Forse proprio in questo momento è necessaria la memoria della rivolta che ha spalancato al nostro paese il regno della libertà e i suoi valori. Grazie a quegli anni siamo diventati moderni.

Ora, grazie a Arbasino, rivisiterò con più attenzione la pittura risorgimentale alle Scuderie del Quirinale. La annuserò, anzi, perché Arbasino descrive, su questo giornale, i quadri che rappresentano interni familiari come un insieme di “porcai e cessi”, “bimbi lerci e massaie ripugnanti”, “padellini bisunti”; e gli esterni storici come “baraonda e bailamme”. Insomma, caos, profumi e balocchi, altro che idee di libertà e di unità della nazione. Sì, anche balocchi, perché il quadro di Gerolamo Induno sulla battaglia di Magenta del 1859 mostra tra i soldati francesi delle “truppe inturbantate e africane”. E Arbasino si chiede: «Avranno poi “marocchinato” le magentine come nella Ciociara?». La risposta è, certamente sì. Se no perché l´insolita domanda? Insomma, aveva ragione Petrolini. Cosa è stato mai questo Risorgimento se nelle strade di tutte le città d´Italia vi sono targhe con su scritto “via Cavour”, “via Garibaldi”, “via Mazzini”. Cacciamoli via, finalmente, questi signori. Lo dice anche il politologo Banti (sempre su questo giornale): «Ma ce li avete presenti i protagonisti del “dibattito” sul 150° anniversario dell´Unità d´Italia? Politici, giornalisti, scrittori e intellettuali che parlano di Risorgimento come se fosse un evento accaduto ieri, carico di valori da rispettare e osservare proprio come se fossero in perfetta sintonia con la nostra vita?». La risposta è ancora sì, ce li abbiamo presenti, anche se tra i protagonisti del “dibattito” il politologo non a caso non mette gli storici i quali attualizzano in modo diverso il Risorgimento e hanno qualche dubbio sugli altri “valori” rivendicati come veri, cioè il brigantaggio (del quale, su questo giornale, è stato fatto il rimpianto da Paolo Rumiz) i Borboni, la rivoluzione sociale comunista, le masse contadine ingannate da Garibaldi, eccetera. E non sono neanche convinti che l´Italia, come ha scritto Curzio Maltese, sia in fondo «patria di sudditi divisi ieri come oggi». Il “succo del nocciolo”, (ma il nocciolo ha succo?) è quindi, secondo Banti, che il Risorgimento «avvenne sotto il segno di Cavour e della monarchia sabauda», che «lo Stato che si forma tra il 1859 e il 1860 vede l´opposizione fermissima del papa», che «il Risorgimento è stato un processo complesso, contraddittorio». Queste, sì, sono grandi scoperte… Comunque sia, questa storia non ha da dirci più nulla dato che «il Risorgimento è un paese lontano». Dunque, questo è, sui giornali, lo stato attuale del “dibattito”. Ma non sorprende più di tanto chi sa che a ogni passaggio di regime politico, il Risorgimento è stato messo da inesperti studiosi o giornalisti sotto accusa, ridicolizzato. Lo fu nel 1922, quando crollò il sistema liberale, lo fu venti anni dopo al momento della crisi finale del regime fascista, quando Adolfo Omodeo fu costretto a scrivere una Difesa del Risorgimento e quando, sull´ultimo numero di Primato, la rivista di Bottai, un grande storico liberale, Carlo Morandi, difese il Risorgimento. E se provassimo allora a immaginare che proprio in questo momento, in Italia, sia più che mai necessaria la memoria dell´unica rivoluzione che ha portato il nostro paese nel regno della libertà e della modernità? E se ricordassimo il Risorgimento con le parole con cui Giansiro Ferrata ne rievocava a Elio Vittorini nel 1946 una pagina particolare ma importante: le Cinque Giornate di Milano? «Fu tutta la vitalità profonda che sta dentro al sangue popolare a dir no alla paura e a dir di sì al sacrificio, a strappare di slancio vittorie in ogni via e ad ogni Porta. Questo è il significato delle Cinque Giornate e i milanesi lo sentono così».

 

Lucio Villari     Repubblica 18.11.10

 

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