“Io non sono convinto che in questi mesi gli italiani abbiano dimostrato “responsabilità”, “disciplina”, “senso civico”. I nostri concittadini si sono fatti prendere dal panico, si sono lasciati convincere da un’informazione (soprattutto televisiva) sensazionalista, parziale, ispirata al ‘pensiero unico” del male assoluto.”

(da:  Terrore sanitario e la gente comune. )

 

L’eccezione non è la regola

Sono molte le ragioni per non prorogare al 31 dicembre lo stato di emergenza, dichiarato il 31 gennaio e in vigore fino al termine di luglio. In primo luogo, manca il presupposto della proroga. Perché venga dichiarato o prorogato uno stato di emergenza, non basta che vi sia il timore o la previsione di un evento calamitoso.

Occorre che vi sia una condizione attuale di emergenza. Proprio per questo la norma del 2018, che regola la protezione civile, ha previsto un sistema molto semplice e rapido di dichiarazione dello stato di emergenza: basta una delibera del Consiglio dei ministri.

Perché prorogare lo stato di eccezione, se è possibile domani, qualora se ne verificasse la necessità, riunire il Consiglio dei ministri e provvedere? Allora, non bisogna ricorrere a un provvedimento eccezionale, che istituisce un ordine fuori dall’ordinario, se non ve ne sono le premesse.

La proposta di proroga è stata affacciata con la motivazione dell’urgenza di provvedere, se la pandemia riprende forza. Ma l’urgenza non vuol dire emergenza.

Il ministro della salute può, in base alla legge del 1978 sul Servizio sanitario nazionale, emettere ordinanze contingibili (cioè per casi non prevedibili) e urgenti in materia di igiene e di sanità. Il codice dei contratti contiene norme che consentono procedure negoziate senza previa pubblicazione di bandi di gara.

Insomma, nell’ordinamento vi sono strumenti che consentono di provvedere celermente, senza creare di nuovo uno stato di eccezione che giustifica tutto (la legge sulla protezione civile prevede che durante lo stato di emergenza si può provvedere «in deroga a ogni disposizione vigente»). È buona norma che, se vi sono strumenti meno invasivi, si ricorra ad essi, prima di utilizzare quelli più drastici.

Un terzo buon motivo per non abusare dell’emergenza è quello di evitare l’accentramento di tutte le decisioni a Palazzo Chigi. E questo non solo perché finora si sono già concentrati troppi poteri nella Presidenza del consiglio dei ministri, o perché in ogni sistema politico una confluenza eccessiva di funzioni in un organo è pericolosa, ma anche e principalmente perché l’accentramento crea colli di bottiglia e rallenta i processi di decisione.

Da ultimo, la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza è inopportuna perché il diritto eccezionale non può diventare la regola.

Proprio per questo sia la legge che lo prevede, sia la costante giurisprudenza della Corte costituzionale hanno insistito sulla necessaria brevità degli strumenti derogatori, perché non è fisiologico governare con mezzi eccezionali.

Questi possono produrre conseguenze negative non solo per la società e per l’economia, creando tensioni nella prima e bloccando la seconda, ma anche per l’equilibrio dei poteri, mettendo tra le quinte (ancor più di quanto non accada già oggi) il Parlamento e oscurando il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, al cui controllo sono sottratti gli atti dettati dall’emergenza.

Non dimentichiamo che Viktor Orbán cominciò la sua carriera politica su posizioni liberali.

Sabino Cassese, costituzionalista      Corriere 12/7/ 2020


 

Se l’emergenza non basta

La proposta di prorogare per tutto l’anno lo stato d’emergenza è per molti versi discutibile. Lo è sia con riguardo alle attuali circostanze epidemiche, che non paiono esigere questa misura; sia per il significato simbolico che assume, dato che, socialmente, trasmette insicurezza e allarme ai cittadini, mentre politicamente sembra servire a sorreggere e rafforzare un governo sempre più sfilacciato.

Lo stato d’emergenza – nelle sue molte varianti, fra cui quella italiana è la più blanda – conferisce un grande potere all’esecutivo e al suo vertice, e consente di prendere decisioni rapide che tagliano fuori il legislativo e, in parte, sospendono lo Stato di diritto. Con lo stato d’emergenza si ha, entro certi limiti (piuttosto imprecisi), mano libera per curare sbrigativamente, chirurgicamente, una infermità, una incapacità, della società e delle istituzioni.

La decisione emergenziale è una triste necessità, e al tempo stesso un’arma potente ma rudimentale che affronta un problema dissolvendolo, non certo risolvendolo nel merito – è in mancanza di cure e di vaccini che si è ricorsi al lockdown. Nella sua forza è in realtà iscritta una debolezza, una povertà, una contingenza estrema, una essenziale limitatezza.

Benché rappresenti l’extrema ratio della politica, non può sostituirne i processi e la dialettica. I nostri problemi principali non possono essere risolti con la decisione emergenziale.

La questione del Mes – che implica la scelta del modo in cui stare in Europa, e che può dar vita a una maggioranza diversa da quella di governo – non è affrontabile con logiche d’emergenza, per quanto sia urgente e stringente.

Anche la nuova legge elettorale – resa necessaria dal più che probabile esito confermativo del referendum costituzionale — richiede una decisione rapida ma non certo emergenziale sull’assetto dei nostro sistema politico, che varia molto secondo che prevalga una logica proporzionale o invece maggioritaria.

E se il disagio economico e sociale generasse in autunno sommosse popolari, quali dai fatti di Avola o dalla rivolta di Reggio Calabria non si sono più viste nel nostro Paese, nessuno penserà di risolvere questa evenienza con mezzi d’emergenza, si spera.

La verità è che l’Italia è oggi davanti a decisioni capitali, rispetto alle quali lo stato d’emergenza, questa politica rattrappita, è inadeguato: potrebbe essere necessario, nel caso peggiore, ma certamente non è sufficiente.

La nostra condizione, oggi, è paragonabile a quella del 1914, o del 1948: a quei momenti decisivi in cui alla politica si chiede energia, velocità, ma anche lungimiranza. Allora, in quegli anni remoti, decisioni politiche impegnative furono prese, nel bene e nel male.

Invece, in un’altra temperie, più vicina noi, una situazione che richiedeva grandi decisioni politiche non le trovò: la fine della spinta propulsiva della prima Repubblica fu gestita, durante e dopo l’uccisione di Moro, da una politica solo emergenziale, e, in seguito, solo contingente. E un intero sistema politico collassò.

Oggi, dobbiamo chiedere a chi governa la barca fra gli scogli del presente con quale politica viene decisa la rotta da prendere per i prossimi anni. Ciò che serve non è certo l’attuale mix di emergenza e trasformismo, e neppure l’arte nefasta, andreottiana, di non affrontare i problemi.

È l’ora, semmai, della grande politica. Cioè di una politica che si prende sul serio, che si sforza di gestire l’emergenza attuale immaginando, oltre, una prospettiva futura. Una politica robusta, a tutto tondo, che possa contare sul pieno concerto istituzionale e sull’espresso consenso popolare — ovvero, una politica democratica – non la politica forte ma al contempo striminzita della decisione solitaria di vertice.

Carlo Galli, politologo      Repubblica  12/7/2020


 

“Per l’esecutivo il vantaggio di una emergenza permanente è che anche le cose banali possono essere realizzate come se appartenessero a uno situazione di emergenza. Se tutto è una situazione di emergenza, tutto il potere è potere di emergenza.”

Garry Wilss (1934), giornalista e storico americano

 

 

 

 

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