Che cosa è oggi la disumanizzazione, quel congedo dall’umano il cui timore ricorre nei mille titoli di una letteratura che analizza le derive verso questo esito fatale? Il futuro prende le forme di un corpo innervato e trasformato dalle tecnologie, annuncia il cyborg, lascia intravedere una inquietante “natura” robotica. La ragione tecnologica prende il sopravvento, l’uomo diviene “antiquato”, il diritto viene espropriato della sua “causa finale”, la tutela della persona.
E proprio il conflitto tra l’immagine dell’uomo espressa dalle costituzioni e il sapere tecnico-scientifico venne precocemente segnalato non da un giurista, ma da Paul Valéry. Molte voci s’intrecciano. Ascoltiamo quella di Kazuo Ishiguro in Non lasciarmi. «Mentre ti osservavo ballare quel giorno, ho visto qualcos’altro. Ho visto un nuovo mondo che si avvicinava a grandi passi. Più scientifico, più efficiente, certo. Più cure per le vecchie malattie. Splendido. E tuttavia un mondo duro, crudele. Ho visto una ragazzina, con gli occhi chiusi, stringere al petto il vecchio mondo gentile, quello che nel suo cuore sapeva che non sarebbe durato per sempre, e lei lo teneva fra le braccia e implorava che non la abbandonasse».
Ritorna il conflitto tra vecchio e nuovo mondo, uno che si tinge con i colori della nostalgia, l’altro portatore di un progresso che sembra voler prendere definitivamente congedo appunto dall’umano. Come misurare, allora, l’eventuale distacco dall’umano? E questo avviene solo per effetto della tecnologia o vi sono anche altre tecniche che possono determinarlo? Se ricorriamo al criterio di un uomo che diviene “antiquato”, non dobbiamo guardare soltanto al futuro e all’innovazione scientifica e tecnologica. Dobbiamo con altrettanta intensità considerare una disumanizzazione determinata dalla qualità dei rapporti sociali.
E qui ci si imbatte in un apparente paradosso: l’uomo antiquato non per la sua proiezione nel futuro, ma per il ritorno di un passato che la modernità aveva cancellato. Sembra quasi che il nastro del tempo si riavvolga vertiginosamente all’indietro, riportandoci all’era precedente a quella in cui John Locke affermava la proprietà dell’uomo sul proprio lavoro, risvolto di una sua libertà, pur problematica, nel mondo delle relazioni sociali.
Oggi le tecniche riconducibili alla sola logica economica impongono una considerazione del lavoro senza più rapporto con la libertà, pura merce che trascina l’intera persona del lavoratore in una dimensione in cui la sua umanità viene messa in discussione, facendo comparire non un soggetto nella pienezza dei suoi diritti, bensì l’oggetto del potere impersonale del mercato.
Ecco le vite precarie, le vite “di scarto”. La retribuzione non deve più garantire “una esistenza libera e dignitosa”, come vuole l’articolo 36 della nostra Costituzione, ma inclina pericolosamente verso una attenzione per la pura sopravvivenza biologica. La riduzione della persona alla sua biologia la consegna nuda al potere, a qualsiasi potere, negando la sua biografia, vero connotato dell’umano.
La persona “costituzionalizzata” scompare, diviene antiquata. Vi è una relazione con la “macchina” che rende immediatamente evidenti questi segni dei tempi. La macchina alla quale la persona viene collegata per prolungarne la sopravvivenza; la macchina, un computer che il lavoratore deve indossare, che consente all’imprenditore di dirigerlo e controllarlo a distanza. Qui la libertà, e con essa l’umanità, possono scomparire, sopraffatte dalla tecnica. Al morente può essere rifiutato il diritto di “staccare la spina”. Il lavoratore è degradato a oggetto.
Desti dall’ipnosi tecnologica, possiamo scorgere un mondo in cui sono diverse le modalità della disumanizzazione. Ma è giusto continuare ad adoperare solo questa parola con la sua evidente carica negativa? O non è più corretto, e aderente alla realtà, parlare di un oltre l’umano, di un postumano? Una questione di frontiere, dunque, di una soglia varcata la quale si entra in una dimensione diversa. E allora il problema diviene quello di stabilire il criterio con il quale si segna il confine, che non può essere quello di una normalità “naturale”, di un corpo inviolabile.
Proprio perché il corpo occupa la scena del mondo, per il congiungersi di fattori culturali, tecnologici e scientifici, cogliamo in esso la tensione che Günther Anders descrisse parlando di un uomo che «si allontana sempre di più da sé stesso, si “trascende” sempre di più». Ma questo “trascendersi” non porta necessariamente verso la perdita dell’umanità. Indica nuovi orizzonti dove, insieme ad una più estesa libertà di scelta, può raggiungersi una pienezza dell’umano che libera pure dai vincoli imposti dalla materialità del corpo. Non a caso il protagonista di Neuromante di William Gibson teme la ricaduta nella “prigione della carne”. L’umanità vera si va dislocando dal reale al virtuale?
Non siamo di fronte a tragitti lineari, a separazioni e fratture radicali. Se si guarda a taluni documenti giuridici come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si coglie il tentativo di ricomporre una unità non post-umana, ma “post-tecnologica”, della persona. Questa ricostruzione esige una integrità del corpo, che riconcili soma e psiche, ed una unità tra persona reale e virtuale, realizzata attraverso una comunanza di strumenti, il consenso informato e il diritto all’autodeterminazione in primo luogo.
Ma richiede pure una analisi di problemi nuovi, a cominciare dalla legittimità del ricorso a qualsiasi opportunità resa disponibile dall’innovazione scientifica e tecnologica. Anche se può dirsi che il corpo si avvia ad essere una macchina “nano-bio-info-neuro”, per il concentrarsi su di esso degli strumenti offerti da queste diverse tecnologie, bisogna distinguere tra quello che può contribuire ad un suo potenziamento e quel che rende possibili controlli sempre più intensi; tra le decisioni che si esauriscono nella sfera dell’interessato e quelle che incidono sulla vita degli altri; tra le offerte che ampliano il potere di fare scelte libere e informate e quelle che incidono sulla persona trasformandola in un gadget.
E così, mentre si continua giustamente ad insistere sull’acquisita centralità del corpo nelle nostre organizzazioni sociali e nel discorso pubblico, si deve riflettere seriamente anche sul fatto che la costruzione dell’identità delle persone è sempre più intensamente affidata ad algoritmi che ne definiscono i caratteri e ne individuano le dinamiche future.
La persona di nuovo consegnata all’astrazione, disincarnata, ridotta a fantasma tecnologico? Si sta delineando un ordine sociale e giuridico delle macchine che rivendica una propria autonomia e che non solo può determinare conflitti con la tradizionale autonomia delle persone, ma produce una nuova antropologia?
Se i problemi sono nuovi, e sconvolgenti, le soluzioni vanno cercate partendo da parole note, e irrinunciabili. La libertà delle scelte, l’eguaglianza tra le persone, il rispetto della dignità di ognuno. Sono queste le garanzie perché l’umano possa sopravvivere, quali che siano le tecniche che l’investono.
Stefano Rodotà la Repubblica 21 settembre 2011
vedi: “I robot domineranno il mondo”
La comunità impossibile di Facebook
L’invettiva contro i ladri che inguaiò Stefano Rodotà