Genova da sempre è stata accogliente e attenta alle diversità perché lei stessa si è costruita nel porto, sul mare e nel riconoscimento delle pluralità degli altri. La lingua genovese ne è la riprova lampante, miscuglio di idiomi, dialetti, saperi e culture (su questo giornale scrissi due articoli a riguardo). Oggi, Genova è smarrita nel suo cuore e nelle sue stesse strade, i cui marciapiedi e angoli sono pieni di mendicanti, senza dimora, persone finite per strada per mille motivi perché la socialità ha fallito nell’accompagnare ciascuno a vivere la propria vita come ordina la Costituzione.

È vero che vi sono anche molti «poveri» che esercitano il mestiere, aggregati a strutture di sfruttamento, se non alla malavita. Accanto però vi sono i poveri, le scorie del neocapitalismo, che Papa Francesco chiama «scarti», scacciati dalla mensa comune, protesi a cercare una moneta che non risolverà alcun problema.

Passano le persone ordinarie, corrono a fare shopping, quasi in un circuito ad ostacoli da evitare perché la presenza di «scarti» è meglio non vederla. Dice il vangelo di Luca: Scendeva da Gerusalemme a Gerico un uomo che incappò nei briganti che lo spogliarono e lo lasciarono mezzo moribondo. Passò un sacerdote e passò dall’altra parte, anche un levita fece lo stesso. Infine passò un nemico dell’uomo, un Samaritano, il solo che ebbe compassione.

Il mondo capovolto, ieri e oggi. Ecco la parola magica e terrificante, «compassione», che sia in greco (splànchna) sia in ebraico (rachàm) indica l’utero generante, per cui chi ha compassione non «compatisce con» soltanto, ma arriva a generare di nuovo l’altro perché è parte di sé.

Il clima generale è da terrore: si teme l’invasione dei barbari, la perdita della piccola propria sicurezza, si teme per il piccolo spiraglio sul futuro.

Chi ha bisogno e chiede è una richiesta di «dividere» il già posseduto e quindi c’è la percezione di un costante impoverimento per tutti, tranne che per coloro che fomentano e creano e vogliono questo stato di cose immonde e ingiuste perché la paura è madre di manipolazione.

Quando ero presidente del Massoero 2000 vedevo le persone accorrere per «dare una mano», condividere le esperienze, fosse anche «un the nel deserto» di via della Maddalena, oggi l’indifferenza rende arcigni, duri e inflessibili.

Bisogna trovare un colpevole per alleggerire la propria coscienza, terrorizzata dalla paura di essere disturbati; si chiudono le coscienze come si fa fìnta di chiudere i porti, si sbarrano i cuori fino alla farsa di un’Amministrazione che per fare facile consenso, manda i vigili a multare chi dorme per strada «offesa al decoro». Ci vuole coraggio a uccidere uomini e donne già morti assassinati da una Costituzione inattuata, che non potranno mai pagare una multa di «200 euro».

Ciò che conta è che lo show sia visto dai passanti indifferenti perché plaudano ilari e complici.

Forse è solo venuto meno il senso del comune pudore o semplicemente la vergogna di non essere noi al posto dei poveri per strada. Già! Un pensierino io lo farei: e se ci fossi io al loro posto? Come vorrei che i passanti, magari cattolicanti e rosarianti, mi guardassero?

Don Paolo Farinella     La Repubblica Genova 18 luglio 1019


 

“Ho fame, mi dai qualcosa”

Noi, prigionieri dell’indifferenza

A forza di guardare altrove stiamo diventando sordi. L’altra sera al tramonto passava tra ì tavolini del bar l’ennesimo ragazzo nero che offriva calze, fazzoletti di carta e chiedeva spiccioli: «Ho fame, hai qualcosa? Posso mangiare, hai qualcosa?».

Due anziani non hanno alzato lo sguardo dal loro gelato alla crema che si scioglieva. Una mamma e un bambino si erano divisi un tramezzino e l’aranciata e hanno continuato a guardare i rispettivi schermi, lei lo smartphone, lui il gioco digitale. Tre giovani uomini con birre condividevano una scena registrata sul telefonino e ridevano di una ragazza che non c’era. E anche il gabbiano, appostato sul cassonetto, non lo ha degnato di uno sguardo.

Il ragazzo nero – vent’anni, occhi arrossati, pantaloni azzurri e maglietta bianca, probabilmente nigeriano come quasi tutti quelli che lavorano nel racket dei mendicanti – continuava con cantilena automatica da un tavolino all’altro, senza minimamente preoccuparsi di quel vuoto che lo circondava, ignorando anche lui l’indifferenza dei due anziani, della mamma con bambino, dei tre giovani uomini con le birre e pure del gabbiano. Ma senza desistere dalla sua personale catena di montaggio quotidiana.

E avanzando zoppicava. E zoppicando piegava la testa di lato, pronunciando frasi che sembravano sempre più drammatiche: «Ti prego, ho fame. Mi aiuti? Ti prego, posso mangiare anch’io?». Ma senza emozioni. Senza aspettarsi nulla nonostante l’enormità di dire ho fame tra gente che mangiava, beveva, guardava sempre altrove.

Solo che il tono era meno allarmante delle parole: strascicato dal caldo, annoiato della routine. Una recita senza spettatori. La finzione di un dramma senza dramma. Anche se la scena di un ragazzo rimbalzato in quel vuoto di sguardi era un dramma in sé. Un frammento di teatro delle ombre in piena luce.

Ho pensato a quanti di noi – nelle piccole e grandi inquadrature della città, a ogni ora del giorno – hanno imparato a viaggiare dentro a quella medesima, condivisa indifferenza.

E a quanti ragazzini, quanti adolescenti, stiano crescendo abituati dai loro genitori a non vedere, a non sentire quelle interferenze umane, anzi non del tutto umane, che compaiono davanti al supermercato, al forno, al ristorante, al bar. «Hai un euro? Ho fame». Così consuete da diventare mute come un arredo urbano. Invisibili agli occhi, sorde al cuore.

Che adulti diventeranno? Sapranno un giorno scavalcare i muri che oltre a difenderli li hanno imprigionati? Oppure rimarranno perfettamente conclusi nel loro nuovo sesto senso di isolarsi in mezzo al mondo conosciuto senza lasciarsi scalfire da quelli sconosciuti?

Nessuna marginalità urbana – che io ricordi – è mai stata così negletta. Tanto più che questa clamorosa indifferenza, convive con i tamburi dell’allarme sociale che non smettono mai di rullare. Di ricordarci l’assedio. Di dirci state pronti a difendere la nostra sovranità. I nostri confini.

Vuoi un euro? Non ho sentito. Per i cristiani la carità è una delle tre virtù teologali. Per i musulmani è un precetto. Per gli ebrei un segno. Per i laici un gesto. Per i permalosi un alibi. Francesco ha detto che bisogna farla, ma sempre «guardando negli occhi chi chiede» per dirgli, in quel lampo di sguardi, che ci siamo accorti di lui, che l’elemosina non è un nostro gesto distratto, altrimenti è solo «autopromozione pubblica».

Come lo è, almeno qualche volta, la benevolenza esentasse dei miliardari americani, specie se armati, devoti, e con il ciuffo biondo. Centinaia di sindaci, da Nord a Sud, isole comprese, hanno dettato ordinanze anti-mendicanti in nome del «pubblico decoro», del «fastidioso insistere», della «tranquillità dei cittadini». E persino invocando la difesa dello «spazio pubblico», che se lo fosse davvero per tutti, dovrebbe esserlo anche per loro, i mendicanti.

Ma a tutto questo insistere dei mendicanti in primis, dell’allarme sociale, dei precetti religiosi, degli appelli del Papa e dell’inchiostro dei sindaci – ecco comparire la via nuova di questa sovrana indifferenza. Una ginnastica mentale che stiamo adottando per rimanere lontani anche quando siamo seduti. Il ragazzo nero ha finito il giro dei tavoli. Nessuno gli ha dato retta. Provo a chiamarlo, non se ne accorge. Se ne vanno lui e il gabbiano. Il cameriere si avvicina per il conto, dice: «Tanto torna sempre».

Non gli ho chiesto se stava parlando del mendicante o del gabbiano. E forse non c’era poi molta differenza. Siamo tutti viaggiatori di mondi privati sui quali abbiamo appeso il cartello «pregasi non disturbare». Tutti addestrati – come ha scritto André Aciman nel suo libro di molti amori – a non provare nulla per non rischiare di provare qualcosa.

Pino Corrias               La Repubblica   15/7/2019

 

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