Corrado Stajano torna nei luoghi delle radici (il padre siciliano, la madre lombarda) e i fantasmi dell’infanzia si mescolano al tempo presente.

«Non voglio ricordare e sembra invece una condanna la memoria che si appiccica ovunque». confessa  Corrado Stajano nel suo diario di fine secolo. Un corpo a corpo con le proprie divaricate radici (il padre siciliano, la madre lombarda), «patrie smarrite» difficilmente ricomponibili anche in questo suggestivo nostos. Ritornato nei luoghi aviti per liquidarvi le residue proprietà di famiglia, lo scrittore si ritrova risucchiato in una spirale straniante, nella quale i fantasmi dell’infanzia e della prima giovinezza si sovrappongono all’Italia del tempo presente.

Prima tappa del viaggio, la Noto paterna. Da piccolo vi giungeva all’inizio dell’estate, terminate le scuole, e ogni volta i colori infuocati gli odori asprigni, le urla mai trattenute di uomini e donne gli svelavano l’incolmabile distanza dalla placida e natia Cremona. Ora, più di mezzo secolo dopo, la Sicilia sembrerebbe ancora la landa arcaica e sdegnosa conosciuta da ragazzino, non fosse perla «repellente crosta di cemento e di asfalto» (Antonio Cederna) che anche qui ha ricoperto borghi e coste: «Se avessero visto la Noto Marina com’è oggi, forse gli inglesi sarebbero rimasti al largo».

L’Operazione Husky, ossia lo sbarco degli Alleati nel luglio ’43, è il prisma che riflette l’anima profonda e insanabile dell’isola. Stajano scova il diario manoscritto del bibliotecario di Noto, Domenico Russo, il quale registrò con sarcasmo le manifestazioni di giubilo dei concittadini all’arrivo delle truppe straniere: «Quanti si facevano notare come fascisti ferventi, hanno subito cambiato casacca e con vergognosa viltà si fanno in quattro per strombazzare che sono stati sempre nell’animo contrari al fascismo e al suo capo. Oh,viltà umana!».

Affioravano in quel cruciale passaggio storico caratteri ancor oggi trionfanti all’ombra dell’Etna: il fatalismo, il gusto per l’ambiguità, il disdegno del bene collettivo. Eppure, conclude Stajano vagabondando fra le splendide architetture barocche di Noto, «come riuscire a sottrarsi al fascino della Sicilia, al calore e alla fantasia di una città morente e ritrovata dove nacque tuo padre ed è nata anche una parte di te stesso?».

Se dal caos primordiale dell’isola riarsa ci spostiamo tra i filari della piatta e nebbiosa Padania, ci attenderemmo un mondo non solo più prospero e ordinato, ma anche più civile. E tuttavia, quando lo scrittore approda nella sonnolenta Cremona, per sgomberare la casa materna dopo la morte della sorella, s’imbatte in un convitato di pietra particolarmente inquietante: Roberto Farinacci, squadrista agrario, ras locale, segretario del PNF nel ’25- 26, esponente di punta del radicalismo fascista, antìsemita ben prima delle leggi “razziali”, fautore sin dal ’36 dell’alleanza con la Germania, fucilato dai partigiani dopo la Liberazione mentre cercava di fuggire in Svizzera abbandonando la ridotta cremonese, «culla del razzismo» e teatro di deportazione dì ebrei.

Si chiede Stajano:« Com’è potuto accadere che una serena comunità, non incline alla violenza, un passato colto, una storia politica ricca di conquiste sociali, una classe dirigente non mediocre, si sia ciecamente affidata per più di vent’anni a un oltranzista straccione e volgare che l’ha modellata a sua somiglianza?». È il tema, irritante, della borghesia moderata genuflessasi dinnanzi al duce.

Allargando il campo, lo scrittore esplora i siti sanguinanti (il palazzo della Prefettura, dove nella notte del 27 ottobre ’22, vigilia della marcia su Roma, suo padre – capitano di fanteria – ordinò di reprimere con le armi un assalto fascista, provocando 4 morti e una ventina di feriti), disseppellisce le carte di polizia (per resuscitare i popolani sorpresi, nella lunga note littoria, a cantare canzoni anarchiche o socialiste), incontra gli ultimi testimoni del «feudo nero» di Farinacci.

Ma avverte ovunque solo un anelito all’oblio. Non c’è mai un lieto fine nei libri di Stajano (neanche in questo uscito per Garzanti nel 2001 e riproposto dal Saggiatore). Nessuna ansia taumaturgica anima la sua penna, semmai il dovere quasi fisiologico di solcare la profondità dell’abisso, isolando i rari lampi nel buio, senza però enfatizzarli

Al termine di questo viaggio, Nord e Sud rispecchiano due facce della stessa medaglia: quella di un Paese immemore e slabbrato, fondato sulla prescrizione, «che non è l’assoluzione, ma soltanto il passare del tempo senza che sia stata fatta giustizia».

Raffaele Liucci      Il Sole 24 ore Domenica,  25 febbraio 2018

 

Il libro:  Corrado Stajano,  Patrie smarrite. Racconto di un italiano,  ed.  Il Saggiatore 2018

 

Vedi:  "L'Italia non ha mai chiesto scusa alla sua Africa"

Stajano, vivere nella patria smarrita.

La memoria riesumata del presente


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