa aureola è che, per quanto motivate ne siano le contestazioni, essa è stata forgiata più da una corrente di fondo della società civile che dal processo canonico. Avviene come se il responso della Chiesa facesse da interprete e catalizzasse un’opinione comune diffusa, a favore di una figura divenuta un simbolo unitivo universale, un fattore riconosciuto di impulso e un segnale di speranza nel processo di unità del genere umano. Non si può escludere tuttavia che su questo movimento nel sottosuolo si sia innestata una formidabile campagna glorificatoria prodotta nei modi dell’industria culturale all’interno di potenti nuclei cattolici, interessati all’apoteosi del modello del papato satellitare per tentare di trasferirne in fretta la figura dal piano storico a quello metastorico, anzi prolungare la politica dell’occultamento, al coperto dell’immensa emozione popolare suscitata dal Papa polacco. Una causa di beatificazione favorisce per sua natura l’approccio agiografico, meno l’analisi mediante strumenti critici e indipendenti della complessità storica dell’opera di un Servo di Dio. È naturale attendersi in questo caso che la tecnica dissimulatoria del panegirico sia usata per riprodurre nel tempo il paradigma della potenza pubblica e socialmente trainante della cristianità, che era il cattolicesimo polacco formato esportazione di Re Karol. Per la stessa ragione era stata varata nei mesi finali della sofferenza di Wojtyla l’operazione destinata a incollare sui segni della caducità del Papa, ormai ammutolito e irrigidito dalla malattia, lo stereotipo della regalità indefettibile e della sua potenza da superuomo. La grammatica del silenzio non piace generalmente ai fanatici, ma la Croce in cui Wojtyla si identificava nel suo stesso corpo e che resta il pilastro della sua lezione vissuta pone alla Chiesa di Ratzinger l’alternativa, se debba perpetuare l’illusione che alla Chiesa possano servire da toccasana per la sua crisi le ostentazioni della sua potenza politica e sociali oppure le vie deboli per le quali la Grazia preferisce agire. Tra i meriti attribuiti al nuovo Beato viene sottolineato quello di aver trasformato la crisi di identità che serpeggiava nel cattolicesimo in un successo. Il più autorevole apologeta di questa tesi è il Cardinale Ruini. Altri invitano ad una lettura meno schematica, dato che la ricetta Wojtyla non sembra abbia funzionato. La crisi si abbatte ora più furiosa di prima dopo i suoi trionfi e le sue convocazioni di massa, che in qualche modo erano serviti a camuffarla. In effetti la sola condizione per affrontarla non era quella di rimuoverla, ma di riconoscerla e di cambiare strada. Ogni cambiamento implica una crisi, è naturale. Il malessere della Chiesa si è aggravato a causa del fatto che essa non ha accettato di cambiare. Piuttosto essa è regredita nell’utero materno, si è aggrappata alla Roccia Polacca per non avere le vertigini. Il rischio è che questa beatificazione si trasformi, nella gestione di alcuni settori cattolici identitari, in un tentativo di riprodurre il wojtylismo e dunque il nuovo regime di cristianità oltre Wojtyla, bloccando ulteriormente i cambiamenti. A meno che Benedetto XVI non trovi il coraggio di rovesciare il piatto.

 

Giancarlo Zizola    la Repubblica  29 aprile 2011

 

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