In Italia, a milioni vivono di lavoro intellettuale e creativo. Anche per questo l’autonomia di giudizio muore, dice Goffredo Fofi. Che nell’ultimo libro ne ha un po’ per tutti.

 

Nell’antropologia mediterraneo-terminale di Ciprì  e Maresco, l’uomo è notoriamente ridotto a una creatura seminuda, primitiva anche se post-tutto. Invece di pelli o fogliame indossa canotta e mutande, quasi sempre slip bianchi, mocassini con calzini corti. Non ha la nobiltà del sopravvissuto né la stralunata poesia di ciechi e mutilati beckettiani: pur rimasto tutto intero, è un torsolo, un residuo, uno scarto senza rimedio. Così lo rivediamo trascinarsi sulla copertina dell’ultimo libro di Goffredo Fofi che si intitola Il cinema del no  (Eleuthera edizioni) e ripercorrendo le traiettorie di cineasti radicali a lui cari – Vigo, Buñuel, Bresson, Rocha, Fassbinder, Kaurismäki, lo stesso Maresco… – le mette a confronto con le siccità di un presente non si sa se più cinico o più baro. Vi ricordate gli intellettuali?

Beh, non sono scomparsi, ma si sono mostrificati come in un film di Cronenberg:  «Oggi figurano essere quasi esclusivamente giornalisti e professori, divi dei media imbonitori di se stessi, membri di un’istituzione come l’università che è certamente più mafiosa della mafia, membri delle corporazioni professionali dominanti… critici che non criticano, uffici stampa e propaganda, ciarlatani e narcisi immensamente innamorati di sé; denunciatori e ricattatori professionali – ciascuno per sé e per il proprio clan in un attento gioco di alleanze variabili e opportune».

Gangster, lumpen, truffatori, papponi e puttane: nella descrizione di Fofi l’industria culturale del XXI secolo assomiglia a un sordido universo brechtiano. Che in una dimensione a tal punto economicizzata ogni concetto di critica sia andato a farsi friggere è poco più di uno scontato corollario. Come tutte le altre merci, anche quelle culturali non vanno discusse, ma innanzitutto vendute.

Chi dovrebbe giudicarle non lo fa, o lo fa sempre meno, perché è sempre più incorporato nella loro produzione. E non si morde la mano che ti dà il becchime. Intendiamoci: la proletarizzazione dell’intellettuale non è nata oggi, ma secondo Fofi ha ormai assunto proporzioni smisurate: «Nessuno ha mai studiato quest’aspetto, il che mi scandalizza, ma in Italia quanti siamo a vivere di cultura?». Bella domanda. «Da alcune ricerche risulta che 413 mila persone, nel 2014, erano occupate ufficialmente, cioè assunte, in festival, editoria, cinema, teatro, musica. Ma il dato non include i precari, le attività occasionali, i dipendenti degli assessorati, le associazioni, la scuola, la pubblicità, i media, internet… Se li mettiamo tutti insieme arriviamo a diversi milioni di persone. Quella culturale non è un’economia in crisi».

Perché?
«Perché in Occidente i Poteri hanno capito di aver sempre più bisogno di intellettuali. Ormai anche con la cultura si governa. Parlo di una cultura intesa come manipolazione del consenso, comunicazione, spettacolo, rimbambimento più o meno sofisticato. In un prossimo libro vorrei analizzare la cultura, questa cultura, come nuovo oppio del popolo».

E la critica in tutto ciò?
«Si è trovata stritolata tra un’università dove le opere vengono dissezionate come cadaveri e un giornalismo dominato dalla semplice informazione pubblicitaria. Il francese Serge Daney diceva: Compito del critico è scrivere una lettera al pubblico perché la legga l’autore. Si potrebbe riformulare anche: Una lettera all’autore perché la legga il pubblico. In ogni caso c’è una triangolazione. Che oggi è saltata. Restano solo il pubblico e il mercato. Nessuno in mezzo. Più nessuna mediazione».

Eppure sul web le critiche impazzano.
«La rete è piena di gente che pensa: Dico la mia quindi esisto. Invece quando tutti dicono la propria non esiste più nessuno».

Nell’Otto-Novecento, il saggio critico ha potuto rivendicare titoli di nobiltà artistica. D’altra parte era l’arte stessa ad assegnarsi un ruolo combattente. Nel libro si ricorda ad esempio che per un’Elsa Morante «l’artista era il San Giorgio che deve liberare la città dal Drago dell’irrealtà». Eroico.
«Più che eroica era una concezione quasi religiosa. Almeno in certi momenti storici, arte e religione hanno avuto molto in comune: l’idea di dire o cercare di dire cose sull’umano che la società, la politica, l’organizzazione civile, non sono in grado di dire. Ma che la funzione dell’artista o dell’intellettuale fosse quella di difendere il vero, il giusto e, di conseguenza, il bello, lo pensavano pure i Carmelo Bene, i Fellini, gli Antonioni, gli Sciascia, i Calvino. Magari in forme più caute, autoironiche, però era anche la loro visione».

Mentre oggi solo una brodaglia di patetici egolatri? Andiamo…
«Con moltissimi giovani mi trovo estremamente a disagio: si presentano come iperindividualisti, ma un mondo fatto solo di iperindividualisti è di un conformismo bestiale! Scrivono, ballano, recitano, dipingono, filmano, fanno fumetti e organizzano festival con la convinzione che basti esprimersi, che la cultura sia il sostituto della politica, dell’intervento. In realtà l’Italia è piena di minoranze sveglie, intelligenze, gente che pensa bene, ma non fa un cazzo. Sono talmente vecchio che sull’inutilità del pensiero senza azione mi ritrovo a citare addirittura Mazzini. E me ne vergogno un po’».

Ma che diamine dovrebbero fare?
«Si pensi solo a quanta gente nel Novecento si riuniva per scrivere manifesti, ridefinire il concetto di arte rispetto al tempo. Oggi ce non ce ne sarebbe bisogno? Però nessuno lo fa».

Nel libro torna a far fuoco su Moretti, Verdone, Benigni. Apprezza, ma con riserve, Garrone, Martone, Saverio Costanzo. E scommette su Pietro Marcello, Michelangelo Frammartino, Roberto Minervini, Alice Rohrwacher… La accusano di salvare solo film austeri e monacali. Ostinatamente marginali…
«Nella marginalità trovi una marea di robaccia narcisistica ma anche novità vere. Certo, la logica minoritaria è anche lei un problema: un tempo eravamo in tanti a credere che non fosse fine a se stessa e potesse smuovere le cose. Adesso non ci crede più nessuno. Tra chi non cerca il successo, la marginalità è spesso accettata e magari pure un po’ compiaciuta».

Molti cineasti radicali del Novecento li considera anarchici secondo la definizione che dell’anarchia dava il teorico libertario Colin Ward: «È una forma di disperazione creativa». Ora, creativo è oggi parola dal pessimo odore. Ma la disperazione? Bisogna ripartire da lì?
«Senza cedere al nichilismo, però sì, ripartire da una constatazione di disastro. In questo senso, qualcosa della vecchia tradizione marxista la rivendico».

Cosa?
«L’idea che il capitale divora continuamente se stesso, che i figli divorano i loro padri. Steve Jobs ammazza Henry Ford e poi qualcun altro si prepara ad ammazzare Steve Jobs e così via. Un sistema cannibalico. Un mondo di cavallette in lotta per l’esistenza a stadi molto primari».

Un signore da poco scomparso l’avrebbe bollata come apocalittico.
«In certi periodi, di Umberto Eco sono stato anche amico. Aveva i suoi talenti. Ma per lui questo è sempre stato il migliore dei mondi possibili. Non l’ha mai messo in dubbio».

Marco Cicala       Venerdì di Repubblica  1/4/2016

 

Il  libro:  Goffredo Fofi,  Il cinema del no. Visioni anarchiche del cinema e della vita,   ed. Elèuthera 2015,  € 10,00

 

vedi:  Giornalisti Pupazzetti del potere

Le prigioni immateriali del consenso

Lo storytelling e le balle seriali

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