No al Pd, sì a Bossi e Bannon: ecco le vere radici del Movimento 5 Stelle. Casaleggio senior ispirò la campagna pro-Brexit e per M5S dettò la linea: mai con i dem. Dopo le accuse e gli arresti al Campidoglio, un libro svela le origini reali del Movimento e la rete sovranista che l’avvolge.

Ce lo vedete il braccio destro di Bannon a lezione da Casaleggio? I pezzi grossi pro-Brexit che volano a Milano per prendere ispirazione in via Morone 6? Grillo che parla di sovranismo nel 2013? Di Maio che dialoga con Savona già nel 2016? Eppure è accaduto. Granelli che spiegano come il Movimento Cinque Stelle che governa con la Lega sia l’esecuzione di una spinta che viene da lontano.

Tutt’altro che un caso: piuttosto, la realizzazione di una convergenza sovranista i cui paletti sono piantati nel network di relazioni internazionali – da Londra alla Cina, dalla Russia agli Usa – intessute negli anni dentro e fuori i centri di potere M5S. Capisaldi che si ritrovano anche, a ritroso, nella storia e nei presupposti della creatura ideata da Gianroberto Casaleggio (con Beppe Grillo) e portata al potere da suo figlio Davide (con Luigi Di Maio).

Il gigantesco esperimento M5S, nel momento in cui entra nelle stanze del potere, si realizza all’interno di una rete invisibile, ma esistente. Insomma: è andata così, ma difficilmente sarebbe potuta andare altrimenti.

È bene tenerlo a mente, tra una miriade di incontri e indizi, tirando il filo tra il principio e la fine. Questi: Gianroberto Casaleggio andava a sentire i comizi di Umberto Bossi quando la Lega ancora non era quasi nulla, negli anni Ottanta, ed era felice di infilare pezzi di programma leghista tra le pieghe dell’Idv di Antonio Di Pietro; alle elezioni del 4 marzo 2018 le prime persone nel mondo che esultano per la vittoria di M5S e Lega – trattandoli già come un vincitore unico – sono state Steve Bannon, Nigel Farage, Marine Le Pen, Julian Assange e il portavoce di Vladimir Putin, Dmitri Peskov.

Così, adesso che Cinque Stelle e Lega si ritrovano fatalmente intrecciati dalla cronaca – con il grillino Marcello De Vito arrestato a Roma nello stesso giorno in cui il Senato votava sul processo a Salvini; adesso che i due partiti della maggioranza trovano i primi punti forti di frizione interna, dal capitolo diritti (vedasi il congresso mondiale delle famiglie) al braccio di ferro sulla Tav; adesso che sul fronte opposto si riaffacciano con l’era zingarettiana gli amici dei Cinque Stelle, e la supposta vena «di sinistra» dei grillini, per capire a che latitudine si muovano davvero conflitti e convergenze soccorre l’interpretazione offerta da Jacopo Iacoboni, cronista della Stampa, nel suo libro “L’Esecuzione” (è in uscita il 28 marzo), che ricostruisce le radici sovraniste del movimento più liquido e frainteso d’Italia, adesso impegnato in un braccio di ferro con la Lega che, lungi da essere una manifestazione di diversità, è «una lotta per la supremazia, perché i due partiti si contendono e rosicchiano lo stesso campo elettorale».

«Noi siamo opposti. Tu vuoi svendere la nostra sovranità. Noi la vogliamo mantenere». È abbastanza impressionante rileggere, oggi, l’assolutamente dimenticata affermazione che Beppe Grillo fece a Matteo Renzi, allora premier incaricato, nello streaming del loro incontro nel lontano febbraio 2014. «Noi siamo i conservatori», diceva il comico genovese, mentre accanto a lui Luigi Di Maio, non ancora capo politico, annuiva convinto.

Prima di Trump, prima di Bannon, prima della Brexit, Grillo parlava di sovranità. Ecco, il garante di M5S, anche se pochissimi lo ricordano, era un propagandista del sovranismo, si direbbe, ante litteram. Al 2013, ricorda Iacoboni, risalgono post di profonda linea politica che di tanto in tanto Casaleggio pubblicava sul blog delle Stelle, come quello del 18 settembre, decisamente anti Euro, che diceva fra l’altro: «Il M5S è l’unico in Parlamento a parlare di sovranità monetaria e di signoraggio».

Erano anni in cui Grillo e Casaleggio si erano avvicinati alle teorie sovraniste della destra radicale italiana, in particolare a quelle di Giacinto Auriti. Ma era anche una questione di clima, e di saperlo fiutare. Una settimana prima, alla Camera dei deputati, la Lega aveva fatto riservare l’aula dei gruppi per un seminario dal titolo “L’Europa alla resa dei conti”, dove c’era già una interessante triangolazione: quella tra il gruppo di Asimmetrie – dove c’erano personaggi chiave come Alberto Bagnai, Luciano Barra Caracciolo, Claudio Borghi Aquilini, Paolo Savona – l’Università di Pescara e un soggetto che poi sarebbe diventato centrale nelle intersezioni Lega-M5S. La Link University dell’ex ministro democristiano Vincenzo Scotti. È verso quell’impasto che viene spinto per tempo il Movimento: la galassia euroscettica, il network sovranista. Una strada che si stringe come un imbuto verso la Lega.

Tra un Casaleggio che già nel 2013 proclamava «mai col Pd» (intervistato da Gianluigi Nuzzi, disse la seguente frase: «Se M5S si alleasse col Pd, uscirei dal Movimento», un testamento esplicito che il figlio ha rispettato), Grillo che parla con Salvini già nel maggio 2014 sull’aereo che lo avrebbe portato a incontrare Farage, e il leader leghista che nel 2016, novellando una antica tradizione berlusconiana, benedice i suoi futuri alleati preannunciando (è la primavera 2016): «Se fossi a Roma o a Torino, voterei per Raggi e Appendino». Tra un Paolo Savona che già nell’estate 2016 è in grado di raccontare, in un hotel di Cagliari, di un lungo colloquio con Di Maio sul tema dell’uscita dall’euro.

E personaggi di raccordo come il palermitano Michele Geraci, capo della Global policy institute di Londra, che insegna finanza a Shanghai, sottosegretario all’Economia scelto dalla Lega, ma con un ottimo rapporto diretto con Grillo: tipico esempio di trait d’union M5S-Lega l’equivalente sul dossier Cina del ruolo incarnato da Savona sull’euroscetticismo. Era lui uno di quelli che suggerivano a Salvini e Di Maio di considerare flat tax e reddito di cittadinanza «due proposte complementari».

Casaleggio porta dunque il Movimento verso quei lidi. E lo fa sia in Italia sia fuori. È nel lontanissimo 2013 che il blog delle stelle intervista Nigel Farage, allora leader dell’Ukip. Un anno e mezzo dopo, alle europee, Gianroberto Casaleggio convocherà i 17 neo europarlamentari nella sede della sua associazione: «Ci annunciò senza tanti giri di parole che avremmo fatto un gruppo con Farage», racconta uno di loro, Marco Zanni. Gli accordi erano già stati avviati, così come i contatti con gli emissari più nazionalisti e anti migranti del mondo conservatore anglosassone – come poi sarà tentato con i gilet gialli. Uno dei momenti chiave, rivela Iacoboni, è l’incontro di Casaleggio con Raheem Kassam, braccio destro nel Regno Unito di Steve Bannon, l’ex senior strategist di Trump e fondatore di Cambridge Analytica. Racconta Kassam: «Nel 2015 Farage e io andammo a incontrare Gianroberto Casaleggio, oggi scomparso. La gente qui pensava che fossimo matti, che stessimo giocando con dei fenomeni marginali. E invece oggi i Cinque Stelle sono al top dei voti».

L’altra figura chiave è Arron Banks, fondatore e presidente di Leave.EU, il principale comitato di sostegno della Brexit. Banks, negli scorsi anni, si è dimostrato in più occasioni interessato all’ascesa e al modello organizzativo dei Cinque Stelle: tanto da raccontare, in una lettera aperta, che «l’amministratore delegato di Leave. EU ha visitato i Cinque Stelle per acquisire una più ampia comprensione della tecnologia che sta dietro al movimento. Siamo stati abbastanza occupati a riprodurre il loro sito web, e l’elemento di democrazia diretta della loro campagna, e anche a esplorare tecnologie di intelligenza artificiale in grande dettaglio». Liz Bilney, all’epoca ceo di Leave.EU, racconta che nel gennaio 2015, fu proprio quel meeting alla Casaleggio a «piantare il seme delle idee» che poi avrebbero portato al successo della campagna social media di Leave.EU per la Brexit.

Quasi a dire che il comitato per l’uscita dalla Ue – che nascerà sei mesi dopo – sia stato concepito proprio alla Casaleggio Associati.

Susanna Turco       L’Espresso  27 marzo 2019



M5S al bivio fra ribelli e burocrati

Pare a volte di risentire, nelle polemiche di questi ultimi giorni, l’eco di antiche controversie dottrinarie sulla liceità o meno di stringere alleanze da parte di partiti o movimenti che si dicono rivoluzionari e si presentano come portatori di un radicale cambio di sistema. Potremmo definirlo «il dilemma dell’integrazione». Sfruttare i propri successi per ricavarsi margini di agibilità politica e spazi di potere dentro le istituzioni vigenti, in condominio con altri soggetti? O puntare direttamente al cuore del sistema per rovesciarlo? O – terza possibilità – seguire la via legalitaria come variante tattica senza mai perdere di vista l’obiettivo finale?

La storia degli ultimi due o tre secoli ci offre in proposito esempi diversi: i giacobini francesi e i comunisti russi imboccarono risolutamente la prima strada; i grandi partiti socialisti europei scelsero, dopo molte incertezze, la seconda; i movimenti totalitari di matrice fascista della prima metà del Novecento percorsero, purtroppo con qualche successo, la terza.

Applicare questo schema di lettura a un’esperienza del tutto anomala come quella del nostro doppio populismo potrebbe sembrare inappropriato. Eppure non è difficile riconoscere nel susseguirsi di baruffe, di punzecchiature, di piccole provocazioni reciproche che agita il mondo pentastellato dinamiche tipiche di un movimento rivoluzionario.

E rivoluzionario il M5S – diversamente dalla Lega che resta sostanzialmente un partito di destra populista – lo è stato davvero. O almeno ha cercato di esserlo, dato che alcuni punti del suo programma (il superamento della democrazia rappresentativa, l’ortodossia ideologica data in appalto a un ente esterno, il superamento degli schieramenti politici tradizionali e parecchio altro) fuoriuscivano, con tratti anche inquietanti, dal quadro istituzionale repubblicano.

Con la vittoria del marzo 2018, il M5S diventò il primo partito italiano e l’azionista di maggioranza di un governo di coalizione con la Lega. Non potendo, per ragioni di equilibri interni, assumere la guida dell’esecutivo, la affidò a un giurista nuovo alla politica. Formó i suoi gruppi parlamentari e occupò le stanze dei ministeri. Si diede un «capo politico» (la parola «segretario» sapeva troppo di partitocrazia) nella persona di Luigi Di Maio.

Mise in secondo piano, pur senza accantonarli del tutto, i rituali del «sacro blog». In altri termini, accettò di essere parte del sistema, rendendosi disponibile, in prospettiva, a nuove alleanze politiche.

Ma dovette affrontare i problemi concreti di un paese in costante emergenza finanziaria, cercando di raccogliere consensi con provvedimenti di spesa e aprendo per questo un duro contenzioso con le autorità europee. Passò poco più di un anno dalle elezioni politiche, e le europee del maggio ’19 certificarono per il Movimento, cannibalizzato da un alleato-nemico libero da impacci ideologici, una drammatica crisi di consensi, che risultarono più o meno dimezzati.

Era qualcosa di più di una semplice sconfitta, per quanto grave. Era il risveglio da un sogno, l’interruzione di una marcia trionfale che avrebbe dovuto in tempi brevi cambiare nel profondo il paese.

Intanto era tornato sulla scena, dopo un lungo viaggio nelle Americhe, Alessandro Di Battista, espressione dell’anima «rivoluzionaria» del Movimento. Veniamo così alle vicende di questi giorni. Di Battista non si è limitato ad attaccare pesantemente Salvini, che ha ricambiato con uguale moneta. Ha criticato, pur avendo cura di ribadire l’amicizia con Di Maio, i vertici del M5S, trattandoli da «burocrati»: il peggior insulto che si possa rivolgere a un rivoluzionario. Ma non ha indicato una qualsiasi alternativa politica agli equilibri attuali.

Del resto, se anche il Movimento decidesse di far cadere il governo, non è detto che riuscirebbe a recuperare i voti perduti nel frattempo. Quanto all’idea di un ritorno allo spirito rivoluzionario, oggi non ha molto senso: resta un sogno, un’icona, una alternativa immaginaria buona solo a mantenere viva una generica spinta al cambiamento.

Giovanni Sabbatucci      La Stampa  24 giugno  2019


 

L’addio polemico di Nugnes. Di Maio vuole le dimissioni. E lei: sei tu che devi lasciare.

«Era ora». Adesso che Paola Nugnes ha sbattuto fragorosamente la porta, i 5 Stelle fanno a gara a mostrarsi contenti che la senatrice ribelle si sia tolta di torno. E il più felice e sollevato, assicurano nello staff del capo politico, è proprio Luigi Di Maio: «Era stufo di sentirla attaccare ogni giorno il Movimento, è un bene che se ne sia andata».

Il vicepremier glielo ha voluto dire di persona con un post acidissimo su Facebook: «Leggo che la senatrice Nugnes vuole lasciare il M5S anche perché reputa la legge che taglia 345 parlamentari, una legge anti democratica. Se si vuole tradire una promessa, bisognerebbe dimettersi non passare al Misto».

Paola Nugnes

Invitata a imboccare la porta di Palazzo Madama per non farvi più ritorno, Nugnes ha risposto per le rime: «E lui che dovrebbe dimettersi». Per la pasionaria delusa, la riforma costituzionale che riduce le poltrone segna una «svolta autoritaria» contro la quale resterà in Parlamento e si batterà come indipendente: «Riduzione del numero degli eletti e del loro stipendio, a fronte di nessuna modifica per i ministeri, significa rafforzare l’esecutivo a scapito del legislativo e della rappresentanza popolare».

E se Di Maio insinua che abbia lasciato perché ostile alla riduzione degli scranni (a cominciare magari dal suo), lei chiarisce che no. Se dopo dieci anni di appassionata militanza ha deciso di andarsene dal Movimento è per l’inversione di rotta su un tema fondante come l’acqua pubblica: «Altro che riduzione dei parlamentari, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’acqua». Ha tenuto duro finché ha potuto, ingoiando un rospo dopo l’altro e sopportando che Di Maio controllasse «ogni aspetto» della vita interna del M5S.

Poi l’architetta di Pozzuoli ha annunciato l’addio: «Non posso rimanere in un Movimento che vota pure il decreto Sicurezza bis, un insieme di norme che, dall’ordine pubblico ai migranti, disegna una società che mai mi sarei augurata di vedere». Norme che Matteo Salvini ritiene fondamentali e lei semplicemente «disgustose».

E adesso? Farà «opposizione politica», eppure spera che il divorzio sia «indolore» e «consensuale». Cosa a dir poco difficile, visto l’astio e il veleno che i colleghi di un tempo le stanno scaraventando addosso. L’unica che le tende una mano è Elena Fattori, che con lei ha condiviso tante battaglie in nome dell’ortodossia: «Io non lascio, ma di Maio si faccia delle domande».

M.Gu.     Il Corriere  24 giugno 2019


 

La Casaleggio ora fa soldi: il fatturato arriva a 2 milioni

Il bilancio 2018 – Nonostante l’aumento dei costi, l’utile è passato da 20.000 a 181.000 euro. Ma i dipendenti restano soltanto 13

L’anno di governo del Movimento 5 Stelle coincide con un sensibile aumento degli affari per la Casaleggio Associati, anche se si tratta di piccoli numeri. Il fatturato, secondo il bilancio del 2018 appena depositato, passa da 1,2 milioni di euro del 2017 a 2 milioni del 2018. Un balzo di oltre il 60 per cento, ma che lascia l’azienda guidata da Davide Casaleggio tra quelle di piccola taglia. I costi per la produzione, in dodici mesi, sono passati da 1,1 milioni a 1,8 milioni, ma l’utile di esercizio risulta in aumento considerevole, da 20.480 euro a 181.473 euro, tutti destinati a riserva. Niente dividendi per gli azionisti.

La nota integrativa spiega a cosa si deve l’andamento positivo nel 2018: “Il risultato è stato raggiunto grazie al consolidamento delle attività di consulenza strategica e di innovazione digitale verso le medie e grandi imprese”. In particolare, “il management ha intensificato e riposizionato l’attività consulenziale verso aree di business in forte espansione specializzandosi sulla ricerca in ambiti quali digital strategy, intelligenza artificiale, blockchain, sistemi di finanziamento dell’innovazione e modelli di integrazione fisica digitale”.

Nei mesi scorsi, il Fatto ha raccontato questa attività di “riposizionamento”, tra convegni, iniziative, consulenze e report sponsorizzati da aziende che vedono nella Casaleggio Associati un ponte verso il governo M5S.

Il report annuale sull’eCommerce in Italia, per esempio, nel 2019 è stato finanziato tra gli altri da varie aziende con contributi tra i 5 e i 10.000 euro. Tra queste, Deliveroo, la multinazionale delle consegne che è impegnata in una trattativa sulle regole del settore con il ministero dello Sviluppo di Luigi Di Maio. Il rapporto sulla Blockchain è stato finanziato da aziende come Consulcesi e Poste (30.000 euro ciascuna).

La Casaleggio si è già adeguata a questo (relativo) salto dimensionale e, si legge nel bilancio, “ha cambiato sede rinnovando gli spazi sempre nel centro di Milano”. Il trasloco è avvenuto a inizio 2018, con l’apertura degli uffici di via Umberto Visconti di Modrone 30, vicino al Duomo. Al vecchio indirizzo è rimasta l’altra creatura di Davide Casaleggio, la Fondazione Rousseau che è ormai l’infrastruttura finanziaria del M5S.

La struttura della Casaleggio Associati resta minima: 13 dipendenti che costano, tutti insieme, 378.000 euro di salari e stipendi, in aumento rispetto ai 259.000 del 2017. Il consiglio di amministrazione ha un costo complessivo analogo a quello di un singolo dirigente Rai, 246.000 euro. Gli amministratori sono quattro: Davide Casaleggio è il presidente, poi ci sono tre consiglieri, Luca Eleuteri, Maurizio Benzi e Marco Maiocchi. Sono tutti e quattro soci, anche se Casaleggio detiene la quota di gran lunga maggioritaria, con il 60 per cento del capitale.

Per il 2019 è previsto “un ulteriore incremento delle attività di consulenza con un focus sulle Smart Company e cioè le imprese che grazie all’impatto della quarta rivoluzione industriale e l’utilizzo strategico delle tecnologie esponenziali riescono a sviluppare nuovi mercati e a essere disruptive nel proprio settore”. Sono in arrivo, inoltre, “nuove partnership” con aziende.

Chissà se queste partnership sopravvivrebbero a una eventuale crisi nella maggioranza che vedesse il Movimento 5 Stelle uscire dall’area di governo.

Stefano Feltri e Carlo Tecce          Il Fatto  21 giugno 2019

 

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