È un’immagine che ferisce: quegli immigrati con lo scotch sulla bocca, le mani legate e gli occhi spaventati, la cui foto ha fatto il giro del web, ci dice più di tante parole che cosa siamo. Quale è l’abisso in cui rischiamo di cadere senza più qualsiasi senso di solidarietà e di rispetto umano. L’immigrato vale meno di una merce da spostare da una parte all’altra del mondo. È il segno di un  declino spaventoso

Eppure, un luogo comune assai diffuso e pigramente accettato dai più, è che l’Occidente abbia  espunto dal proprio orizzonte quella disumanità che fu l’incunabolo delle atrocità di cui è  disseminata la storia del secolo breve.

E naturalmente noi italiani, brava gente per definizione, il cui  fascismo sarebbe stato un blando autoritarismo che mandava gli oppositori in vacanza al confino  nelle belle isole Eolie o nella allora remota Eboli dove però potevano conversare con Cristo, fra  tutte le genti civili e umane del civilizzatissimo Occidente saremmo i più bravi e i più umani.

Le  stragi di Stato sarebbero un incidente di percorso, il bestiale sfruttamento dei lavoratori africani nei  nostri campi di pomodori, anomalie, i respingimenti illegali di immigrati mandati alla tortura, alle  violenze carnali e alla morte più atroce nei campi di «concentramento», pardon, campi di raccolta  dello spietato rais libico a cui si baciavano le mani per l’ottimo lavoro svolto, un dettaglio  sgradevole.

Siamo ancora oggi il Paese in cui, in spregio a tutte le convenzioni internazionali, si ammassano i  detenuti nelle carceri in condizioni crudeli, siamo ancora il Paese in cui la tortura non è rubricata  come reato, siamo il Paese della macelleria messicana in puro stile fascista sudamericano alla Diaz  di Genova. Questo è il Paese che ha promulgato una legge per istituire il reato di clandestinità,  un’infamia giuridica ed etica. I retori da barzelletta si sbracciano nel dire appassionatamente che  siamo un grande Paese. Ma in che film?

Siamo un Paese che annovera grande gente: i magistrati e le forze dell’ordine, servitori dello stato  che hanno dato la loro vita per difendere la legalità e per combattere la mafia, i sacerdoti di strada o  quelli antimafia che testimoniano la parola di Gesù nella sua autenticità, le miriadi di eroi quotidiani  che lavorano onestamente e nel rispetto delle regole in un Paese che però è ancora il regno della corruzione.  Quando accadono certi fatti, quando immagini così dure da mandare giù ci toccano e ci  sconvolgono, allora pensiamo che l’Italia in quanto nazione nelle sue diffuse strutture pubbliche e  private non è un grande Paese.

Che è un Paese meschino che defrauda la povera gente, che  disprezza i lavoratori, che perseguita lo straniero e che non ha fatto e non vuole fare i conti con il  suo retaggio di violenza latente. Aleggia uno spirito di ferocia e di indifferenza che oggi si specchia  nei volti umiliati, imbavagliati come si usa nei sequestri, di due immigrati. Due esseri umani la cui   dignità è brutalmente violata da chi dovrebbe avere il compito di vegliarla.

Moni Ovadia       l’Unità   19 aprile 2012

 


La compassione e le regole

La sicurezza innanzitutto. E poi le regole da rispettare e gli ordini da seguire. Ma fin dove? Dove comincia e dove finisce la “normalità”? Imbavagliare con nastro da pacchi due cittadini tunisini che vengono rimpatriati non dovrebbe essere qualcosa di “normale”. Anche quando si ritiene “normale” metterli su un aereo per rispedirli nel loro paese. Perché, nonostante tutto, il viso di una persona ha sempre un valore simbolico. È attraverso il viso e la bocca che ognuno di noi esprime la propria soggettività. È attraverso il proprio sguardo che si entra in relazione con gli altri.

E la soggettività di un essere umano, anche quando si è commesso un crimine o un delitto, non dovrebbe mai essere negata o cancellata come accade quando, per applicare le procedure ed evitare di creare scompiglio e confusione, si cede alla tentazione di far tacere a tutti i costi, anche con del nastro adesivo. Per garantire il buon funzionamento della società, ciascuno di noi è chiamato a fare il proprio dovere e ad assumersi le responsabilità che gli competono.

Non si tratta qui di negare l’importanza delle regole che, da sempre, rendono possibile il “vivere insieme”. Dovere e responsabilità, però, non dovrebbero implicare né un’assenza di compassione, né l’indifferenza. Perché gli esseri umani non sono dei semplici automi, delle macchine che si limitano ad eseguire i programmi con cui sono state concepite.

La compassione nei confronti di un’altra persona, però, è possibile solo quando si è capaci di immedesimarsi nell’altro. E, quindi, quando si riconosce l’altro come un essere umano simile a noi. Altrimenti si scivola, anche senza rendersene conto, in una forma di barbarie.

Come ci insegna Hannah Arendt nel 1963, il problema del rapporto tra “dovere” e “umanità” è molto complesso. Perché talvolta accade che, proprio nel nome del dovere, ci si dimentica che chi ci sta accanto è anche lui una persona. È allora che si commette il “male”. Paradossalmente nel nome del “bene”. Anche banalmente.

Non perché il male, in sé, sia banale. Ma perché può accadere a chiunque di “smettere di pensare quando si tratta di applicare una regola, e di non sapere più fare la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Umiliare una persona non dovrebbe mai essere giusto, anche in nome della sicurezza e della giustizia. Eppure è proprio di umiliazione che si tratta quando si parla di nastro da pacchi sulla bocca. Questi due tunisini li si doveva, certo, rimpatriare. Si doveva probabilmente immobilizzarli. Ma c’era veramente bisogno di farli tacere imbavagliandoli? Non è solo una questione di “eccessi” o di “misura”. È una questione simbolica. Gli esseri umani sono caratterizzati dal linguaggio e dalla parola, come spiega bene Lacan. Perché privarli allora di ciò che li rende umani?

Michela Marzano      la Repubblica  19 aprile 2012

 

vedi:  Si chiudono le coscienze, ma se fossimo noi al loro posto?

Cimitero Mediterraneo «Nel nostro mare ci sono 17mila cadaveri»

 


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