Marino Niola  intervista  Serge Latouche.

«Un certo modello di società dei consumi è finito. Ormai l’unica via all’ab­bondanza è la fru­galità, perché permette di soddisfare tutti i bisogni senza creare povertà e in­felicità». E’ la tesi provocatoria di Serge Latouche, professore emerito di scien­ze economiche all’Università di Paris­ Sud, universalmente noto come il pro­feta della decrescita felice. Il paladino del nuovo pensiero critico che non fa sconti né a destra né a sinistra sarà a Na­poli (dal 16 al 20 gennaio), ospite della Fics (Federazione Internazionale Città Sociale) e protagonista del convegno internazionale “Pensare diversa-men­te. Per un’ecologia della civiltà planeta­ria” organizzato dal Polo delle Scienze Umane dell’Università Federico II. Il tour italiano dell’economista eretico coincide con l’uscita del suo nuovo li­bro Per un’abbondanza frugale. Malin­tesi e controversie sulla decrescita (Bol­lati Boringhieri). Un’accesa requisito­ria contro l’illusione dello sviluppo in­finito. Contro la catastrofe prodotta dalla bulimia consumistica.

Cos’è l’abbondanza frugale? Detta così sembra un ossimoro.

«Parlo di “abbondanza” nel senso at­tribuito alla parola dal grande antropo­logo americano Marshall Sahlins nel suo libro Economia dell’età della pietra. Sahlins dimostra che l’unica società dell’abbondanza della storia umana è stata quella del paleolitico, perché allo­ra gli uomini avevano pochi bisogni e potevano soddisfare tutte le loro neces­sità con solo due o tre ore di attività al giorno. Il resto del tempo era dedicato al gioco, alla festa, allo stare insieme».

Vuol dire che non è il consumo a fa­re l’abbondanza?

«In realtà proprio perché è una so­cietà dei consumi la nostra non può es­sere una società di abbondanza. Per consumare si deve creare un’insoddi­sfazione permanente. E la pubblicità serve proprio a renderci scontenti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. La sua missione è far­ci sentire perennemente frustrati. I grandi pubblicitari amano ripetere che una società felice non consuma. Io cre­do ci possano essere modelli diversi. Ad esempio io non sono per l’austerità ma per la solidarietà, questo è il mio con­cetto chiave. Che prevede anche con­trollo dei mercati e crescita del benes­sere».

Perché definisce Joseph Stiglitz un’anima bella?

«Stiglitz è rimasto alla concezione keynesiana che andava bene negli anni ’30, ma che oggi, anche a causa dello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, mi sembra impraticabile. Nel dopoguerra l’Occidente ha conosciuto un aumento del benessere senza pre­cedenti, basato soprattutto sul petrolio a buon mercato. Ma già negli anni ’70 la crescita era ormai fittizia. Certo il Pil au­mentava, ma grazie alla speculazione immobiliare e a quella finanziaria. Un’età dell’oro che non ritornerà».

E’ il caso anche dell’Italia?

«Certo, il boom economico italiano del dopoguerra si deve soprattutto a personaggi come Enrico Mattei che riu­scì a dare al vostro paese il petrolio che non aveva. E’ stato un vero miracolo. E i miracoli non si ripetono».

I sacrifici che i governi europei, compreso quello italiano, stanno chiedendo ai cittadini serviranno a qualcosa?

«Purtroppo i governi spesso sono in­capaci di uscire dal vecchio software economico. E allora tentano a tutti i co­sti di prolungarne l’agonia, ma questo, lo sanno bene, non fa altro che creare deflazione e recessione, aggravando la situazione fino al momento in cui esploderà».

Lei definisce- la società occidentale la più eteronoma della storia umana. Eppure comunemente si pensa che sia quella che garantisce il massimo di au­tonomia democratica. Chi decide per noi?

«Di fatto siamo tutti sottomessi alla mano invisibile del mercato. L’esem­pio della Grecia è emblematico: il popolo non ha il diritto di decidere il suo destino perché è il mercato fi­nanziario a scegliere per lui. Più che autono­ma, la nostra è una so­cietà individualista ed egoista, che non crea soggetti liberi ma con­sumatori coatti».

Qual è il ruolo del do­no e della convivialità nella società della de-crescita?

«L’alternativa al pa­radigma della società dei consumi, basata sulla crescita illimitata, è una società convivia­le, che non sia più sotto­messa alla sola legge del mercato. Che distrugge alla radice il sentimen­to del legame sociale che è alla base di ogni società. Come ha dimo­strato l’antropologo Marcel Mauss, all’origi­ne della vita in comune c’è lo spirito del dono, la trilogia inscindibile del dare, ricevere, ricam­biare. Dobbiamo dun­que ricomporre i fram­menti postmoderni della socialità usando come collante la gra­tuità, l’antiutilitarismo. In questo concordo con gli esponenti italiani dell’economia della feli­cità, come Luigino Bruni e Stefano Zamagni, che si rifanno alla grande lezione dell’economia civile napoletana del Set­tecento di Antonio Genovesi».

Il capitalismo è l’ultimo pugile ri­masto in piedi sul ring della storia?

«Non so se sia proprio l’ultimo pugi­le, perché non si sa mai in cosa è capace di trasformarsi, ci sono scenari ancora peggiori, come l’eco-fascismo dei neoconservatori americani. Certo è che sia­mo ad una svolta della storia. Se un tem­po si diceva “o socialismo o barbarie” oggi direi “o barbarie o decrescita”. Ser­ve un progetto eco-socialista. E’ tempo che gli uomini di buona volontà si fac­ciano obiettori di crescita».

Francis Fukuyama di recente ha riaffermato di ritenere che il modello liberal-capitalistico resti l’orizzonte unico della storia. Senza alternative. Cosa ne pensa?

«Che ha una bella faccia tosta. Prima si è sbagliato totalmente sulla fine della storia, e oggi ripropone la stessa solfa. La sua profezia è stata vanificata dalla tragedia dell’11 settembre che ha di­mostrato the la storia non era per nien­te finita. Fukuyama chiama fine della storia quella che è semplicemente la fi­ne del modello liberal capitalista».

A chi dice che l’abbondanza frugale è un’utopia lei risponde che è un’uto­pia concreta. Non è una contraddizio­ne in termini?

«No, perché per me l’utopia concre­ta non significa qualcosa di irrealizza­bile, ma è il sogno di una realtà possibi­le. Di un nuovo contratto sociale. Ab­bondanza frugale in una società solida­le. Sta a noi volerlo».

 

La Repubblica     14  01   2012

 

 

Nel 2003 il preveggente e acuto e lungimirante Eduardo Galeano scriveva:

«Bombe contro la gente, bombe contro la natura. E le bombe di denaro? Che ne sarebbe di questo modello di mondo nemico del mondo senza le sue guerre finanziarie? In più di mezzo secolo di esistenza, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno sterminato una quantità di gente infinitamente maggiore di tutte le organizzazioni terroristiche che ci sono o ci sono state nel mondo. Loro hanno contribuito pesantemente a rendere il mondo così com’è. Adesso questo mondo, che ribolle d’indignazione, spaventa i suoi autori.

“La Banca mondiale, apostolo della privatizzazione, è in crisi di coscienza”, commenta il quotidiano The Wall Street Journal. In un recente rapporto, la Banca scopre che la privatizzazione dei servizi pubblici, che i suoi funzionari hanno imposto e continuano ad imporre ai paesi deboli, non è esattamente una manna dal cielo, soprattutto per i poveri abbandonati al loro destino. Allarmata dalle conseguenze dei suoi atti, la Banca adesso dice che bisognerebbe consultare i poveri e che i poveri “dovrebbero vigilare gli investimenti privati”, sebbene non spieghi come potrebbero realizzare questo lavoretto da niente. I poveri preoccupano anche il Fondo monetario, che li ha sempre strozzati: “E’ necessario diminuire le disuguaglianze sociali”, conclude il direttore del Fondo, Horst Koehler, dopo aver meditato sulla faccenda. I poveri non sanno davvero come ringraziare.

Questi organismi, che esercitano la dittatura finanziaria nel sistema democratico, non hanno nulla di democratico: nel Fondo decidono tutto cinque paesi; nella Banca, sette. Gli altri non hanno alcuna voce in capitolo. Nemmeno la dittatura commerciale è democratica. Nell’Organizzazione mondiale del commercio non si vota mai, sebbene il voto sia previsto negli statuti. L’organizzazione coloniale del pianeta sarebbe in pericolo se i paesi poveri, che corrispondono alla schiacciante maggioranza, potessero votare. Loro sono invitati al banchetto per essere divorati. La dignità nazionale è un’attività non redditizia, destinata a scomparire, come la proprietà pubblica, nel mondo sottosviluppato. Ma quando le dignità si uniscono, è tutta un’altra storia. E’ quanto accaduto a Cancun di recente, alla riunione della Organizzazione mondiale del commercio: i paesi disprezzati, i buggerati, si sono uniti in un fronte comune, per la prima volta dopo molti anni di solitudine e di paura. E la riunione, convocata, come al solito, affinché la maggioranza esercitasse il suo diritto all’obbedienza, è naufragata.

Sta succedendo ovunque: sembra che il potere non sia così potente come dice di essere».

il manifesto   18 ottobre 2003

 

 

vedi:  Facciamo economia.  Come costruire una nuova società dell'abbondanza.

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