Oggi, con il taglio dei parlamentari, siamo davanti a una riforma che sceglie la popolarità e mette in secondo piano la responsabilità

Una riforma che è molto popolare è per forza di cose anche automaticamente giusta? In tempi di crisi della rappresentanza, con gli elettori che si sentono delusi e lontani dalle istituzioni e si rifugiano nell’astensione, incrociare il sentimento prevalente nei cittadini è più che mai indispensabile per i partiti.

Con due avvertenze, però: che quella singola decisione presa sull’onda degli umori popolari non indebolisca il sistema complessivo, ma al contrario ne migliori il funzionamento e l’efficacia; e che non siano le pulsioni del momento a decidere gli interventi da compiere – una riforma non è una lotteria – ma sia la politica a guidare, selezionare e garantire il processo di cambiamento, perché è solo la politica che ha la responsabilità di tutelare il libero gioco tra i poteri dello Stato, tenendo insieme tradizione e innovazione. A maggior ragione quando la riforma tocca la Costituzione.

Oggi, con il taglio dei parlamentari, siamo esattamente davanti a una riforma che sceglie la popolarità e mette in secondo piano la responsabilità. Non c’è alcun dubbio, infatti, che il favore dei cittadini accompagni qualsiasi progetto di diminuzione del numero dei nostri rappresentanti, comunemente considerato troppo alto, anche in relazione ad altri Paesi.

Ma nello stesso tempo è indubitabile che questa misura, da sola, altera il sistema senza preoccuparsi di ricomporlo, come se si potesse intervenire soltanto sulla quantità della presenza parlamentare senza tener conto della qualità di quella funzione fondamentale in qualsiasi sistema democratico. Qualità che nasce – oltre che dalla virtù degli eletti – dall’articolazione dei vari aspetti che danno forma e vita alla rappresentanza.

Cominciamo dunque dai numeri. Seicentotrenta deputati e 315 senatori sono effettivamente molti, in un sistema parlamentare che conta complessivamente 945 eletti dal popolo. Si può quindi discutere sulla riduzione di quei numeri, sapendo però che non nascono dal caso.

Lo Statuto albertino non prevedeva un numero fisso per i deputati e per i senatori, elencando soltanto le 21 categorie che formavano la platea nella quale il sovrano poteva scegliere i membri del Senato del Regno: si trattava di ex ministri, diplomatici, magistrati, ufficiali, accademici e titolari di redditi molto alti, capaci di pagare almeno tremila lire di imposte dirette. Quando nel 1861 nacque la prima Camera elettiva, contava 443 membri, che diventarono 493 pochi anni dopo, quando la capitale fu trasferita a Firenze, e 508 con la presa di Roma. Dopo la prima guerra mondiale si arrivò a quota 535, per fare spazio ai rappresentanti delle “terre redente”. Nel 1928, quando già era venuto meno il principio della rappresentanza sostituito dal corporativismo fascista, si scese a 400.

Nella Costituente, il dibattito riguardò soprattutto la scelta tra monocameralismo e bicameralismo. Scelto quest’ultimo, la prima proposta puntava su una Camera di 300 parlamentari, attraverso un calcolo che prevedeva un deputato-rappresentante ogni 150 mila abitanti. Furono i due partiti di maggiore insediamento popolare, la Dc e il Pci, a chiedere di aumentare il numero dei componenti della Camera, per favorire una relazione più stretta e diretta tra gli eletti e gli elettori. Sulla base di questa considerazione si arrivò così a stabilire un rapporto di un deputato ogni 80 mila abitanti e un senatore ogni 200 mila.

Così nella prima legislatura la Camera fu formata da 574 parlamentari (con 237 eletti al Senato, più 107 membri di diritto), in base alla popolazione dell’epoca: se oggi si applicasse quel criterio costituzionale, l’assemblea di Montecitorio arriverebbe a più di 715 deputati.

Il Parlamento poi intervenne a correggere l’articolo 56 e 57 della Costituzione, abolendo il criterio costituzionale del rapporto tra gli abitanti e gli eletti, per arrivare ad un numero fisso dei rappresentanti, stabilito appunto in 630 per la Camera e 315 per Palazzo Madama, dove siedono i senatori. In questo modo, è cambiato il rapporto di proporzione tra le due Camere, che oggi è di due senatori effettivi ogni quattro deputati, mentre prima era di due a cinq

I numeri hanno dunque una loro logica, che è politica e suggerita dal criterio di rappresentanza, l’unico che dovrebbe interessare i cittadini e di conseguenza i partiti, nella logica della moderna democrazia per cui pochi eletti agiscono in nome di molti cittadini, anzi di tutti.

Non solo: i numeri stabiliti per i parlamentari da eleggere fanno parte di un disegno costituzionale sulla struttura e sulla natura delle due Camere, che riguarda la loro legittimazione attraverso il suffragio elettorale diretto, l’individuazione dell’età minima per esercitare l’elettorato passivo, il criterio di ripartizione dei seggi tra le diverse circoscrizioni territoriali e naturalmente il meccanismo bicamerale.

Intervenire sul solo aspetto numerico amputa il sistema, rendendolo monco, perché il taglio di un terzo dei parlamentari produce un disequilibrio che va al di là delle cifre. Infatti la legge elettorale oggi in vigore non “copre” adeguatamente il nuovo meccanismo in cui si articola la rappresentanza, rischiando di lasciare scoperte alcune aree del Paese.

Bisognerà dunque intervenire mettendo mano alla legge elettorale: e qui viene immediatamente alla luce la discussione tra i sostenitori del maggioritario e quelli del proporzionale, che divide maggioranza e opposizione, ma rischia di aprire una faglia anche all’interno della stessa maggioranza.

C’è poi, soprattutto, un problema culturale, che è immediatamente politico. Pensare ad una riforma equilibrata capace di comporre un nuovo disegno del sistema parlamentare, intervenendo oltre che sul numero degli eletti anche su un bicameralismo troppo “perfetto” e sulla legge elettorale, avrebbe consentito di recuperare efficienza alla democrazia, senza generare scompensi.

Ma Di Maio, in evidente difficoltà dopo lo scontro con Salvini e un’alleanza con il Pd che non è stato capace di motivare sul piano strategico e di prospettiva (a differenza di Grillo), aveva bisogno di uno scalpo da gettare nell’arena dove lo aspettano i suoi oppositori interni, mobilitando l’opinione pubblica del suo partito.

Ha dunque ritagliato da un panorama riformista che non padroneggia la misura populista del “taglio” di deputati e senatori, senza preoccuparsi dei correttivi necessari per riportare in equilibrio il sistema.

Il Pd e i renzisti, sempre contrari a questa riforma mutilata e mutilante, oggi dicono di sì, in nome dell’alleanza di governo, come se questa dovesse girare esclusivamente sul perno qualunquista e anti-istituzionale dei Cinque Stelle, che continuano a produrre antipolitica anche dalle stanze di governo, non essendo in grado di pensare altrimenti.

Siamo così davanti ad un “taglio” dei parlamentari voluto da un partito in stato di necessità populista, e votato da partiti che non credono in questo corto-circuito venduto come riforma.

Non solo: dichiarandosi addirittura “emozionato” per quel “taglio” Di Maio rincara la dose, riducendo una modifica costituzionale (che avrebbe bisogno di un diverso approccio, con un linguaggio, una visione e una responsabilità diversi) a una questione di “poltrone”, come se la rappresentanza fosse un oggetto di lucro, la funzione legislativa un insieme di posti da occupare, e la democrazia con i suoi organismi e le sue procedure si potesse valutare in termini di puro costo.

È la definitiva semplificazione del concetto di rappresentanza, l’appiattimento del ruolo del parlamento su una formula demagogica da gettare in pasto agli istinti dell’elettorato, come già accadde con la “rottamazione”, proclamata non per le politiche, ma per le persone.

Davanti a noi, abbiamo probabilmente il tentativo di introdurre il vincolo di mandato, manomettendo la libertà costituzionale dei parlamentari come rappresentanti della nazione e non di un partito o di un leader, e infine di superare lo stesso principio di rappresentanza in nome dell’ultimo idolo pagano, la democrazia diretta e partecipativa.

Si mette mano alla Costituzione (dovrebbero dirlo i costituzionalisti) in altro modo, si riforma l’istituto parlamentare con un altro metodo, badando alla composizione generale del quadro, non ridisegnando una singola figura senza tener conto dell’insieme.

Ma siamo probabilmente all’alba di una stagione in cui la politica si riduce a spot, necessari a vecchi e nuovi partiti per dimostrare di essere vivi: in nome del popolo, naturalmente.

E infatti la demagogia è proprio questo, l’adulazione del popolo, mentre lo si inganna.

Ezio Mauro       Repubblica  7/10/2019

 

 

Sono uguali a noi: ecco il problema

La quantità dei parlamentari è meno rilevante della loro qualità. Seicento eletti non sono meglio di mille se il loro livello medio è uguale a quello dei mille. Il problema, dunque, è la formazione della classe politica.

Problema che la crisi dei partiti ha elevato al quadrato e l’andazzo demagogico dei nostri tempi ha elevato al cubo, riempiendo la Polis di macchiette poco dignitose, di avventizi incapaci di tutto, di fanfaroni da bar, di bulli da stadio.

Ci si domanda dunque, se si ha un poco di coscienza e anche un poco di amore per la nostra comunità, come ricreare una selezione credibile e funzionale, ovvero una nuova classe dirigente. Una patente per fare politica, visto che serve anche per guidare il tram?

Una vera gavetta e poi una vera carriera, con un minimo di progressione professionale (da consigliere comunale a senatore, con tutte le tappe intermedie), mandando al diavolo certe fisime anti-casta, e anzi formando professionalmente i politici? Una mutazione dei partiti che renda obbligatorio (in cambio dei finanziamenti pubblici) certificare la sanità civica e culturale e magari anche quella mentale del personale a disposizione? Se ne dicono di ogni tipo, non esclusa la richiesta di una patente non solo per gli eletti, ma anche per gli elettori.

Certo che il problema è prima di tutto degli elettori. Fino a che la volontà degli elettori è di farsi rappresentare da persone “come noi”, che “pensano e parlano come noi”, siamo fottuti.

L’idea rivoluzionaria sarebbe decidere che in Parlamento vogliamo mandare chi è migliore di noi, ne sa più di noi, è più capace di noi. Allora sì che le cose cambierebbero, e radicalmente.

Michele Serra     Repubblica 9/10/2019

 

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