Kasparov: Putin usa la pandemia contro l’Occidente
L’ex campione di scacchi Kasparov: le dittature si vantano di gestire le crisi meglio delle democrazie. Garry Kasparov, ex campione mondiale di scacchi, è ora a capo di un gruppo di opposizione a Vladimir Putin
Garry Kasparov, 57 anni, è stato uno dei più grandi scacchisti di tutti i tempi, vincendo praticamente tutte le competizioni mondiali fra il 1986 e il 2005. Da quando si è ritirato dalle competizioni scacchistiche, ha dedicato tutto il suo tempo all’impegno politico e alla scrittura. Nel 2008 gli è stato impedito di candidarsi alla presidenza per sfidare Vladimir Putin ed è stato a lungo uno dei leader dell’opposizione liberale e democratica in Russia.
Dal 2015 vive a New York in esilio volontario e attualmente presiede la “Human Rights Foundation” e la “Renew Democracy Initiative”, organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e nella promozione della democrazia liberale in Russia e nel mondo.
Lo raggiungiamo telefonicamente nel suo ufficio in una New York in pieno lockdown da coronavirus.
Una nuova riforma costituzionale che permetterà a Putin di governare fino al 2036 e le fabbriche di fake news di nuovo a pieno regime per dimostrare come l’Occidente sia debole e impreparato nel contrasto della pandemia. Crede che la Russia di Putin stia usando l’emergenza coronavirus per destabilizzare l’Europa?
«Se parliamo di “riforma costituzionale”, i vostri lettori potrebbero pensare ad un processo “legale”, fatto di referendum, dibattiti in Parlamento, eccetera. Nel caso della Russia si tratta invece dell’ultimo stadio della dittatura di Vladimir Putin, con poteri illimitati e senza limiti temporali. La pandemia globale sta purtroppo aiutando i dittatori in varie parti del mondo a ridurre diritti e democrazia e al tempo stesso a esportare il massimo dell’instabilità possibile nel mondo libero».
Si riferisce alla falsa narrativa promossa dagli stati autoritari che ritengono di essere più efficienti nella gestione di questa crisi con metodi antidemocratici?
«Assolutamente sì. Guardi quanto sta accadendo in Russia, in Cina, ma anche in Ungheria. Sono settimane che i regimi dittatoriali, anche con l’uso spregiudicato della rete e delle fake-news, inondano l’Occidente di messaggi per mettere in dubbio l’efficacia dei sistemi democratici nel contrasto della pandemia. Il leit-motiv è sempre lo stesso: “I sistemi democratici non sono in grado di proteggervi. Guardate alla Cina. Solo un governo forte può garantire protezione e sicurezza”. Questa falsa narrativa è una minaccia per le democrazie occidentali quanto, se non di più della pandemia».
Qualche giorno fa il Ministero della Difesa della Russia ha rivolto un forte attacco a La Stampa che ha espresso dubbi sulle reali intenzioni e sulla reale natura degli aiuti russi in Italia per la lotta al coronavirus. Qual è la sua opinione?
«Quella è stata un’operazione militare e di intelligence, non certo un aiuto umanitario. L’operazione è stata gestita dall’esercito e dall’intelligence russa e Putin, inviando oltre 100 soldati in Italia, voleva raggiungere due obiettivi: vincere una campagna di pubbliche relazioni, mandando un messaggio di sostegno all’Italia, e al tempo stesso installare la propria intelligence sul terreno in un paese Nato. Vladimir Putin sta affrontando la crisi globale del coronavirus come una “guerra ibrida”: esportando instabilità in un momento di grande difficoltà per l’Occidente, e tentando di distruggere la fiducia diffusa nel libero mercato e nelle società aperte fra le due sponde dell’Atlantico».
Crede che anche grazie alla nuova assertività delle Russia e delle altre dittature, questa crisi provocherà un impatto negativo sui sistemi democratici occidentali?
«Sconfiggere la pandemia è una battaglia lunga e difficile, ma credo che alla fine le democrazie ne usciranno più forti di prima. Se mettiamo da parte le fake-news e la falsa narrativa di Russia e Cina, non possiamo non renderci conto di come il grande sforzo di idee, innovazione scientifica e tecnologica e le nuove soluzioni stiano tutte nascendo nel mondo libero: non passa giorno che in Europa, Corea del Sud, Usa, Taiwan o Israele, start-up e gruppi di scienziati progettino nuove maschere e nuovi ventilatori, tecnologie innovative di tracciamento, test meno costosi e più rapidi. La crisi pandemica non farà che confermare il valore aggiunto del mondo libero nella ricerca di soluzioni per una semplice ragione: i sistemi dittatoriali non permettono né la libera circolazione delle idee, né tanto meno un confronto aperto e “open source” fra i tanti progetti scientifici. Nei regimi non fanno premio le nuove idee e l’innovazione, ma la catena centralizzata di comando e controllo. In quei sistemi le idee innovative fanno fatica ad emergere».
Crede che in seguito alla pandemia sia possibile una nuova alleanza strategica fra Russia e Cina? Qual è il posto della Russia nel mondo?
«No, non credo che sia possibile. Vladimir Putin non ha una visione strategica, ma si concentra solo sulla propria sopravvivenza. La Cina gioca invece sul lungo periodo con una visione globale alternativa all’Occidente. Ben che vada la Russia, anche alla luce della sua debole economia, potrà essere solo uno “junior partner” del gigante cinese. Ma il posto della Russia è certamente in Europa: storia, cultura, letteratura… È molto più ciò che ci unisce da ciò che ci divide. La Russia deve essere solidamente ancorata all’Europa. E la Russia ha solo due alternative: o diventare uno stato vassallo della Cina autoritaria o far parte di una grande Europa libera e democratica».
Crede quindi che la crisi pandemica produrrà un forte impatto sulla tenuta del regime di Vladimir Putin?
«Forse è un po’ presto per costruire una previsione affidabile, ma credo che questa crisi possa avere un effetto drammatico sul regime di Mosca. Se il prezzo del petrolio, per esempio, non tornerà a salire e si stabilizzerà, il crollo dei prezzi del greggio avrà un impatto enorme sulla tenuta del paese fino a mettere in crisi il regime stesso. E questo potrebbe essere un esito inaspettato della crisi del coronavirus».
Qualche tempo fa il suo nome è stato cancellato dal libro ufficiale delle vittorie dello sport sovietico e russo. Come si sente a non esistere più?
«Nulla di strano purtroppo. C’è un vecchio detto sovietico che recita: “Noi russi viviamo in un paese con un passato imprevedibile”. Tentare di riscrivere la storia è un classico delle dittature».
Gianni Vernetti La Stampa 14 Aprile 2020
Nella spedizione dei russi in Italia il generale che negò i gas in Siria
Sergey Kikot fu inviato dal Cremlino a L’Aja a discolpare Assad dall’accusa di aver usato armi chimiche sui civili. Mosca ha chiesto a Roma di pagare la benzina dei voli.
Ai 104 militari russi impegnati a Bergamo nella missione concordata da Giuseppe Conte e Vladimir Putin si sono aggiunti fin dall’inizio 50 italiani dell’Unità specialistica dell’Esercito italiano, il settimo reggimento CBRN (chimica, biologica, radiologica, nucleare). Il comandante italiano è un tenente colonnello, Dario De Masi; il comandante del contingente russo è un generale, Sergey Kikot, e ha una storia importante alle spalle.
Kikot è il vicecapo del reparto chimico e batteriologico della Russia, sottoposto direttamente al Ministero della Difesa russo (è il numero due di Igor Kirillov), ed è un esperto chimico al quale la Russia ha fatto ricorso in dossier di enorme rilevanza politica.
Il più celebre è forse quello sull’uso delle armi chimiche sulla popolazione civile in Siria, a Douma, da parte di Bashar Assad. L’11 marzo del 2019, a L’Aja, toccò a Kikot sostenere la relazione dell’ambasciatore russo presso l’OPCW (l’Organismo per la prevenzione di armi chimiche e batteriologiche), Alexander Shulgin, che contestava tutte le accuse ad Assad e sosteneva che le prove dell’attacco chimico erano state “messe in scena”. «La Federazione Russa continua a insistere sul fatto che l’incidente di Douma e le prove a sostegno siano stati falsificati», concluse Kikot la sua relazione. Sputnik annunciò che non vi erano tracce di organofosforo e altre sostanze chimiche. Kikot mise in dubbio anche le analisi balistiche e la conta delle vittime, 43, più 500 feriti, dell’attacco avvenuto il 7 aprile 2018, conta che definì irrealistica e incongruente.
Non un medico qualunque
Arriva insomma in Italia non un medico qualunque, ma un esperto chimico e batteriologico al quale la Russia ha affidato questioni di primaria rilevanza geopolitica per il Cremlino (il contro-dossier sulla Siria fu esposto all’OPCW in tandem, da Russia e Siria stessa), che hanno assai diviso la Russia dall’Unione europea e dalla comunità occidentale.
Un’inchiesta indipendente commissionata dall’OPCW smontò poi quelle conclusioni russe, ma questa sarebbe un’altra storia. Di sicuro il curriculum di Kikot è ragguardevole e merita di essere conosciuto, il generale è stato per conto della Difesa, almeno dal 2009, nel board di società che si occupavano di produzione e riparazione di armi e di apparecchiature chimiche, radioattive e di protezione biologica. È un grande esperto nello smaltimento delle armi chimiche e nello stoccaggio di materiali pericolosi.
Fonti della struttura Onu impegnata nelle ispezioni sugli attacchi chimici in Siria confermano a La Stampa di averlo incontrato, e spiegano che veniva considerato come un diretto emissario del Cremlino, inviato per mettere in pratica le direttive di Mosca al massimo livello. Il suo in sostanza non era un incarico tecnico, per il quale c’era personale di livello più basso, ma politico.
Una fonte operativa vicina alla comunità dell’intelligence americana riferisce questo: «Ogni volta che il Cremlino manda personale ufficiale in una missione diplomatica, è una regola ferrea che ci sono operativi dell’intelligence tra di loro. In questo caso, la mia valutazione è che la vasta maggioranza del personale inviato in Italia siano membri del GRU, il servizio di intelligence militare. Non c’è alcun dubbio che la Russia abbia approfittato di questo invito per condurre attività di intelligence».
La ricerca su Ebola
Risultano interessanti anche altri profili, dei russi arrivati nella missione intitolata “Dalla Russia con amore”. Il gruppo comprende anche il tenente colonnello Alexander Yumanov, il colonnello Alexei Smirnov, il tenente colonnello Gennady Eremin e il tenente colonnello Vyacheslav Kulish. Si tratta di ufficiali che hanno preso parte al progetto riguardante la ricerca sul vaccino per il virus Ebola, progetto che era in capo al 48esimo Central Research Institute e a Vector SE del ministero della difesa russo, la società che fin dai tempi dell’Unione sovietica era impegnata nello sviluppo di armi biologiche.
Le comunicazioni ufficiali russe li presentano come membri dell’Accademia medica militare con sede a Kirov, anche se diverse tracce riportano poi al 48esimo Central Research Institute. Kirill Shamiev, un analista di cose militari non sospettabile di russofobia, ha scritto qualcosa su di loro: Eremin, colonnello, è esperto in guerra batteriologica e ha lavorato contro la febbre suina.
Il colonnello Viacheslav Kulish è un esperto nello sviluppo di attrezzature protettive contro agenti biologici virali, ha lavorato anche lui nei programmi contro Ebola e la peste. Alexander Yumanov, ha lavorato in Guinea su Ebola. Il colonnello Alexej Smirnov, è epidemiologo esperto in prevenzione delle malattie infettive, e fu coinvolto nello sviluppo di vaccini contro Ebola.
Quando i primi grandi aerei Ilyushin sono arrivati a Pratica di mare, i comandanti della missione russa hanno chiesto che fossero gli italiani a pagare le cospicue spese di volo e carburante degli aerei, con l’Italia che si è dunque trovata in una posizione geopolitica non paritaria, come invece avviene di solito nelle relazioni tra alleati
Abbiamo infine chiesto alla parte italiana di questa storia con quali passaporti i militari russi siano entrati sul suolo italiano. Non riuscendo ad avere risposta da fonti governative, ci è stato infine detto dal Copasir che sono «info classificate». Inusuale, per una missione umanitaria.
Jacopo Iacoboni, Paolo Mastrolilli La Stampa 16/4/2020
“I Servizi sapevano e hanno omesso di dare l’allarme sul coronavirus?”
Depositata un’interrogazione parlamentare rivolta a Conte da Alessandra Ermellino, membro M5S in Commissione difesa alla Camera. Con queste domande: perché anche nella relazione d’intelligence ai parlamentari, a fine febbraio, non viene detto niente su questo? E’ stato ignorato un allarme dei servizi Usa?
I servizi italiani sapevano del rischio di pandemia, e hanno taciuto? Come mai il Dis, il dipartimento per le informazioni e la sicurezza della Repubblica, non ha informato adeguatamente i parlamentari del rischio Coronavirus, negli highlights (documenti con punti salienti, nd.r.) spediti a tutti i deputati e i senatori il 29 febbraio?
Sono alcune delle domande più gravi contenute in un’interrogazione parlamentare appena depositata alla Camera il 14 aprile, subito dopo Pasqua, e di cui La Stampa è venuta a conoscenza. Il documento è firmato dal membro del Movimento 5 stelle in Commissione difesa alla Camera dei deputati, Alessandra Ermellino, e contiene una mole corposa di allegati, che secondo le deputata del Movimento l’hanno costretta a porre questa domanda: i servizi sapevano, e non sono stati tempestivi nel dare l’allarme sul Coronavirus, fosse anche solo per un errore di valutazione?
L’interrogazione è rivolta al Giuseppe Conte e al ministro della Salute, e appare come una notevole spina nel fianco, in una fase delicata di nomine imminenti del presidente del Consiglio, che potrebbero riguardare anche uomini della nostra intelligence.
Il testo chiede alcune cose. Uno, di sapere «come il presidente del Consiglio valuti la trasmissione ai parlamentari di una relazione [gli highlight della “Relazione” del Dis, inviati ai membri del Parlamento accompagnata da una lettera a firma del direttore del Dis Gennaro Vecchione il 29 febbraio 2020] priva di qualsivoglia riferimento al rischio pandemico, in quanto, a parere dell’interrogante, la stessa potrebbe costituire un valido supporto se contenesse delle valutazioni predittive. Al contrario il documento risulta all’interrogante tanto inutile quanto apparentemente provocatorio, e ci si chiede se ciò non sia dovuto a condotta negligente, imperita o colpevole». In sostanza, si chiede a Conte di fornire spiegazioni sull’operato di Vecchione.
Due, Conte viene invitato a rispondere «se corrisponde al vero che l’intelligence americana aveva informato quella italiana». Tre, l’interrogazione domanda spiegazioni su un dettaglio che non tutti conoscono: «Le ragioni del mancato rilievo della notevole presenza di persone provenienti da Wuhan alla Fiera di Rimini proprio nei giorni della chiusura della medesima regione da parte del governo cinese». La Fiera si tenne a Rimini da 16 al 20 gennaio, con centinaia di buyer (acquirenti, n.d.r) provenienti da Wuhan.
Tra gli allegati del documento figurano due report importanti sul rischio-pandemia, prodotti entrambi nel settembre 2019 e – secondo la deputata – noti alla comunità dell’intelligence italiana. Il primo prodotto dal Global Preparedness Monitoring Board, il secondo dalla Johns Hopkins University.
C’era poi stato, già il 9 gennaio, un documento del dottor Francesco Paolo Maraglino (direttore dell’Ufficio 5 – Prevenzione delle malattie trasmissibili e profilassi internazionale del Ministero della Salute), in cui erano chiaramente delineati i gravi pericoli dell’epidemia cinese. Nei giorni successivi – il 13, il 17, il 20 e il 23 gennaio – lo stesso dirigente pubblico aveva emesso altri aggiornamenti sul rischio epidemico, e sul fatto che fosse ormai fuori dai confini cinesi (Giappone e Corea del Sud).
Dal 16 al 20 gennaio si tiene la Fiera di Rimini. «A quanto risulta all’interrogante – è scritto nell’interrogazione – nel padiglione B3 vi sono anche stand di Codogno e delle province di Bergamo e Brescia».
Il 23 gennaio il governo cinese blocca ogni accesso a Wuhan. Il 27 gennaio il WHO diffonde le linee guida per la gestione dei voli civili e innalza ulteriormente il livello di allarme a causa dei timori di pandemia. Nella Relazione del Dis, e nella lettera di Vecchione ai parlamentari, si legge nell’interrogazione, «non vi è alcuna menzione alla grave pandemia in atto». Nonostante, sostiene Ermellino, un possibile allarme che sarebbe arrivato anche dall’intelligence.
Il membro della Commissione difesa del M5S, pochi giorni fa, il 2 aprile, aveva già pubblicato sul suo sito una mail che aveva inoltrato a Vecchione: «Gentile Direttore, essendomi avvicinata per dovere istituzionale, in quanto membro della Commissione Difesa, ai temi di competenza dei sistemi informativi, ho inteso che ricevere un’informazione un’ora prima rispetto a riceverla un’ora dopo, o non riceverla affatto, sia dirimente in merito al mantenimento della carica che occupa il responsabile della formulazione e inoltro di suddetta informazione. Nel documento che ho ricevuto, e con me tutti i membri del Parlamento, non v’è infatti menzione di quanto sta accadendo e che, si presume, stia determinando la fine del mondo come da noi conosciuto».
Dal Dis le era stato risposto che i servizi riferiscono al Copasir e al presidente del Consiglio. Il quale adesso ha questa altra risposta da fornire, stavolta da un membro della Commissione Difesa del Parlamento italiano.
Jacopo Iacoboni La Stampa 16/4/2020
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