Il 15 febbraio 1966, il Tribunale di Roma assolveva don Lorenzo Milani dall’accusa di apologia di reato per essersi espresso a favore dell’ dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Don Milani aveva 42 anni ed era parroco di 42 anime! Lo scriveva lui stesso. A quella sentenza non potevo essere presente – frequentavo soltanto la terza liceo classico ed ero a Lucca – ma dall’eco data dalla stampa alla notizia, percepivo che rappresentava una pietra miliare nella vicenda civile e religiosa del nostro paese. Mi sembra bello ricordare quell’avvenimento, a poche settimane dalla celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Perché la Lettera ai cappellani militari, la Lettera ai giudici e la motivazione stessa della sentenza partono sì dal problema allora rovente dell’obiezione di coscienza al servizio militare, ma contribuiscono ad un esame critico di tutta la storia nazionale seguita all’Unità. Proprio partendo dal “ripudio” della guerra, don Lorenzo costruisce una discussione colma di passione sui fondamenti del vivere civile, sugli strumenti di lotta contro le ingiustizie, sul diritto-dovere di migliorare le leggi, sulla responsabilità legata ad ogni scelta personale. Nello scrivere la Lettera ai giudici (Barbiana, 18 ottobre 1965) – la scrive con i suoi ragazzi! – si scusa di non poter scendere a Roma perché malato: «Ci tengo a precisarlo – scrive – perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l’accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini».Con i suoi ragazzi a scuola 12 ore al giorno e 365 giorni l’anno, ha rivisitato la storia italiana in cerca di una guerra giusta, cioè in regola con l’art.11 della Costituzione: «Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata».

Dall’Africa ho riportato con me L’obbedienza non è più una virtù, della Libreria editrice fiorentina, che raccoglie i documenti del processo di don Milani. Nel rivisitare la nostra storia, il profeta di Barbiana, che peli sulla lingua (sulla penna, bisognerebbe dire) proprio non ne aveva, scriveva: «Ai miei ragazzi insegno che le frontiere sono concetti superati. Quando scrivevamo la lettera incriminata abbiamo visto che i nostri paletti di confine sono stati sempre in viaggio. E ciò che seguita a cambiar di posto secondo il capriccio delle fortune militari non può esser dogma di fede né civile né religiosa. Ci presentavano l’Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri s’erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla (…). Che gli italiani in Etiopia abbiano usato gas è un fatto su cui è inutile chiuder gli occhi».

Nella sua risposta ai cappellani militari toscani che avevano sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965 in cui «considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà», don Lorenzo se la prendeva con quegli ufficiali che per due volte (1896 e 1935) avevano aggredito « un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l’unico popolo nero (etiopico, ndr) che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo. Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d’un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l’uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?».

Grazie, don Lorenzo, perché continui ad insegnarci che non serve avere le mani libere se poi si tengono in tasca… e che conoscere la storia dell’Italia unita significa anche non dimenticare un passato che non è stato solo glorioso e che continuamente ci rimanda ai rapporti del nostro Paese con i popoli d’Africa che aspirano a più giustizia e maggiore libertà.

Elio Boscaini        in “Nigrizia”    15 febbraio 2011



Il non expedit di don Milani

Quarantacinque anni fa, il 15 febbraio 1966, don Lorenzo Milani veniva assolto dal Tribunale di Roma dall’accusa di apologia di reato. Al processo ero presente anch’io e la sentenza parve a me, come a molti altri, una pietra miliare nel rinnovamento civile e religioso dell’Italia. I documenti nati attorno alla vicenda processuale – la Lettera ai cappellani militari, la Lettera ai giudici e la stessa motivazione della sentenza – partono dal problema dell’obiezione al servizio militare, ma contribuiscono a un esame critico di tutta la storia nazionale seguita all’Unità d’Italia. Conservano dunque anche oggi molti motivi di interesse. I tre documenti sono stati pubblicati, col titolo L’obbedienza non è più una virtù dalla Libreria Editrice Fiorentina, che ne sta preparando una edizione speciale per il 150° dell’Unità. Il priore di Barbiana era intervenuto un’altra volta sui rapporti dei cattolici con lo Stato unitario. Aveva scritto infatti nel 1958, al termine di Esperienze pastorali: «Tornare al non expedit». Era una delle tre «proposte» che don Milani formulava (senza crederci troppo), per rimediare alle compromissioni causate alla Chiesa dall’incoerente azione politica dei cattolici. Il non expedit («non giova», «non è conveniente») era stata la risposta data da una Congregazione vaticana, nel 1874, a un quesito sull’opportunità dell’impegno politico dei cattolici nello Stato unitario.

Era l’ultimo atto di una reazione difensiva che molti storici giudicano oggi controproducente. Nel 1872 c’era stato il ritiro delle cattedre di teologia dalle università statali. Nelle chiese si cominciò a cantare «Pietà, Signor, del nostro patrio suolo», dove si invocava: «Deh! rendi gloria al nostro Padre Santo / con un trionfo pari al suo dolor». I giornali cattolici uscirono listati a lutto: La Squilla di Firenze – lo ricorda divertito don Milani – continuò così fino al 1929. Il Priore, affezionatissimo alla sua “veste”, forse non sapeva che i preti – ma non tutti – cominciarono solo dopo il 1870 a indossare fuori delle chiese l’abito talare (veste “piàna” come segno di fedeltà a Pio IX). Ma don Milani non coltiva nessuno spirito di rivincita o d’arroccamento. Scrive infatti nella Lettera ai giudici: «Dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l’accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me». Questa professione di lealtà, per don Milani, non è in contrasto con la critica severa all’idea di Patria e alle guerre che ne sono nate, contenuta nella Lettera ai cappellani militari. I giudici romani, nella sentenza di assoluzione, si sentiranno in dovere di ravvisarvi «improvvisazione retorica», «confusione d’idee», «passionalità di giudizio». Ma a don Milani interessava soprattutto smontare le manipolazioni della storia patria fatte dal fascismo. E su questo i giudici gli danno ragione, quando scrivono che «sul tronco di impronta liberale dello Statuto Albertino fu possibile innestare, senza alcuna modifica costituzionale, un regime autoritario, contro il quale miglior ventura del popolo italiano sarebbe stata quanto meno una minor collaborazione, per non dire resistenza». Il colpo d’ala della Lettera ai giudici, che la sentenza non nomina ma i cui argomenti sembrano abbondantemente accolti, sta nel chiarire che il testo incriminato era «una scorsa su cent’anni di storia alla luce del verbo ripudia» usato nell’articolo 11 della Costituzione repubblicana. È partendo dal «ripudio» della guerra che don Milani costruisce una discussione appassionata sui fondamenti della convivenza civile, sugli strumenti di lotta alle ingiustizie, sul diritto-dovere di migliorare le leggi, sulla responsabilità connessa a ogni scelta personale.

I due testi milaniani contenevano poche novità storiografiche, ma erano la prima revisione storica condotta con linguaggio scolastico e popolare (usando «testi di scuola media, non monografie di specialisti»). In più, l’afflato universalistico del discorso («L’Europa è alle porte [...] I nostri nipoti rideranno dell’Europa») impediva di usare le sue critiche per un rifiuto dell’Unità con motivazioni religiose, etniche, razziali, di egoismo territoriale. Infine, come luogo e motore della riflessione, don Milani poneva la scuola, la quale «siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi», la scuola «che è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità (…), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico». Appare strano, allora, che un analista del calibro di Giuseppe De Rita (su Famiglia Cristiana n. 2/2011) attribuisca a don Milani l’inizio della «dimensione individualistica personale e libertaria che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni» e lo accusi addirittura di «soggettivismo etico». «Ci voleva una autorità morale come la sua – ha scritto De Rita – per dire che la norma dello Stato è meno importante della coscienza individuale». Piccola domanda: chi ha preparato i cattolici italiani all’obiezione di coscienza contro l’aborto? Ancora il 10 gennaio di quest’anno il Papa ha insistito perché gli Stati riconoscano ai medici il diritto di obiettare alle leggi contro la vita. Don Milani e la sua lezione, presi senza deformazioni e mutilazioni, non escono dal solco della profezia cristiana.

Sandro Lagomarsini      Avvenire  21 gennaio 2011

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