A settanta anni dal 1943 questo 25 aprile serve per una riflessione e un bilancio. Allora tutto cominciò con una scelta. Quando l’8 settembre crollò lo Stato, tutti furono lasciati soli con la propria coscienza. Di colpo le istituzioni scomparvero togliendo a ognuno protezione e sicurezza; nel marasma delle fughe del re, dell’ignavia dei generali, della protervia dei nazisti, ognuno fu costretto a riappropriarsi di quella pienezza della sovranità individuale alla quale si rinuncia ogni volta che si sottoscrive un patto di cittadinanza che preveda uno scambio tra diritti e doveri, libertà e regole, autonomia personale e legami sociali. Dopo l’8 settembre 1943, nello scenario comune di un’esistenza collettiva segnata dalla paura, dalla fame, dall’incubo delle bombe e della morte, non tutti però reagirono allo stesso modo.

Gli operai, ad esempio, vissero quella fase all’insegna di un esplicito protagonismo collettivo, riappropriandosi dell’arma dello sciopero e della fabbrica come centro di organizzazione politica. Fu così anche per le donne; in una guerra «al femminile», uscirono dai gusci degli interni domestici, sostituendosi ai mariti, ai padri e ai fratelli (lontani a combattere e chiusi in casa per sfuggire alle rappresaglie e ai rastrellamenti) per garantire la sopravvivenza della famiglia.

Altri soggetti collettivi, i ceti medi, precipitarono invece in una sorta di stupefatta rassegnazione, aspettando e sospirando che tutto finisse. A queste scelte se ne intrecciarono tantissime altre, individuali, in un mosaico difficile da ricomporre in un quadro unitario.

L’ebbrezza di reimpadronirsi del proprio destino («Nel momento in cui partì, si sentì investito in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava il vento e la terra») è quella che ci viene restituito dal partigiano Johnny, quando decide di andare in montagna.

È così anche nel caso dei partigiani di Giustizia e Libertà, Giorgio Agosti («Questa lotta, proprio per questa sua nudità, per questo suo assoluto disinteresse, mi piace. Se ne usciremo vivi, ne usciremo migliori; se ci resteremo, sentiremo di aver lavato troppi anni di compromesso e di ignavia, di aver vissuto almeno qualche mese secondo un preciso imperativo morale») e Dante Livido Bianco: «Nella mia vita, c’è stata una grande vacanza: ed è stato il partigianato, venti mesi di virile giovinezza, sradicato davvero, e staccato da ogni vecchia cosa».

Riprendendo da una delle più belle pagine di un romanzo di Italo Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno), le parole del suo partigiano Kim («basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte ») molte di quelle scelte sono state interpretate quasi come se i percorsi di approdo alla Resistenza o alla Repubblica di Salò siano più da vittime del «capriccio» del Destino o di Dio che da uomini consapevoli. In realtà per Calvino, quel «nulla» «era in grado di generare un abisso». Il «furore» della guerra civile coinvolgeva entrambi gli schieramenti, ma «da noi, dai partigiani, niente va perduto, nessun gesto, nessun sparo, pure uguale a loro, va perduto. Tutto servirà, se non a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire una umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi».

Certo che nella Resistenza confluiscono decisioni occasionali, opportunismi esistenziali, desideri di avventura adolescenziali. Ma certamente scegliere di andare in montagna a combattere fu un gesto che risalta con nettezza soprattutto se confrontato con quelli di chi, come ha scritto Claudio Pavone, «fece il possibile per sottrarsi alla responsabilità di una scelta o almeno cercò di circoscriverne confini e significati, avallando di fatto la continuità delle istituzioni esistenti e accettando insieme che il vuoto venisse riempito dal più forte» e che sottolinea un dato di fatto: né durante le guerre di indipendenza, né al momento dell’intervento nella guerra 1915-1918, né in nessuna altra fase della nostra vita nazionale unitaria l’Italia ha potuto mobilitare tanta passione civica, impegno diretto di partecipazione e un tal numero di combattenti volontari come nella lotta partigiana. (Isnenghi).

Puntualmente, il revisionismo degli anni ’90, accentuando l’importanza della «zona grigia», enfatizzando i comportamenti di quelli che rifiutarono di schierarsi da una parte o dall’altra (Rocco Buttiglione propose allora, come espressione dei veri italiani, il vescovo, defensor civitatis, che svolgeva la sua opera pastorale con assoluta equidistanza tra fascisti e antifascisti) si scatenò contro l’antifascismo, nel tentativo esplicito di delegittimare proprio la «scelta» come regola di comportamento morale, sia individuale che collettiva. Gli eventi più recenti legati all’elezione del presidente della Repubblica suggeriscono che il tempo delle «scelte» possa essere definitivamente tramontato.

Proprio per questo, però, perpetuare il ricordo della Resistenza significa ritrovare la stessa scintilla che scattò allora in quanti oggi, senza lasciarsi travolgere dal crollo dei partiti e dall’implosione delle forme dell’agire collettivo, mettono in atto scelte altrettanto consapevoli, violando deliberatamente le regole del conformismo e del compiacimento, in chi si avventura nei luoghi dell’emarginazione e della sconfitta, in chi sfida il male anche nel silenzio delle istituzioni.

Giovanni De Luna       il manifesto  25 aprile 2013


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La defascistizzazione mancata

M5S-PD, accordo possibile o accordo suicida?

Non è l'Italia sognata dai partigiani.


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