TRA GESUITISMO E PAUPERISMO:
LA SCELTA DEI CARDINALI CADE SU BERGOGLIO

Non va sottovalutata la potenziale portata della scelta di un papa latinoamericano, di un gesuita che ha scelto uno stile di vita semplice ed austero, quasi monacale. Così come, al di là delle intenzioni contingenti che hanno determinato questa scelta (cui potrebbe non essere estraneo anche la volontà di compiacere con poco sforzo e sicuro risultato le masse cattoliche) non va sottovalutata la scelta del nome di Francesco; la presentazione dallo stile dimesso e familiare fatta da José Mario Bergoglio dal balcone di piazza san Pietro, l’inchino di fronte alla folla venuta a salutarlo, prima di impartire la propria benedizione (senza però spingersi tanto in là da chiedere che fosse quel “popolo” a benedirlo; Bergoglio si è limitato infatti a chiedere ai fedeli di pregare affinché Dio facesse scendere sul papa la sua benedizione, prima che il papa impartisse la sua, Urbi et Orbi); la sottolineatura del suo essere semplicemente il «vescovo di Roma», piuttosto che «vicario di Gesù Cristo», o «Sommo pontefice della Chiesa universale». Così come non vanno sottovalutati i primi atti di papa Francesco: la rinuncia alla Mercedes, la scelta di pagare l’albergo dove aveva soggiornato prima del Conclave, la decisione di non incontrare il card. Bernard Law (il prelato accusato di aver coperto molti preti pedofili quando era arcivescovo di Boston) durante la sua visita alla Basilica di S. Maria Maggiore. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di essere percepiti come quelli che colgono sempre gli aspetti negativi, i bastian contrari per definizione, gli scettici di qualsiasi riforma, i critici di qualsiasi scelta.

E però, proprio per l’unanime e dirompente coro di ovazioni che si è levato all’elezione al soglio pontificio di Bergoglio, il dovere di una informazione che non si conforma all’onda emotiva – più comprensibile peraltro all’interno del mondo cattolico, che tra i commentatori, gli osservatori, i maître à penser della stampa laica o progressista – ma che cerca di entrare nelle pieghe, nelle contraddizioni, negli aspetti meno visibili (e spesso quindi più rilevanti) degli eventi, dei fatti di cronaca, delle vicende ecclesiali, è ancora più cogente. Anche perché il rischio opposto, quello di amplificare la portata innovatrice della scelta di un pontefice, delle sue prime parole, degli aspetti simbolici della sua presentazione ai fedeli riuniti in piazza San Pietro, può condurre a fraintendimenti ancora più gravidi di conseguenze negative rispetto alla semplice accusa di settarismo. Successe ad esempio – anche nella sinistra ecclesiale – ai tanti che sottolinearono come dirompente la scelta di Joseph Ratzinger da parte del Conclave riunito nel 2005. «Questo papa vi sorprenderà», profetizzarono in molti. Ma in molti, mese dopo mese, atto dopo atto, nomina dopo nomina, dovettero ricredersi di fronte ad un pontificato che non realizzò nulla di quanto promesso (primo fra tutti la riforma della Curia e la lotta al carrierismo); e che anzi restaurò gran parte di un passato che si credeva archiviato per sempre dalla storia; dovendo poi peraltro battere in ritirata di fronte agli scandali al cospetto dei quali non si aveva avuto la forza o la possibilità di agire.

 Va poi aggiunto che è difficile, seppure certamente non impossibile, che un sistema gerarchico, statico, autoreferenziale come quello che da secoli governa la Chiesa si autoriformi. Ancora di più se il Conclave da cui è uscito il nuovo papa è composto da cardinali divenuti tali per volontà di Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI poi; all’interno di un’evidente strategia che mirava alla definitiva archiviazione di ogni istanza conciliare all’interno dei vertici della Chiesa, della normalizzazione, a livello centrale come periferico, di qualsiasi spinta progressista e riformatrice, sia in campo teologico che pastorale. Quando nella Chiesa qualche trasformazione c’è stata – e può ancora avvenire – è stato soprattutto sotto la spinta di trasformazioni epocali che riguardavano la sfera temporale o delle pressioni di un’opinione pubblica (laica e cattolica) attenta, critica, vigile, di una base ecclesiale e di un clero profondamente impegnati a fare della loro Chiesa un’istituzione in sintonia con i tempi. Elementi che l’attualità contemporanea, sia a livello politico che ecclesiale, non sembra oggi manifestare in maniera adeguata.

Lo stallo del Conclave

Di certo c’è che Bergoglio era fuori dai pronostici di quasi tutti gli esperti di cose vaticane. E la sua elezione ha stupito non poco. Serviranno settimane, forse mesi, per avere qualche informazione precisa su come realmente siano andate le votazioni che ne hanno determinato l’elezione. Si può però ipotizzare che se i candidati unanimemente riconosciuti come “papabili”, ossia il card. Angelo Scola (dato in assoluta pole position) e il card. Odilo Pedro Sherer non hanno ottenuto nelle prime votazioni un numero crescente di voti; o peggio, abbiano visto anche erodere la loro base di consenso, nulla di più facile che i cardinali abbiano considerato impossibile l’elezione dell’uno o dell’altro. Al punto che le due fazioni, frontalmente contrapposte, avrebbero alla fine scelto di negoziare l’elezione di un outsider che non scontentasse nessuno. Inoltre, sia Scola che Sherer possiedono profili abbastanza facilmente individuabili dal punto di vista della collocazione ecclesiastica e geopolitica. Scola intercettava i consensi dell’ala diplomatica della Curia, quella più fortemente anti bertoniana, oltre ai favori di Ruini (che in Conclave non c’era, ma che sul Conclave ha pesato), di una parte dei cardinali italiani, dei simpatizzanti di Comunione e Liberazione, di quei settori del Conclave convinti della necessità di un papa che non fosse più espressione dell’establishment curiale. Scola era peraltro il candidato forte indicato in più occasioni da Ratzinger come suo pupillo, il fondatore, assieme all’ex pontefice, della rivista teologica Communio, l’animatore di Oasis, altra rivista dedicata al rapporto tra cristiani e musulmani; il tessitore di una fitta rete di rapporti in tutta la Mitteleuropa e anche in America latina. Insomma, pareva il candidato predestinato al soglio di Pietro. E infatti, si diceva fosse entrato in Conclave con già all’attivo una cinquantina di voti sicuri (su un quorum di 77). Sherer, al contrario, era invece sostenuto dal segretario di Stato e dai curiali, è espressione dell’ala conservatrice dello Ior e del potere finanziario dell’Opus Dei. Godeva del favore di una parte dei cardinali latinoamericani, oltre che di coloro che puntavano a minimizzare la portata delle dimissioni di Ratzinger e delle “riforme” da molti cardinali invocate come necessarie ed urgenti.

2005: il gran rifiuto del card. Martini

Più arduo è quindi capire in un contesto così fortemente polarizzato, quali forze, consensi, interessi abbia potuto intercettare Bergoglio. Certamente avrà votato per lui una parte dei cardinali che già lo votarono nel 2005, prima che l’ormai ex arcivescovo di Buenos Aires convogliasse su Ratzinger i voti ricevuti (non per generoso gesto di umiltà, come molti scrivono oggi; piuttosto, per la situazione di stallo che si era creata, anche perché, nonostante molte ricostruzioni affermino il contrario, sarebbe venuto meno, a causa dell’imbarazzante passato di Bergoglio, il sostegno dell’altro gesuita presente a quel Conclave, il card. Carlo Maria Martini). C’è poi da considerare che Bergoglio ha buoni rapporti con molti movimenti ecclesiali, ed è visto con simpatia sia da Cl (era amico di don Giacomo Tantardini) che dall’Opus Dei (intervistato dal ciellino Alessandro Banfi nel corso della diretta realizzata Rete4 il giorno dell’elezione di Bergoglio il portavoce dell’Opus Dei in Italia Bruno Mastroianni ha detto che Bergoglio frequenta il vicario dell’Opus Dei in Argentina, aveva «conoscenza diretta» del fondatore Escrivà de Balaguer ed apprezza la sua Opera) e potrebbe quindi essere risultato l’uomo del compromesso tra le due potenti lobby ecclesiastiche che si contendevano il soglio pontificio. Una circostanza che confermerebbe il peso che l’Opus Dei ha avuto nell’elezione degli ultimi papi, a partire almeno da quella di Giovanni Paolo II. E che getta più di qualche dubbio sulla reale capacità “riformatrice” di papa Francesco.

La “presenza” politica

Altri dubbi su Bergoglio provengono invece dalla biografia stessa del nuovo papa. Al di là dei suoi silenzi e, anzi, delle sue sospette connivenze con la dittatura argentina (v. notizia successiva), c’è un profilo di segno nettamente conservatore, in linea con lo smantellamento sistematico di tutto l’episcopato progressista latinoamericano operato sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Nato nel 1936 a Buenos Aires, figlio di una coppia di immigrati piemontesi, è stato dal 1973 al 1979 provinciale dei gesuiti in Argentina. Nel maggio 1992 è diventato vescovo ausiliare di Buenos Aires. Nel giugno 1997 arcivescovo coadiutore della capitale argentina. L’anno dopo diventa arcivescovo. Cardinale dal 2001, è stato a capo della Conferenza episcopale argentina dal 2005 al 2011. Nel suo Paese di origine Bergoglio è stato spesso criticato per il suo eccessivo interventismo politico. Accusa che, come spesso è accaduto nella storia ai gesuiti, Bergoglio ha spesso ribaltato a suo favore, sostenendo che i suoi pronunciamenti e i suoi interventi erano frutto della volontà di opporsi al dispotismo ed alle ingiustizie del potere politico. Fermo ed esplicito oppositore della presidenza del peronista di sinistra Nestor Kirchner prima (che lo definì il «vero rappresentante dell’opposizione») e della moglie Cristina dopo, contro quest’ultima in particolare e contro la sua politica, Bergoglio si è scagliato in maniera particolarmente violenta.

 A partire dalle presidenziali del 2007 quando arrivò a dire, riferendosi all’ipotesi di una sua elezione: «Le donne sono naturalmente inadatte per compiti politici. L’ordine naturale ed i fatti ci insegnano che l’uomo è un uomo politico per eccellenza, le Scritture ci mostrano che le donne da sempre supportano il pensare e il creare dell’uomo, ma niente più di questo».  I temi su cui più ha insistito in questi anni Bergoglio, oltre alla lotta alla povertà, sono stati quelli eticamente sensibili. Ha parlato di aborto ed eutanasia come di «crimini abominevoli», dei movimenti pro-choice come di organizzazioni che promuovono una «cultura della morte»; si è opposto alla distribuzione gratuita di contraccettivi in Argentina, all’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole, all’adozione da parte di coppie omosessuali. Quando nel 2010 il governo decise di legalizzare i matrimoni gay Bergoglio definì il provvedimento «ispirato dall’invidia del diavolo», «un attacco devastante ai piani di Dio». Convocò quindi «una guerra di Dio» contro la legge: fu il punto di riferimento delle manifestazioni a favore della famiglia e del matrimonio tra uomo e donna che si susseguirono tra la primavera e l’estate del 2010; scrisse una lettera ai quattro monasteri di Buenos Aires nella quale ammoniva: «Non dobbiamo essere ingenui, non stiamo parlando di una semplice battaglia politica, è una pretesa distruttiva contro il piano di Dio.

 Non stiamo parlando di un progetto di legge semplice, ma piuttosto una macchinazione del padre della menzogna che cerca di confondere e ingannare i figli di Dio». Il profilo di Bergoglio, quindi, più che di un riformatore pare quello di un ecclesiastico connotato in senso nettamente conservatore. Con più di qualche tratto reazionario. Che però ha sempre agito con circospezione, utilizzando toni spesso pacati, presentandosi in modo umile e dimesso. E guadagnando consensi presso i ceti popolari attraverso uno stile di vita sobrio e riservato, cui si univano alcuni gesti di grande impatto mediatico (che lo avvicinano a Giovanni Paolo II), come la scelta di vivere in un appartamento in affitto e non nell’arcivescovado, l’utilizzo dei mezzi pubblici per gli spostamenti, la passione per il calcio (è tifoso del S. Lorenzo, squadra argentina del quartiere Boedo di Buenos Aires) e per il tango; ma anche i continui attacchi ai politici colpevoli di perpetrare il crimine della povertà; o la scelta, era il 2001, di lavare e baciare i piedi ad alcuni malati di Aids nell’ospedale Muñiz per malati di Aids, nel carcere di Devoto, a Buenos Aires.

Valerio Gigante

 

 IL PASSATO CHE NON SI CANCELLA:
LE CONNIVENZE DEL NUOVO PAPA CON LA DITTATURA ARGENTINA

 Un’ombra pesantissima grava sulla figura di Jorge Mario Bergoglio: nella storia sconvolgente delle connivenze dei vescovi argentini con il regime militare (1976-1983), più di una pagina è stata scritta sul ruolo del gesuita divenuto papa.  Bergoglio ci ha provato a difendere la propria immagine, respingendo, nel libro El Jesuita. Conversaciones con el cardenal Jorge Bergoglio, di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, le accuse dei sacerdoti Orlando Yorio e Francisco Jalics, sequestrati il 23 maggio del 1976 e torturati per cinque mesi, secondo i quali l’allora provinciale della Compagnia di Gesù (tra il 1973 e il 1979) li avrebbe di fatto consegnati ai militari (v. Adista n. 37/10). In base alla versione esposta nel libro, uscito nel 2010, il futuro arcivescovo di Buenos Aires, di fronte alle voci di un imminente colpo di Stato, avrebbe raccomandato ai gesuiti Yorio e Jalics, accusati di sovvertire l’ordine sociale per il loro impegno tra i più poveri nella baraccopoli di Bajo Flores, «di fare molta attenzione», proponendo loro anche di venire a vivere nella casa provinciale della Compagnia. Yorio e Jalics, tuttavia, non si erano voluti trasferire, finendo per essere sequestrati durante un rastrellamento (sarebbero stati liberati sei mesi più tardi grazie all’intervento del Vaticano). Nel libro, Bergoglio sostiene di non aver mai creduto che i due sacerdoti fossero coinvolti in attività sovversive, ma che «per la loro relazione con alcuni preti delle villas de emergencia (baraccopoli, ndr), erano facili vittime della paranoica caccia alle streghe». Dopo il sequestro, in ogni caso, egli avrebbe cercato di localizzarli e di ottenerne la libertà, come aveva fatto per altri perseguitati.

Gli scheletri nell’armadio

La versione offerta dal libro, tuttavia, è stata smentita in maniera netta dal noto giornalista Horacio Verbitsky, il quale, già nel suo libro El Silencio (edito in Italia, con il titolo L’isola del silenzio, per i tipi della Fandango Libri; v. Adista n. 77/06), denunciava le responsabilità di Bergoglio nel sequestro di Yorio e Jalics. Sulla base di documenti inediti e di nuove testimonianze, Verbitsky era tornato poi sulla questione in due articoli apparsi sul quotidiano argentino Página 12 (l’11 e il 18 aprile 2010), richiamandosi tra l’altro a una lettera inviata nel 1977 all’assistente generale della Compagnia di Gesù, p. Moura, in cui Yorio raccontava che Jalics aveva parlato almeno due volte con l’allora provinciale gesuita, il quale, a parole, si era impegnato a bloccare le critiche che circolavano contro di loro nella Compagnia di Gesù, garantendone l’innocenza presso i membri delle forze armate, ma poi nei fatti remava decisamente contro. Come quando Bergoglio raccomandò loro di rivolgersi al vescovo di Morón, Miguel Raspanti, nella cui diocesi avrebbero potuto trovare rifugio, impegnandosi ad inviare un rapporto favorevole perché venissero accettati: successivamente, Yorio e Jalics vennero a sapere dal vicario e da alcuni sacerdoti della diocesi di Morón che la lettera del provinciale a Raspanti conteneva accuse «tali da impedirci di esercitare ancora il sacerdozio».

 E sarebbero state sempre le accuse del provinciale a negare ai due sacerdoti la possibilità di integrarsi nell’équipe di “pastoral villera” (il lavoro pastorale condotto nelle villas de emergencia) dell’arcidiocesi di Buenos Aires o di venire incardinati nell’arcidiocesi di Santa Fe.  Dopo la loro liberazione, Yorio si recò a Roma, dove il gesuita colombiano Cándido Gaviña lo informò che, secondo quanto riferitogli dall’ambasciatore argentino presso la Santa Sede, il governo sosteneva che lui e Jalics erano stati catturati dalle forze armate perché i loro superiori ecclesiastici avevano comunicato che almeno uno di loro era guerrigliero: «Gaviña gli chiese di confermarlo per iscritto, e l’ambasciatore lo fece».  Jalics si rifugiò invece negli Stati Uniti e poi in Germania. Nel 1990, durante una delle sue visite in Argentina, disse ad Emilio Mignone (fondatore del Centro di Studi Legali e Sociali e autore, nel 1986, del libro Iglesia y dictadura, dove per la prima volta si punta l’indice contro il cardinale) che «Bergoglio si era opposto al fatto che, una volta rimesso in libertà, restasse in Argentina e aveva parlato con tutti i vescovi perché non lo accettassero nelle loro diocesi nel caso si ritirasse dalla Compagnia di Gesù». Non contento, Bergoglio aveva raccomandato pure ad Anselmo Orcoyen, direttore nazionale del Culto cattolico, di respingere la richiesta di rinnovo del passaporto avanzata da Jalics quando si trovava in Germania, come inequivocabilmente dimostra una nota di Orcoyen pubblicata da Verbitsky nel suo libro El silencio.

Amen

Ma gli scheletri nell’armadio del nuovo papa Francesco non si limiterebbero al caso di Yorio e Jalics. Un altro durissimo colpo alla sua immagine è venuto nel 2011 dal processo sul sistematico piano di sottrazione dei figli di desaparecidos, in cui Bergoglio è stato citato come testimone a partire dalla deposizione di Estela de la Cuadra, figlia di una delle fondatrici delle Nonne di Plaza de Mayo e sorella e zia di due delle vittime di questo piano (v. Adista nn. 50 e 59/11). Secondo Estela de la Cuadra, infatti, il cardinale avrebbe mentito nel dichiarare, durante il megaprocesso della Esma (la scuola della Marina militare nei cui locali sono stati torturati, anche a morte, innumerevoli desaparecidos argentini), di aver saputo della scomparsa di bambini dopo la fine della dittatura: già nel 1979, infatti, egli era al corrente del caso di sua sorella Elena, sequestrata nel 1977 mentre era incinta, avendo ricevuto suo padre e avendogli consegnato un documento per il vescovo ausiliare di La Plata, Mario Picchi, il quale, proprio su richiesta di Bergoglio, aveva verificato che Elena aveva dato alla luce una bambina, poi affidata a un’altra famiglia («Una buona famiglia e non c’è modo di tornare indietro», aveva spiegato Picchi ai De la Cuadra).

 Bergoglio, tuttavia, al processo non ha voluto farsi vedere, preferendo rilasciare la sua testimonianza per iscritto, riparandosi dietro all’art. 250 del Codice processuale penale, che riconosce tale possibilità agli alti dignitari della Chiesa. Respinge le accuse, su Radio Vaticana, il portavoce della Sala Stampa p. Federico Lombardi, secondo cui la «matrice anticlericale» della campagna contro Bergoglio «è nota ed evidente»: «Non vi è mai stata un’accusa concreta credibile nei suoi confronti. La Giustizia argentina lo ha interrogato una volta come persona informata sui fatti, ma non gli ha mai imputato nulla. Egli ha negato in modo documentato le accuse. Vi sono invece moltissime dichiarazioni che dimostrano quanto Bergoglio fece per proteggere molte persone nel tempo della dittatura militare».
E una difesa del nuovo papa viene anche dal Premio Nobel per la Pace argentino Adolfo Pérez Esquivel, che, intervistato da vari mezzi di comunicazione, nega, a sorpresa, che l’allora provinciale dei gesuiti avesse vincoli con il regime militare, sottolineando anzi (su Repubblica, 15/3) come egli avesse «cercato di aiutare le vittime della dittatura». Più articolato, invece, il giudizio espresso sul suo sito il 14/3: «È indiscutibile che ci furono complicità di buona parte della gerarchia ecclesiale con il genocidio perpetrato contro il popolo argentino, e se molti, con “eccesso di prudenza”, hanno compiuto gesti silenziosi per liberare i perseguitati, pochi sono stati i pastori che con coraggio e decisione hanno assunto la nostra lotta in difesa dei diritti umani contro la dittatura militare. Non ritengo Jorge Bergoglio complice della dittatura, ma credo che gli mancò il coraggio di accompagnare la nostra lotta nei momenti più difficili».  «Sarebbe bellissimo – ha commentato invece Roberto Saviano – se il primo gesto del papa fosse invitare a Roma le Madri di Plaza de Mayo» (ma alla domanda su cosa pensasse del nuovo papa, la presidente dell’associazione Hebe de Bonafini ha pronunciato appena un lapidario «Amen»).

Riconciliazione sempre e comunque

Proprio la non rimarginabile ferita della dittatura militare è stata la causa degli aspri contrasti che il cardinale ha avuto con il presidente argentino Néstor Kirchner, trovandosi, i due, schierati sui versanti opposti dell’oblio e della memoria, della riconciliazione (a prescindere dalla giustizia) e della giustizia (prima della riconciliazione). Se Kirchner ha sempre respinto con forza l’equazione tra il «giudicare i crimini del passato» e il «creare divisione tra gli argentini», dichiarando di voler fare tutto il possibile per garantire la giustizia, Bergoglio, in sintonia con gran parte dell’episcopato, ha sempre posto l’esigenza della riconciliazione al di sopra di tutto (affermando per esempio che «ciò che vi è stato in termini di peccato e di ingiustizia deve essere benedetto con il perdono, il pentimento e la riparazione»; v. Adista n. 47/07). E si è assunto, insieme agli altri vescovi (e, dal 2005 al 2011, anche in qualità di presidente della Conferenza episcopale), la responsabilità di dichiarazioni e documenti assai lacunosi quanto a ricostruzione storica degli anni della dittatura, assai indulgenti rispetto alla condotta dell’episcopato durante il regime militare, e assai timidi nella richiesta di perdono alle vittime.

L’ultima polemica riguarda il documento intitolato La fede in Gesù Cristo ci muove alla verità, la giustizia e la pace emesso dalla Conferenza episcopale argentina il 9 novembre 2012 (v. Adista n. 43/12), in reazione alle affermazioni del dittatore Jorge Rafael Videla – contenute nel libro-intervista Disposizioni finali. La confessione di Videla sui desaparecidos – riguardo ai buoni rapporti da lui intrattenuti con la gerarchia ecclesiastica («La mia relazione con la Chiesa – ha assicurato tra molte altre cose – è stata eccellente, molto cordiale, sincera e aperta. Non si dimentichi che avevamo ad assisterci anche dei cappellani militari»). Nel loro documento, i vescovi – che finiscono anche, come di consueto, per equiparare il terrorismo di Stato con la violenza guerrigliera, secondo la classica teoria “dei due demoni” – ritengono che quanti allora guidavano l’episcopato «tentarono di fare il possibile per il bene di tutti, secondo la loro coscienza e il loro giudizio prudenziale», aggiungendo tuttavia di non voler «eludere la responsabilità di avanzare nella conoscenza di questa verità dolorosa», impegnandosi a completare uno studio tardo ma necessario (studio che in realtà è stato già abbondantemente realizzato) e ribadendo la loro richiesta di perdono «a quanti abbiamo turbato o non accompagnato come dovevamo». Dichiarazioni, quelle sui vescovi, aspramente contestate dal gruppo di “Preti per l’opzione per i poveri”, secondo cui nessun sacerdote potrebbe mai accettare «una confessione tanto generica, senza riconoscimento concreto delle mancanze e dei delitti commessi», da quello relativo alla giustificazione pubblica della tortura come un male minore fino a quello del silenzio sul tema dei cappellani militari e della loro complicità con il genocidio.

Lacrime di vittime

Così, mentre tanti argentini festeggiano per l’elevazione al soglio pontificio di un proprio concittadino, c’è chi, guardando il volto del nuovo papa, rivive l’incubo delle violenze subite. «Non posso crederci», commenta in una email inviata a Verbitsky – di cui il giornalista riferisce nell’articolo uscito su Página 12 del 14 marzo – Graciela Yorio, la sorella di Orlando (mai ripresosi pienamente dalle torture e morto nel 2000 in Uruguay): «Mi sento così angosciata e stravolta che non so che fare. Ha ottenuto quello che voleva. Rivedo Orlando nel soggiorno di casa, alcuni anni fa, dire di lui “vuole diventare papa”. È la persona adatta per coprire il marcio. È esperto nel coprire. Il telefono non smette di squillare, Fito (Adolfo Yorio, ndr) mi ha chiamato in lacrime».

«Non sono sicuro che Bergoglio sia stato eletto per coprire il marcio che ha ridotto Joseph Ratzinger all’impotenza», commenta Verbitsky, assicurando che non si sentirebbe sorpreso se il nuovo papa lanciasse «una crociata moralizzatrice per sbiancare i sepolcri apostolici», ma dicendosi certo «che il nuovo vescovo di Roma sarà un ersatz, parola tedesca di difficile traduzione che indica un surrogato di bassa qualità». Il suo profilo, continua senza fare sconti, è quello «di un populista conservatore come lo sono stati Pio XII e Giovanni Paolo II: inflessibili nelle questioni dottrinarie, ma con un’apertura verso il mondo, e, soprattutto, verso i settori diseredati». Motivo per cui, secondo il giornalista, non mancherà chi vedrà in lui il protagonista dell’«anelato rinnovamento ecclesiale», dimenticando come nei suoi 15 anni alla guida dell’arcidiocesi di Buenos Aires egli abbia «cercato di unificare l’opposizione contro il primo governo che in molti anni ha adottato una politica favorevole a tali settori».

 Claudia Fanti 

in   Adista Notizie n. 11 – 23 Marzo 2013

 

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