Nella recita per scopi elettorali messa in scena da Salvini e Di Maio non poteva mancare  il 25 aprile. Di Maio sfilerà con l’Anpi; Salvini si proclama estraneo al derby tra comunisti e fascisti evocato da quella data e andrà a Corleone per combattere la mafia.

Che il 25 aprile sia una sorta di sismografo che registra le inquietudini del nostro sistema politico è ormai una realtà assodata. E’ sempre stato così, almeno fin dal 1948, quando la guerra fredda impose la sua logica di contrapposizione tra “blocchi”, cancellando lo slancio unitario della Resistenza e della Costituzione con la scelta di un anticomunismo radicale e assoluto.

Molti degli argomenti che rimbalzano nel “negazionismo” di Salvini erano già molto diffusi ai tempi del centrismo democristiano e si ritrovano con monotona continuità in tutte le posizioni di quella destra italiana che negli anni’90 si era riconosciuta nelle tesi molto popolari di Giampaolo Pansa.

Le novità riguardano proprio il consenso elettorale a cui puntano oggi, mettendone in luce una strumentalità esplicita al cui interno i vecchi cavalli di battaglia del passato vengono consapevolmente riadattati alle esigenze del presente.

Tipico, in questo senso, è il modo di deridere i partigiani, accusati di essere schierati contro l’invasore 70 anni fa e pronti invece, oggi, a spalancare le porte ai nuovi invasori che premono sulle nostre coste. In questo caso, all’antica, paradossale equiparazione tra partigiani e fascisti se ne sostituisce un’altra, ancor più raccapricciante, tra gli agguerriti e armatissimi reparti dell’esercito nazista e i profughi inermi che arrivano da noi su barconi affollati di donne e bambini.

D’altra parte, la retorica “anti 25 aprile” si è sempre nutrita di stereotipi e luoghi comuni; primo tra tutti (ripreso con enfasi da Salvini) che sarebbero stati “i comunisti” ad appropriarsi di quella data, così da snaturarne il significato patriottico e nazionale. Ora, se ci si riferisce ai gruppi extraparlamentari degli anni ’70, questo è senz’altro vero: “La resistenza è rossa non è democristiana”, si gridava nelle piazze.

Ma quello slogan era scandito proprio contro “i comunisti”, contro quel Pci che aveva fatto della “Resistenza tricolore” la sua bandiera, smarrito nella sua ossessione unitaria e affascinato dalla permanente tentazione di allearsi con la Dc. Oggi, quando peraltro i comunisti non ci sono più, rispolverare argomenti di quel tipo tradisce un atteggiamento che non c’entra solo con il 25 aprile.

Salvini si propone di rispecchiare gli umori profondi di un Paese incattivito, livido, insofferente nei confronti dell’Anpi e dei partigiani e soprattutto nei confronti dei valori fondanti dell’antifascismo: la libertà, certo, ma anche una democrazia inclusiva e un welfare declinato all’insegna della solidarietà per gli emarginati.

Lo fa, forte di una egemonia culturale basata su un passato reinterpretato strumentalmente, senza spessore, in una prospettiva in cui gli unici elementi del tempo tenuti in considerazione sono quelli effimeri e brevissimi delle sfide elettorali. Un tempo in questo caso ossessivamente legato a un presente tirannicamente padrone, che annulla ogni tipo di storicità e si fonda sull’immediatezza delle percezioni.

Un presente che rifiuta la complessità dell’argomentazione storiografica, incardinandosi intorno a bisogni esistenziali (la ricerca di rassicurazioni e conferme, il tentativo di cancellare angosce e paure) o a curiosità effimere da soddisfare subito, con le modalità “usa e getta” tipiche di ogni altro genere di consumo.

Giovanni De Luna, storico     La Stampa  24/4/2019

 

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