La gente ha paura. La gente ha paura degli autobus. Si incendiano. Oppure non arrivano. La gente ha paura delle scale mobili della metropolitana. I gradini sono pericolosi per le gambe. La gente ha paura delle banche: chi ha detto che i soldi lì siano al sicuro? La gente ha paura degli alberi. Durante le tempeste cadono. La gente ha paura delle case. Cadono i cornicioni. La gente ha paura delle scuole. La caduta dei controsoffitti è frequente, i gradini delle vecchie scale senza manutenzione si spezzano.

Nella grande quantità di case che dipendono da un ente, la gente ha paura dell’ascensore. Si ferma e resta fermo per sempre. La gente ha paura degli ospedali. Malati gravi seduti o per terra aspettano per ore. La gente ha paura di discussioni continue su stipendi e pensioni, mentre girano le parole “sforbiciare”, “spendere meno” (meno di cosa?) e “non c’è copertura”. La gente ha paura dell’isolamento: persino negli uffici statali devi andarci in rete e non hai una faccia davanti con cui sfogarti o confidarti o chiedere aiuto.

La gente ha paura dei vaccini, anche se gli esperti del mondo rassicurano. La gente giura che esiste una sola famiglia e ha paura di chi vive in un altro modo, si vuole bene in un altro modo: dicono che mette in pericolo la loro famiglia, anche se, in quella famiglia unica e giusta, l’uomo di casa è manesco.

La gente ha paura di andare in fabbrica e di non trovarla, al mattino, macchinari e dirigenti delocalizzati in una notte. La gente ha paura dei ladri e delle rapine in casa. Lo dimostra l’emergenza creata dal permesso, e anzi dalla esortazione, a sparare in casa. Ti dicono che l’importante è avere un’arma. La gente ha paura degli estranei, dei mai visti, degli “stranieri”. Devono essere pericolosi se il governo chiude i porti di un Paese come l’Italia e lascia in mare, anche in caso di tempesta, anche se ci sono donne e bambini, le persone che vogliono sbarcare.

La gente ha paura dei rom perché ha visto che anche le autorità hanno paura dei rom, tanto che un “campo nomadi” si abbatte e si sposta di notte (la metà sono bambini): si fa con le ruspe, e a volte vengono i soldati a dare una mano a carabinieri e polizia. Poi sapete quel che succede se i rom arrivano altrove, dovunque…

Il pane calpestato dai dimostranti anti rom di Torre Maura

Ma prima di parlare di quel che succede, è necessario ricordare una leggenda metropolitana che è diventata parola d’ordine e fede assoluta di chi, a causa del cumulo di paure (elenco parziale) appena indicate, sente il bisogno di vendicarsi. La leggenda, diventata fede fortissima, è questa: i miei soldi, i miei aiuti, le mie soluzioni, la mia possibilità di uscire dalla paura (dalla banca truffaldina al rapinatore, dall’invasione degli stranieri ai trasporti, alle scuole, alla case abbandonate all’incuria di cui io patisco), tutto ciò è stato tolto a me e dato a questi altri che non sono neanche italiani.

Qualunque padre di famiglia e qualunque madre urlante dovrebbero sapere (c’è stato tempo per imparare) che nessuno ti ha tolto niente perché nessuno ti ha dato niente. E che quando anche tutti i rom e tutti gli “stranieri” che ingombrano la tua vita (come è accaduto nella brutta fiaba del sindaco di Riace, cacciato perché aiutava) fossero miracolosamente o violentemente spariti, non un euro arriverebbe nelle case di chi insulta e respinge i presunti ladri di risorse italiane.

Noi (Italia) abbiamo un debito immenso che riduce ogni speranza per il futuro. Ma se anche potesse realizzarsi la follia pericolosa e squilibrante della cacciata di tutti gli “stranieri” (compresi i rom, che sono pochissimi e quasi tutti italiani) non si creerebbe alcun fondo a beneficio di coloro che in questi giorni spaventosi hanno negato e distrutto il pane a una comunità di persone ritenute ladre del loro benessere.

Guardando le immagini in televisione e in rete, era evidente che la gente di Torre Maura gridava (ciascuno in solitaria) una sua estrema disperazione personale per il modo in cui la vita (dunque tanti governi e tante amministrazioni locali) l’aveva abbandonata.

E infatti la comparsa da fiaba del bambino saggio, Simone, che vede le cose come sono e lo dice, in modo che è impossibile confutarlo, ha comunque cambiato quella terribile sequenza. Giustamente Simone, persuaso e tranquillo, ha parlato ai fascisti. Non è un giudizio politico. Ha sentito da dove viene il fiato di morte che stava esaltando ed esasperando la piazza. E ha detto che lui abita lì e non gli sta bene che i più forti tormentino i più poveri e i più deboli. Molti delle generazioni più anziane dicono spesso che per capire il fascismo bisognava esserci. Non è vero.

Simone, a 15 anni, ha capito tutto. Le sue poche parole hanno descritto il fascismo, e spiegato l’intontimento di quella folla istigata, meglio di tanti libri.

Furio Colombo       Il Fatto   7 Aprile 2019

 

 

La regressione culturale a Torre Maura

Esiste una soglia, una linea di confine oltre la quale all’uomo può accadere di regredire al livello bestiale. Non si tratta di una soglia metaforica quanto piuttosto di un perimetro urbano, oltre il quale, coloro che sono costretti a dimorarvi si sentono autorizzati a dismettere le proprie inclinazioni umane in favore di una lotta primitiva per la sopravvivenza.

A Roma, la borgata di Torre Maura sembra collocarsi al di là di quel confine, ed è a questa semplice considerazione geografica che è imputabile buona parte della guerriglia urbana a cui abbiamo assistito in questi giorni. La folla di quei residenti che è insorta di fronte all’arrivo di 77 rom in un centro d’accoglienza – presidiando l’ingresso della struttura con mazze da baseball, minacciando i nuovi venuti con frasi come “Scimmie, vi bruciamo vivi”, dando alle fiamme auto e cassonetti – ha agito scegliendo di ritrasformarsi in branco e di rescindere il contratto sociale.

Il contratto sociale, ricordate? Quell’obsoleto istituto in base al quale tutti gli individui rinunciano ad alcuni diritti naturali, stringendo tra loro un patto con cui scelgono di trasferirli a qualcuno di terzo (lo Stato nella fattispecie e, di conseguenza, la politica) affinché costui garantisca la pace nella società e la possibilità di una convivenza civile.

Ecco, a Torre Maura, così come in tante altre periferie del Paese, il contratto sociale è stato disatteso, perché l’esperienza che il quartiere ha introiettato in tutti questi anni – anni, non mesi, non giorni, questi sono processi che richiedono tempo – è che quel soggetto terzo chiamato a fare da garante al patto non c’è o se c’è è talmente impalpabile e inaffidabile che è come se non ci fosse; e allora tanto vale riappropriarsi di quei diritti inutilmente ceduti a chi non ha saputo custodirli, per tornare al “Bellum omnium contra omnes”, quella guerra di tutti contro tutti con cui Thomas Hobbes tratteggia lo stato di natura.

In questo processo d’involuzione culturale, le istituzioni politiche, le loro promesse, da qualunque parte vengano, lasciano il tempo che trovano: il pulpito ha perduto del tutto la sua autorevolezza. E non è certo l’arrivo di qualche decina di rom, magari sì maldestramente gestito dal Campidoglio per mancanza di preavviso e sovraccarico della zona ma nulla più, ad aver ex abrupto risvegliato questi istinti primordiali di difesa del territorio.

Ciò che ha mosso i comportamenti rabbiosi di coloro che hanno aggredito il gruppo dei nuovi arrivati in via dei Codirossoni non è altro che la lotta per la sopravvivenza della specie. In quest’ottica l’epiteto “scimmie”, più e più volte utilizzato per apostrofare i rom, si spinge oltre la cornice interpretativa del razzismo, con cui in molti hanno catalogato il comportamento dei residenti, ma diventa un modo grezzo di nominare l’alterità di una specie diversa, che in quanto tale va combattuta e allontanata.

Di fronte a una mutazione culturale di tale portata, i piccoli gesti della politica diventano completamente insignificanti: finché un interlocutore non tornerà a essere sufficientemente credibile da riuscire a stipulare nuovamente un patto sociale che permetta alla gente di affidarsi a lui e che faccia smettere i singoli individui di sentirsi tanto in diritto quanto in dovere di ergersi in difesa d’istanze darwiniane bizzarramente rivisitate, qualsiasi progetto d’integrazione o di evoluzione culturale non può che restare una chimera.

Veronica Gentili        Il Fatto   6 aprile 2019

 

 

Torre Maura e la prepotenza che toglie il pane ai deboli

Che schifo immenso, caro Coen, quel gesto a Torre Maura. I lettori di questa rubrica hanno visto la scena dei fascisti che calpestavano il pane destinato ai rom. Donne, vecchi e bambini compresi. Lo slogan era “dovete morì de fame. Prima gli italiani”. Quella vomitevole azione è il simbolo di una ideologia (Leonardo, non sono morte le ideologie, quelle della malvagità fatta politica hanno nomi precisi) che odia i poveri fino a negare loro l’essenziale. Il pane.

Tutto si giustifica davanti ai microfoni di una tv. La decisione di un sindaco che in nome delle “regole” nega la mensa scolastica ad un bambina che ha un unico torto, la povertà della sua famiglia. Il divieto di sbarco a poche decine di affamati provenienti dall’Africa e stipati sulla nave che li ha soccorsi. Si battono il petto in chiesa i fascisti, difendono la famiglia tradizionale contro gay, coppie di fatto, “irregolari” di vario tipo, ma contro gli ultimi sono spietati.

Perché non sanno cos’è la famiglia, Non riescono a capire che il Pane è da secoli uno dei pilastri che la reggono. Il pane è condivisione e solidarietà, dividemmo il pane che non avevamo. Il pane è vita e poesia. Religiosità.

Nel suo primo romanzo, “Il sogno di una cosa”, Pasolini ricordava le donne friulane che in chiesa cantavano “del vivo pan del ciel gran sacramento”. Il pane è miseria e dignità nella narrazione dei zolfatari siciliani di Sciascia, mangiavano “pane e coltello”. Corrado Alvaro diceva che “a volte i sassi hanno la forma del pane”. E Vito Teti, antropologo che ama viaggiare tra i mille significati del cibo dei poveri, ricorda la mamma dello scrittore di San Luca che “punta la pagnotta contro il suo tenero seno…”, “taglia il pane con misericordia, come se in quel momento avesse pietà di tutto il mondo senza pane”.

I fascisti che sono andati nella dolente periferia romana a schiacciare il pane sotto i loro scarponi chiodati sono senza misericordia. Non provano pietà del “mondo senza pane”.

Enrico Fierro         Il Fatto   15 Aprile 2019

 

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La sottocultura dell'odio è ancora fertile

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L’educazione civica all’odio



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